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A DISPETTO del letto soffice e caldo che le era stato promesso, non chiuse occhio, tormentata dal pensiero della missione che l’attendeva. Per un tempo indefinito, che a lei sembrò di ore, fissò la testa della sua lancia appoggiata al muro vicino al letto e illuminata da un raggio di luce della luna prima di decidere di alzarsi quando era ancora buio. Febe, che le dormiva addosso, non si mosse. Baciò la testa della bambina prima di posare i piedi sul pavimento, vestirsi e uscire dalla casa e dalla villa, inoltrandosi nella campagna rinfrescata dalla notte. Risalì la costa occidentale. Nel grigiore che precedeva l’alba, camminò tra i sibili e i miagolii dei gatti selvatici con una mano sull’arco da caccia. Di lì a non molto il sole sbucò dall’orizzonte e distese sull’isola le sue ali ardenti, accarezzando colline e prati. Da un rilievo scorse la vicina isola di Itaca avvolta dai primi, tiepidi raggi del sole. Su un’altura c’erano i resti dell’antico palazzo di Ulisse, ruderi spettrali fra cui si intrecciavano tentacoli di luce. Indugiò come sempre a contemplare le antiche rovine. Ma chi avrebbe potuto evitarlo? Era un nostalgico monumento a commemorazione di un compianto eroe, un avventuriero che aveva viaggiato il mondo in un senso e nell’altro e aveva combattuto una grande guerra con la sagacia oltre che con le armi. Tornò a guardare l’aspra vegetazione di Cefalonia con rinnovato disprezzo. Smettila di sognare. Tu non andrai mai via da questa dannata isola. Qui vivi e qui morirai.

Proseguì fino alla base della rocciosa penisola occidentale che si allungava nel mare come la spina di un rovo. Lì si accovacciò come un cacciatore, bevve dell’acqua e studiò il terreno mentre intorno a lei il canto delle cicale cresceva con il crescere della temperatura. Il covo del Ciclope si ergeva sul colmo appiattito di un dosso naturale vicino alla punta della penisola, a circa un chilometro da dove si trovava lei. Era un covo solo per modo di dire, perché il Ciclope non aveva bisogno di nascondersi da nessuno. La proprietà era cinta da un basso muro di pietra dalle cui crepe germogliavano ciuffi d’erba e gerani rosa. All’interno si ergeva con fierezza una villa, con il tetto di tegole di terracotta e colonne doriche dipinte di ocra e blu oltremare davanti a una facciata di marmo chiaro. Contò sei dei suoi sgherri a presidiare le mura esterne, camminando avanti e indietro sui grezzi parapetti da cui dominare con lo sguardo la campagna. L’ingresso a oriente era piantonato da due uomini immobili come statue e c’era un cancello uguale anche sul lato nord. Disgraziatamente il terreno che la divideva dal muro di cinta non offriva nessun riparo: salvo che per pochi cipressi e qualche ulivo, c’erano solo cespugli bassi e radi, tra i quali si aggiravano senza sosta altri quattro uomini, che sorvegliavano i dintorni con gli occhi protetti dall’ampia tesa dei cappelli, mantenendosi sempre in piena vista l’uno dell’altro e delle sentinelle sul muro. Nell’insieme costituivano in pratica un’efficace recinzione che separava quella propaggine dal resto dell’isola come se fosse una proprietà privata del Ciclope.

Impossibile passare.

C’è sempre un modo, le disse all’orecchio Nicolao.

Allora guardò a nord, lungo il pendio di rocce e arbusti che scendeva al mare. Le onde azzurre si spegnevano dolcemente su una strisciolina di pietrisco. Un breve fremito involontario le fece tremare un angolo del labbro superiore nel constatare malvolentieri che Nicolao aveva ragione. Tolse il turacciolo dalla ghirba e la rovesciò lasciando colare l’acqua preziosa nel terreno ingiallito dall’arsura.

