4

«ISSARE la vela!» gridò Barnaba. Mentre il grande stemma dell’aquila veniva arrotolato, venti uomini presero posto sulle panche rivestite di cuoio disposte lungo entrambi i parapetti della nave. Ciascuno di loro sollevò un lungo remo di legno di abete e lo infilò attraverso un anello di cuoio appoggiandolo allo scalmo. Subito dopo i remi affondarono nelle onde con un ritmico rumore di sciabordio.

Megara era in vista, ma la trasferta era tutt’altro che compiuta.

Piazzatasi a prua, Kassandra guardava la foresta di galee ateniesi verso cui erano diretti. Vele a strisce scosse dal vento, una selva di alberi maestri e carene impermeabilizzate con la pece. Tutte le navi erano cariche di opliti, arcieri, frombolieri, peltasti*. In un gran luccichio di armi e corazze. C’erano persino dei cavalli tessalici con la testa bendata per evitare che fossero presi dal panico alla vista dell’oceano. C’era un autentico esercito galleggiante a frapporsi tra l’Adrestia e il porto di Pagai sulla costa di Megara velata dalla foschia.

«Devo affrontarlo», sussurrò. Era un mantra che ricorreva nei suoi pensieri da due giorni, da quando alla vigilia del viaggio aveva appreso la vera identità del Lupo. «Ma è impossibile forzare questo blocco navale.»

Le navi erano disposte a ranghi serrati su quattro o cinque file. Kassandra vide le squadre dei peltasti in tunica bianca a bordo delle due triremi più vicine voltarsi verso il piccolo vascello lanciato verso la flotta schierata come un topo che dà l’assalto a un branco di leoni. Li vide gridare e puntare il dito e sentì il comandante dare l’ordine di prendere la mira con i loro giavellotti. Si girò a lanciare un’occhiata a Barnaba e ai suoi uomini con l’intenzione di dire loro che era stato un errore e dovevano tornare indietro. Forse, spostandosi più a nord o a sud, avrebbero potuto attraccare su uno dei lati del Golfo di Corinto. Da là avrebbero marciato via terra e forse in un mese o giù di lì sarebbero arrivati a Pagai...

«Kybernetes*», urlò Barnaba prima che Kassandra potesse aprire bocca. «Vira... vira... vira

All’ombra della coda di scorpione della galea, Reza, il timoniere dalla pelle nera come il carbone, spinse a sinistra le barre gemelle per far girare l’imbarcazione verso destra e lo sforzo della pressione che esercitò affiorò in un tremito nelle sue spalle possenti. Gridò per la fatica della manovra e due compagni accorsero ad aggiungere il proprio peso al suo.

La galea si inclinò bruscamente a destra fendendo le onde che ribollirono sibilando. Kassandra dovette afferrare il corrimano per non perdere l’equilibrio. Un’ondata la scavalcò investendo la tolda mentre i giavellotti scagliati dai peltasti ateniesi finivano inoffensivi nella schiuma sollevata dalla scia dell’Adrestia. Quando la galea si fu riassestata, Kassandra si trovò a guardare incredula una solitaria trireme ateniese che, poco distante da loro, offriva il fianco alla prua dell’Adrestia. Barnaba l’aveva individuata in mezzo a tutti gli altri scafi, un punto debole nello schieramento del blocco navale.

«Eeee: O-opop-O-opop-O-opop...» scandì sempre più veloce il keleustes*, battendosi con forza un pugno nel palmo della mano mentre percorreva avanti e indietro il centro della coperta. A ogni ripetizione i rematori incrementavano la forza della vogata spingendo l’Adrestia a velocità sempre più incredibili. Il rostro di bronzo proteso dalla prua piombò sul fianco della galea ateniese. Kassandra vide le espressioni sbalordite dei soldati nemici mentre Barnaba urlava: «Tenetevi!»

Uno schianto assordante di legni infranti si propagò nell’aria. L’Adrestia sobbalzò e per un momento il cielo fu oscurato da nuvole di schegge mentre nel contraccolpo Kassandra si sentì quasi staccare le braccia dalle spalle. L’Adrestia passò attraverso la nave nemica in un coro di urla, le due metà dello scafo speronato si aprirono come i battenti di una porta, l’alto albero di maestra precipitò nell’acqua tra i membri dell’equipaggio e i soldati appesi ai relitti dimezzati. La confusione si consumò rapidamente come era iniziata.

Kassandra si girò a guardare il caos dei resti della nave speronata nell’acqua spumeggiante e pensò che senz’altro ora la flotta ateniese si sarebbe lanciata tutta quanta contro di loro.