A testa bassa e tenendo d’occhio i più vicini dei quattro uomini di pattuglia, scese al mare muovendosi con tutta la prudenza del caso. Avvolse quindi la lancia e l’arco in una pelle oliata, si caricò il fagotto sulla schiena ed entrò nell’acqua bassa. Quando le arrivò all’altezza del seno, si allungò, protese le braccia e si spinse con le gambe risalendo la costa della penisola verso la sua estremità. Alghe e minutaglia le sfiorarono le gambe e il ventre finché non fu in acque più profonde. A ogni due bracciate allungava un’occhiata alla sua sinistra. Nessun segno della guardia più vicina. All’improvviso dall’acqua saltarono fuori dei delfini che lanciarono i loro richiami. Kassandra sentì lo scricchiolio di passi sul pietrisco della spiaggia e vide spuntare la larga tesa del cappello di una sentinella che veniva a indagare. Prese un bel respiro e s’inabissò. Attraverso le increspature azzurre dell’acqua vide i delfini che nuotavano con lei. Guardando verso la spiaggia, scorse gli stinchi della guardia che scendeva nell’acqua per osservare meglio. Attraverso la superficie ne vedeva la sagoma distorta, con la lancia tenuta contro il petto. Ma non si spinse troppo lontano, si fermò con l’acqua alle ginocchia. C’erano solo dei delfini che stavano giocando e l’uomo sembrava contento di starsene lì a crogiolarsi nel sole... mentre i polmoni di Kassandra cominciavano a bruciare dell’aria ormai priva di ossigeno. Se fosse emersa in quel momento sarebbe stata bell’e che morta. Se non lo avesse fatto, lo sarebbe stata altrettanto. Punti neri le esplosero negli occhi e si sparsero lungo i bordi della sua visuale mentre il fiato ormai consumato le sfuggiva dalle labbra in un brulichio di bolle come topi che scappano da una nave che affonda. Quando l’artiglio freddo del panico era ormai sul punto di ghermirla, staccò con calma il pollice dall’imboccatura della sua ghirba piena d’aria, trasse un bel respiro profondo e riprese a nuotare rinfrancata.

L’aveva spiata da lontano, l’aveva vista prendere tempo per calcolare come meglio avvicinarsi al covo del Ciclope. Ora la guardò riaffiorare dolcemente poco oltre la punta della penisola e l’ingresso settentrionale, nemmeno troppo lontano dalla postazione che si era scelto. Fino a quel momento era stata all’altezza della sua fama.

«E presto sapremo se è così abile e micidiale come dicono», pensò incrociandosi le braccia sul petto e concedendosi un sorriso malizioso.

Kassandra emerse dall’acqua e si issò su una levigata sporgenza rocciosa, riscaldata dal sole. Si inoltrò tra le rocce camminando abbassata al riparo dei cespugli. In non più di un centinaio di passi il sole l’aveva quasi completamente asciugata. Nei pressi del lato settentrionale del muro di cinta si nascose dietro un masso da dove osservare le due guardie che sorvegliavano il cancello. Indossavano corsaletti di cuoio e uno dei due aveva una bandana rossa. Uno si stringeva di traverso contro il petto una lancia di buona fattura mentre l’altro aveva una piccola ascia appesa alla cintura. Attraverso il cancello non scorse movimenti intorno alla villa, non c’era nessuno a presidiare il tetto a terrazza o il vestibolo dell’ingresso. Evidentemente il Ciclope aveva portato con sé il grosso dei suoi uomini. La chiave stava nel muro di cinta. Se fosse riuscita a superare quella barriera, nella villa incustodita avrebbe avuto libertà d’azione. Doveva sbarazzarsi delle sentinelle al cancello, ma come farlo senza allertare la decina di sgherri che pattugliavano i parapetti? Un lieve fruscio le fece balzare il cuore in gola per lo spavento. «Icaro, per tutti gli dèi!» sibilò. Icaro le rivolse un’occhiata torva e si alzò in volo. Kassandra si affrettò ad abbassare la testa dietro il masso seguendo con un occhio solo l’aquila macchiata che planava verso il cancello. Le due sentinelle non si accorsero del suo arrivo finché non fu loro addosso e con un battito delle ali accelerò passando sopra la testa di uno dei due con gli artigli protesi ad afferrare la bandana rossa.

«Malákas!» strepitò la sentinella piantandosi una mano sulla testa e lanciando improperi all’uccello che oltrepassava il muro. Entrarono entrambi all’inseguimento di Icaro. Alcuni di quelli che si trovavano sopra di loro risero e sbeffeggiarono la vittima della rapina.

Senza perdere di vista le schiene delle due guardie distratte dall’aquila, Kassandra partì di corsa, a passi silenziosi e rapidi come quelli di un gatto. Mentre varcava la soglia del cancello, i due si stancarono di seguire Icaro e cominciarono a voltarsi per tornare indietro. Come se colpita dal gancio di un pugile invisibile, Kassandra si tuffò a destra scomparendo alla loro vista nell’intrico di un cespo di ginestrone che cresceva contro la base del muro. I rami si richiusero e trattenendo il fiato ardente nei polmoni, Kassandra osservò attraverso il cespuglio le due guardie che passarono a poche spanne da lei... e tornarono al loro posto al cancello. Quelli che si trovavano sul muro di cinta ripresero a scrutare il terreno davanti alla villa. Era all’interno, non vista.

Con il cuore che le batteva ancora forte nel petto, rivolse la sua attenzione alla villa. L’ingresso principale sembrava la bocca aperta di un animale con le rosse colonne gemelle a fiancheggiarla come canini intinti nel sangue. Attraversò il tratto allo scoperto tenendosi al riparo di carri, cataste di botti, covoni di fieno e baracche di legno, finché fu a pochi passi dalla sua meta. Le tremavano le gambe dalla voglia di lanciarsi all’interno e fu solo l’amara esperienza a trattenerla accovacciata dov’era. Non riesco a vedere un bel niente là dentro, rifletté. Per quel che ne so potrebbe esserci una decina di ciclopi nascosti in quel buio. Guardò invece in alto, dove si vedeva la porta che dalla terrazza scendeva all’ultimo piano dell’edificio. Scivolò fino alla base del muro della villa e si arrampicò approfittando dell’edera che lo copriva. Sul tetto del portico le scivolò un piede che colpì una mattonella di terracotta. La mattonella si crepò e scivolò roteando verso terra. Kassandra staccò una mano dall’edera e l’acchiappò in tempo con un sospiro di sollievo.

Invisibile e furtiva, le sibilò nella mente Nicolao. Uno spartano deve essere agile e silenzioso, come un’ombra.

«Io non sono una spartana, io sono una reietta», ribatté lei in malo modo per zittire la voce. Poi volteggiò oltre la balaustrata di marmo.

La porta ad arco che conduceva all’interno della villa era un’apertura immersa nell’oscurità come l’ingresso principale. Prese un respiro profondo e si avventurò all’interno con circospezione, una mano vicino all’asta della lancia, l’altra protesa per mantenersi in equilibrio nel caso avesse dovuto scartare o rotolare via per un attacco improvviso. Per un momento fu accecata dal buio, muovendo di scatto la testa in tutte le direzioni e sferzando l’aria con la lunga treccia come una frusta. Le sembrava di vedere dappertutto guardie che le piombavano addosso inferocite, fendendo l’aria con una miriade di lame... finché gli occhi si abituarono all’oscurità e vide solo una stanza da letto tranquilla e deserta. Un dipinto a tinte vivaci che occupava una delle pareti mostrava la scena di una battaglia, con un gigante con un occhio solo che trionfava su un gran numero di nemici più piccoli. In fondo alla stanza c’era un sontuoso letto con lussuose coperte di seta. Qui dentro non c’è niente, concluse... prima di girarsi e vedere il plinto di marmo pario accanto al focolare. I trofei che vi erano posati sopra la raggelarono fin nel midollo.

Tre teste essiccate e montate su sostegni di legno come gli elmi di un’armatura da guerra. Si avvicinò con diffidenza quasi temendo di veder spuntare i loro corpi ed essere aggredita. Ma erano tutti e tre morti da chissà quanto tempo. Uno, con i denti guasti e i capelli lunghi, era evidentemente morto soffrendo a giudicare dal rictus che gli straziava la bocca. Quello accanto a lui era un giovane che aveva avuto il naso tranciato e trasformato in un grumo informe al centro di un volto ora sereno. La terza testa era di una donna di mezza età, fissata in un urlo cieco, con la bocca aperta come se stesse gridando: Dietro di te!

Un’asse del pavimento scricchiolò.

Kassandra ruotò su se stessa estraendo a metà la lancia, percorsa da un fremito di paura come una lingua di fuoco.

Niente.

Sentiva il cuore batterle contro le costole. Se l’era immaginato? Ripose la lancia e diresse un’altra occhiata alle teste. Nessuna apparteneva a Skamandrios, ne era certa. Forse era veramente riuscito a rubare la preziosa reliquia ed era scappato a nord a fare la vita di un gran signore. Quel pensiero le istillò una temerarietà che la spinse ad avvicinarsi in punta di piedi alla porta della stanza con una notevole fiducia in se stessa. Fece lentamente capolino e ispezionò il pianerottolo. Niente a sinistra, niente a destra e poi, proprio davanti a lei... due guardie!

La sua mano scese immediatamente alla lancia, ma subito dopo si rese conto che «le guardie» altro non erano che due vecchie armature. Corazze, elmi e gambiere di bronzo probabilmente trafugate dalle rovine del vecchio palazzo su Itaca. Le ragnatele che avevano riempito gli elmi sembravano facce afflosciate.

Attraversò il pianerottolo per studiare da vicino le altre due porte. Una doveva essere quella della stanza privata del Ciclope. Sull’isola la gente diceva che dormisse nell’oro, e non aveva tutti i torti a pensarla così. Andò dapprima all’altra porta, a sinistra, e ruotò lentamente la maniglia. La serratura reagì con un tonfo e la porta si aprì con un cigolio metallico. Il rumore le scatenò nella pancia una gragnuola di frecce di ghiaccio. Trattenne il fiato per un momento... ma nessuno aveva sentito niente. Confortata, guardò cosa c’era nella stanza. Niente. Solo nude pareti di pietra e un pavimento di assi grezze. L’unico mobile era un vecchio armadio malridotto contro il muro di destra. Era privo di ante ed era vuoto.

Passò a destra e ruotò delicatamente la maniglia della seconda porta. Si aprì senza rumore su un autentico tesoro. Un filo di luce entrava da uno stretto occhiello aperto nel soffitto. Attraverso il pulviscolo che volteggiava pigramente nella luce dorata, posò gli occhi su casse di avorio piene di monete e monili, un banco carico di oggetti d’argento, cerchietti, coppe e gettoni, un ripiano pieno di lapislazzuli di un azzurro incantevole, opali, sardonio, collane di ametista, un arco da guerra ornamentale ornato di fili di alpacca. E laggiù, in fondo, nel punto dove il filo di luce lasciava di nuovo il posto all’ombra, c’era l’occhio. Kassandra si inumidì le labbra rinsecchite. Era posato su un basamento di cedro, sistemato in modo da fissarla con la sua pupilla d’oro. Quello era il tesoro più grande di tutti, più prezioso di qualsiasi sacca di monete o gemme. Non aveva che da andare fin laggiù passando oltre gli altri tesori... e prenderlo.

Prendilo!

Fece un passo e si fermò. Fu una sensazione quasi impercettibile a indurla a non avanzare, un odore sbagliato. Oltre a quello del metallo e delle sostanze usate per lucidare, c’era un odore di... morte, decomposizione. Guardò a destra e a sinistra. Il montante di pietra a sinistra della porta era rovinato, come se un muratore vi avesse picchiettato una griglia di forellini. Sul lato destro della porta il rivestimento della cassa era in legno di cedro e non in pietra. Socchiuse gli occhi. Si accosciò e allungò il braccio oltre la soglia della stanza stringendo l’arco nella mano. Diede quindi un colpetto con la punta dell’arco sulla prima asse del pavimento.

Con un forte sibilo e una ventata il montante di legno di cedro sulla sinistra del telaio esplose all’improvviso. Kassandra cadde all’indietro portandosi l’arco al petto mentre una massa informe attraversava il vano della porta e andava a cozzare contro il montante di sinistra con un rintocco metallico e una pioggia di scintille. Mentre si rialzava, Kassandra studiò più attentamente il congegno: una griglia di chiodi di ferro per tutta l’altezza e la profondità del passaggio che, se avesse messo piede su quell’asse, l’avrebbero ridotta a brandelli. Contemplò per qualche attimo il cadavere di Skamandrios, infilzato dai chiodi. Era più scheletro che carne, ossa dalle quali penzolavano solo scampoli di pelle indurita. Uno degli spuntoni gli era penetrato in una tempia, un altro nel collo, molti gli si erano conficcati nel petto e nelle membra. «Almeno per te è stata una cosa veloce, Ombra», mormorò.

Con la trappola scattata in quel modo l’ingresso alla camera di sicurezza era bloccato. Indietreggiò contrariata e fu in quel momento che udì le voci di due guardie che stavano venendo verso la villa.

«Il sole comincia a picchiare. Io vado a occuparmi dei cavalli nella scuderia, tu chiudi la villa», sentì dire da uno dei due. «Stasera il padrone torna a casa e se le stanze non sono abbastanza fresche la prenderà male.»

Un istante dopo sentì i loro passi al piano inferiore e gli scatti e i tonfi di porte e finestre che venivano chiuse e sbarrate.

Non faccio più in tempo, calcolò Kassandra mentre il respiro le si faceva più serrato. Doveva sparire da lì, ma non poteva andarsene senza aver preso l’occhio. Chiuse la porta per nascondere la trappola e si guardò intorno. Dal pianerottolo non vide nessun altro modo per entrare in quel locale. Ripensò all’apertura nel soffitto. Forse avrebbe potuto salire sul tetto e calarsi da lì... No, era troppo stretta persino per un bambino. I suoi pensieri sfrecciarono in mille direzioni diverse finché non sostarono nuovamente sull’altra stanza. Perché un malnato ricco e assetato di potere come il Ciclope avrebbe una stanza completamente spoglia in una villa come questa? si domandò, guardandosi intorno e trovando conferma che, almeno al piano di sopra, l’ambiente era a dir poco lussuoso. Tornò davanti alla porta aperta della prima stanza e saggiò il pavimento con l’arco. Niente trabocchetti. Entrò, si girò verso il muro che divideva quel locale dalla camera di sicurezza e osservò con sospetto l’armadio privo di ante. Lo afferrò con una mano per parte e lo spinse il più silenziosamente possibile. Dietro c’era una botola di legno. Con il cuore che prese a batterle più forte sollecitato dall’anticipazione, ruotò la maniglia ed entrò carponi nell’altro locale, prestando la massima attenzione a ogni suo movimento, per tema di farsi decapitare da una lama che scendeva improvvisa dal soffitto o di precipitare in una fossa piena di ferri appuntiti. Ma non c’erano altre trappole. Senza perdere altro tempo, prese l’occhio di ossidiana e nel momento in cui ne avvertì il peso nella mano, non poté non pensare a come quel trofeo avrebbe risolto tutti i guai suoi e di Marco. Uscita sul pianerottolo, mentre tornava verso la porta con la trappola e si apprestava a ridiscendere appendendosi all’edera, udì un sospiro che soffocò sul nascere il senso di esaltazione che stava cominciando ad affiorarle nell’animo.

«Resta solo la camera da letto e poi di sopra ho finito», borbottò tra sé la guardia attraverso l’apertura nell’elmo di cuoio che gli copriva la faccia quasi per intero.

Kassandra scomparve nell’ombra schiacciandosi contro il muro, da dove guardò lo sgherro entrare nella camera prima che potesse farlo lei. Sentì il rumore delle imposte che venivano chiuse e poi lo sferragliare di una catena. Pochi istanti dopo la guardia uscì e ridiscese le scale.

Kassandra lo seguì come fosse la sua ombra, misurando i passi in modo da nasconderli facendoli corrispondere a quelli di lui. Arrivarono insieme alla porta principale. Se la guardia l’avesse chiusa a chiave quando lei era ancora dentro... le si annodò lo stomaco immaginando una quarta testa sulla mensola di marmo al piano di sopra.

In quel momento la guardia lasciò cadere il mazzo di chiavi. Quando si chinò per raccoglierlo, Kassandra avanzò di un altro passo. Le assi del pavimento scricchiolarono e la guardia si rialzò di scatto ruotando contemporaneamente su se stessa. L’ascia di cui era dotato salì rapida nell’aria mentre la sua faccia si contraeva in una maschera feroce e la bocca si apriva per lanciare l’allarme ai compagni. Il grido non gli uscì mai dalla gola. In un unico gesto fulmineo Kassandra impugnò il piccolo coltello nascosto all’interno del bracciale e lo scagliò sulla guardia. La lama gli penetrò per intero nella gola. Cominciò ad accasciarsi mentre intorno alla ferita affiorava una schiuma rosa e Kassandra s’affrettò a sostenerlo per ridurre al minimo il rumore della sua caduta. Guardò per un momento l’uomo, il mazzo di chiavi, gli indumenti che indossava, la porta, la via per la libertà.

L’osservatore guardò la guardia uscire dalla villa e attraversare il cortile avvolta in un mantello nero. La sentì scambiare qualche parola con il compagno di sentinella al cancello prima di proseguire all’esterno del muro di cinta. Si sentì scuotere da un fremito di soddisfazione: era tutto quello che avevano sperato che fosse. Si protese dalla sua postazione come un corvo, lo sguardo fisso senza un batter di ciglia.

Kassandra sentiva il proprio fiato frusciare nello spazio ristretto dell’elmo di cuoio come il frangersi delle onde sulla riva. Quel che era peggio, a giudicare dal tanfo, la guardia che aveva ucciso e a cui aveva sottratto l’elmo doveva aver masticato aglio crudo per almeno un anno. Faceva del suo meglio per mantenere un’andatura indolente, quasi svogliata, mentre si allontanava dalla villa del Ciclope e si addentrava tra i cespugli accarezzando nel palmo dell’altra mano l’ascia che aveva preso alla sua vittima. Il pretesto che aveva scelto era semplice: «Vado a perlustrare qui intorno. Sono sicuro di aver visto qualcosa dall’ultimo piano della villa». Troppo provato dalla calura del mezzodì l’altro piantone non notò il suo improbabile tentativo di imitare una burbera voce maschile.

Benedisse l’invisibilità e la temperatura accogliente entrando in una macchia di abeti e ginepri che l’avvolse nelle sue ombre. Assaporò la sensazione del soffice tappeto di aghi su cui camminava e l’aroma pungente delle conifere. Poco più avanti, attraverso un’apertura, scorse una pennellata di blu. La riva. Uscì allo scoperto animata da un crescente e appagante senso di vertigine sull’onda della promessa di successo ormai a portata di mano.

I rintocchi lenti e misurati di mani che applaudivano arrestarono la sua marcia pervadendola di sacro terrore.

«Eccellente, eccellente», disse una voce.

Lo sconosciuto sedeva su un tronco caduto nell’ultima fila di alberi intorno alla radura. Era un ometto smilzo, con pochi capelli castani pettinati in avanti. Indossava una candida tunica bianca ornata da una luccicante banda d’argento e un gran numero di bracciali e collari ai polsi e al collo. Un uomo ricco, capì all’istante, e non di quell’isola.

«Capita di rado che al Ciclope di Cefalonia venga rubato uno dei suoi tesori conquistati con tanta fatica», commentò lo sconosciuto scosso da una risatina.

Kassandra rabbrividì. C’era qualcosa nel tono della sua voce... qualcosa di eccessivamente confidenziale, qualcosa di supponente. E quel modo che aveva di guardarla, gli occhi che le accarezzavano il corpo. Non era uno sguardo concupiscente, ma c’era lo stesso un sottinteso di desiderio.

«Allontana pure le mani da quell’ascia. Non hai nulla da temere da me.»

Kassandra non si concesse il minimo segno di disagio, si rifiutò di battere le palpebre e meno che mai ripose l’ascia rubata alla guardia. In quel momento Icaro scese a posarlesi su una spalla e a lanciare un grido alla volta dello sconosciuto. Da cacciatrice, Kassandra registrò ogni minimo particolare della sua visione periferica. Non c’era nessun altro nel bosco. Notò invece qualcos’altro: là in fondo, in una piccola insenatura, c’era un’imbarcazione ormeggiata a un pontile di legno. A fissarla c’era la truce testa di gorgone della vela che i marinai a bordo stavano issando sul pennone.

«Chi sei?» chiese a denti stretti.

«Sono Elpenore di Cirra», rispose lui, pacato.

Cirra? pensò Kassandra. Sulla via di Delfi, la sede dell’Oracolo. Le venne una gran voglia di sputare.

«Sono venuto a cercarti perché ho sentito grandi cose su di te, il misthios di Cefalonia», disse Elpenore.

«Hai sbagliato persona», ribatté lei in malo modo. «Ci sono molti mercenari su quest’isola.»

«Nessuno bravo come te, Kassandra», dichiarò lui e il timbro della sua voce assunse un’eco di funerea freddezza. «Sovrannaturale velocità di corpo e mente.»

Kassandra si tolse dalla testa l’elmo e lo gettò nell’erba. La treccia fino a quel momento nascosta le si srotolò sul seno. «Cosa vuoi da me? Parla chiaro se non vuoi che ti ficchi quest’ascia nel petto.»

Elpenore rise divertito e tutto il suo corpo vibrò. «Voglio offrirti un’enorme ricchezza, Kassandra. Più del doppio del valore dell’occhio di ossidiana che hai preso al Ciclope.»

Lei si toccò la borsa controllando che l’occhio fosse ancora al suo posto. Lo era. Due volte tanto? Abbastanza da ripagare il Ciclope e comprare una casa come si deve per Febe. Ma soprattutto avrebbe potuto spezzare le catene della povertà che la imprigionavano su quell’isola. Avrebbe potuto scegliere un posto qualsiasi dove andare, fare qualunque cosa. Si sentì pervadere di terrore e meraviglia. Poi quando si accorse di nuovo del modo bramoso con cui le guardava le braccia nude, s’irrigidì e lo contemplò dall’alto in basso. «Io non mi offro agli uomini per denaro. E poi tu sei vecchio e potrei spezzarti le ossa.»

Elpenore inarcò le sopracciglia. «Non è il tuo corpo che voglio, non in quel modo quantomeno. Sono venuto a offrirti un grosso premio in cambio di una testa.»

«Ne hai già una», lo canzonò Kassandra.

Elpenore sorrise solo con mezza bocca. «La testa di un guerriero. Un generale spartano.»

Kassandra si sentì mancare la terra sotto i piedi.

«Lo chiamano il Lupo», disse lui.

Kassandra si ricompose ignorando il sudore che le era affiorato sulla schiena. «I generali sanguinano come qualunque altro uomo», commentò con un’alzata di spalle. «Compresi gli spartani, alla faccia della loro malriposta presunzione.»

«Dunque accetti?»

«Dov’è?»

«Dall’altra parte del mare. Nel luogo più desiderato di tutto il mondo greco.»

Kassandra socchiuse gli occhi. Seguì la direzione del suo sguardo girando la testa a oriente. Pensò alla foschia che velava l’orizzonte sul mare e allo scorrere incessante di galee ateniesi che entravano nel Golfo di Corinto a rinforzare l’assedio di... «Megara? È a Megara?»

Elpenore annuì. «Nel tiro alla fune tra Sparta e Atene, la città di Megara e la sua stretta striscia di terra sono la corda. Atene vuole i suoi porti gemelli per completare il suo cappio navale intorno all’Ellade e Sparta vuole impossessarsene per usarla come ponte di accesso all’Attica.»

Kassandra fece un passo all’indietro. «Dunque sarebbe dentro il blocco ateniese?»

«Il Lupo e le sue truppe sono giunte via terra dalla Laconia e dirigono ora su Pagai, il porto occidentale di Megara.»

«Perché lo vuoi morto?»

«La guerra infuria e... il Lupo è dalla parte sbagliata.»

Lei gli lanciò un’occhiata piena di scetticismo. «Come fai a sapere di essere dalla parte giusta?»

Lui si tolse una borsa dalle pieghe della tunica e la agitò, facendo tintinnare le dracme che conteneva.

«Perché io sono quello che ti paga, prendi qui.» Le lanciò il sacchetto. Kassandra lo acchiappò al volo piacevolmente sorpresa da quanto pesava. «Fai come ti ho chiesto, misthios, e avrai dieci volte tanto.» Il suo sorriso cancellò ogni traccia di buonumore dagli occhi.

«Ho bisogno di una barca per forzare quel blocco», dichiarò lei dopo un attimo di riflessione. «Dammi la tua e accetto.» Indicò con un cenno la galea con la testa di gorgone. Solo una volta per la verità era stata in mare da quando era diventata una mercenaria quando aveva circumnavigato Cefalonia a bordo di una vecchia bagnarola mezza marcia per portare pelli rubate a uno dei complici di Marco.

«Quando avverrà le mie vele non possono essere viste nelle vicinanze, misthios», affermò Elpenore in tono reciso.

«Ma senza un’imbarcazione non posso accettare. Atene ha eliminato tutte le flotte dei suoi alleati già da anni, costringendoli a versare i loro averi nelle casse della Lega delio-attica allo scopo di rafforzare la propria marina. Sono ben poche le galee in condizioni accettabili rimaste in mani private e nessuna di quelle di Cefalonia è abbastanza veloce da eludere un blocco.»

Elpenore arricciò il naso. «È un’impresa troppo grande per te, misthios? Ti ho sopravvalutata?» Quando lei non rispose subito, si alzò e le voltò le spalle, avviandosi verso gli alberi e il sentiero che scendeva alla sua imbarcazione.

«Non c’è niente di troppo grande per me, vecchio», lo apostrofò lei. «Avrai presto la testa del Lupo.»

Elpenore si fermò e si girò a guardarla. «Bene. Quando avrai fatto, vieni a cercarmi a Cirra, all’Approdo del Pellegrino.»

* * *

Kassandra risalì la costa diretta alla vigna di Marco. Lo strano congedo di Elpenore le danzava nei pensieri come le spirali di un seme di sicomoro. Al momento tutto le sembrava oscuro e irreale. A Cirra non era mai stata. Il Lupo, non l’aveva mai conosciuto. Mai si era avventurata oltre le acque costiere di Cefalonia. Non una volta in vent’anni di vita. Che stupida, si rimproverò. Perché non sei capace di dire di no a una proposta sospetta? Prima Marco e i suoi ignobili traffici e ora questo incarico che ha tutta l’aria di una trappola mortale. Rise forte sorprendendo se stessa. «Questo Lupo è al sicuro. Io non lascerò mai quest’isola maledetta.»

Poco più avanti sbucò da dietro una roccia sulla chiara sabbia della Baia di Cleptos. Si fermò per staccarsi dalla cintura la ghirba e dissetarsi, ma non la portò mai alle labbra.

«Giuro di aver detto sempre e solo tutta la verità. Ti prego non portarmela via!»

L’implorazione attraversò la baia in una voce contratta dalla disperazione.

Subito Kassandra si abbassò e si fece scudo agli occhi con la mano. Sulle prime vide solo la schiuma bianca delle onde, gli uccelli marini nel cielo e qualche capra selvatica che brucava i ciuffi di ammofila. Solo a una seconda occhiata individuò la trireme ferma più su, lungo la costa della baia, con la poppa nella sabbia e la prua che dondolava nell’acqua. Era più piccola delle galee da guerra di Atene e anche dell’imbarcazione di Elpenore, quella con la testa di gorgone, ma era uno scafo slanciato ed elegante, con una banda nera alla carena e rossa ai parapetti. La poppa si alzava in una curva come la coda di uno scorpione e sul rostro era montato uno scintillante ariete di bronzo con gli occhi dipinti su entrambi i lati.

«Per me l’Adrestia è la mia vita», gemette la voce di prima.

«Adrestia», mormorò Kassandra. La dea della rivalsa... e il nome di quella nave? Con un brivido lungo la schiena rimuginò su quel nome. L’Adrestia, l’Adrestia, ripeté schioccando le dita senza riuscire a ricordare come mai quel nome le era familiare.

Scorse anche dei movimenti a bordo. Le forme in miniatura di banditi che legavano dei marinai inginocchiati e bastonavano quelli che cercavano di alzarsi. Ce n’era uno più anziano, piegato in due da un gigante che gli teneva la testa a pochi centimetri da un capiente bacile di terracotta. Il poveraccio si dimenava e divincolava invano. Sentì di nuovo la sua supplica angosciata. «Per la bontà degli dèi, risparmia me, e risparmia la mia nave!»

Il grido si concluse in un frenetico gorgoglio quando il gigante gli tuffò la testa nella tinozza facendone traboccare acqua e schiuma. A quel punto la vista di Kassandra si fece acuta come quella della sua aquila e allora vide il gigante per colui che era e ricordò dove aveva già sentito parlare dell’Adrestia. Le echeggiarono nella mente le parole di Marco: L’Adrestia è una delle ultime galee rimaste sull’isola. E il Ciclope si è messo in testa di impossessarsene.