«Non ci inseguiranno», la rassicurò Barnaba. «Non rischieranno di avvicinarsi troppo alla costa solo per catturare una barchetta come la nostra.»

La costa, pensò tornando a guardare le spiagge e gli scogli di Pagai. Una scarica di gelide spine le trapassò il cuore nel rendersi conto che ora non aveva più scuse. Lei era lì... e lì c’era anche lui. Scrutò la costa con il cuore in gola. Niente.

La nave accostò in un tratto di spiaggia deserta e la prua scivolò a incastrarsi nel pietrisco. Kassandra saltò giù e si guardò subito intorno. Dove sei, Lupo?

Un’esclamazione strozzata la fece sobbalzare. Un soldato ateniese della nave che avevano speronato stava raggiungendo in quel momento la terraferma ansimando e sputando, con l’exomis bianco e blu inzuppato di acqua di mare. Allora ne vide altri lungo la costa, che arrivavano nuotando a centinaia dal relitto. Alcuni usavano lo scudo per sostenersi ed erano quasi tutti armati. Dalle altre navi del blocco si levavano grida di incitamento. Per un attimo sembrò quasi che gli ateniesi avessero stabilito un improbabile caposaldo sulla costa della baia.

Finché dalla pineta un’orda rossa non si riversò sulla spiaggia.

Kassandra si tuffò dietro un cespo di ginestra e da lì guardò emergere correndo dalla pineta un lochos* spartano, un reggimento di cinquecento uomini, un quinto della elitaria popolazione degli spartiati purosangue. Scendevano con i mantelli rossi al vento e barba e capelli stretti in acconciature compatte, file ondeggianti di soldati che marciavano in sincronia a piedi scalzi. Gli elmi luccicavano nel sole del tardo pomeriggio, accendendo il rosso sangue della lettera lamda sugli scudi di bronzo e riflettendosi sulle lance puntate come dita accusatorie sugli ateniesi spiaggiati.

Calarono sulle loro prede in silenzio, feroci e implacabili. Le loro lance affondarono nel petto dei malcapitati, schizzi di sangue si levarono dalla mischia tra le grida di dolore dei feriti. Gli ateniesi che ancora nuotavano o arrancavano carponi nell’acqua bassa furono abbattuti senza pietà dagli aculei della base di bronzo delle lance spartane. Quando un gruppo di sei o sette ateniesi ebbe l’ardire di opporre resistenza, un soldato si staccò dalla falange degli spartani come una folgore scagliata da Zeus. Di lui Kassandra vedeva ben poco, il rosso svolazzante della tunica, l’antiquato elmo corinzio che gli nascondeva testa e faccia, la lancia che brillava nel sole. Caddero tutti e sette, trafitti. In breve tempo le centinaia di sopravvissuti della nave speronata furono ridotti a un mucchio di cadaveri galleggianti in un acquitrino sanguinolento. Sulla baia calò il silenzio rotto solo dal rumore delle onde che lambivano dolcemente la spiaggia.

Quando finalmente poté vederlo bene, Kassandra seppe di essere al cospetto del Lupo, visto che portava l’insegna di un generale, un pennacchio inclinato, rosso come il suo mantello inzaccherato di sangue. Fissò la T dell’elmo cercando di scorgere qualcosa del suo volto, e dal passato riemersero ricordi che la ustionarono come lingue di fuoco. Il cuore le salì in gola e la spada di Leonida le vibrò nel pugno.

Gli uomini intorno al Lupo levarono le armi per acclamarlo. «Aroo!» gridarono in solenne segno di vittoria.

L’atmosfera che si era creata e il gran numero di quei guerrieri richiamarono Kassandra alla cruda realtà. Non era certo il momento più opportuno per attaccare, quindi ripose la lancia e la nascose sotto il mantello e il fuoco che l’aveva invasa si spense. Vide il Lupo andare a posare una mano sulla spalla di un ufficiale più giovane. «Hai combattuto bene, Stentore», lo sentì dire. Dopodiché il generale spartano, suo padre... il suo obiettivo, si girò e lasciò la spiaggia imboccando un sentiero che risaliva serpeggiando la scogliera, accompagnato da alcuni dei suoi uomini.

Quando Kassandra si girò a guardare dietro di sé, trovò Barnaba che la fissava con trepidazione. Aspetta qui, gli intimò con il movimento delle labbra, poi uscì da dietro il ginestrone e si avvicinò ai soldati spartani. Il primo ad accorgersi di lei fu Stentore, che si mosse per sbarrarle il passo.

Aveva qualche anno più di Kassandra, almeno trenta, considerato che apparentemente era un ufficiale. La osservò impassibile da sopra una barba nera come l’inchiostro che gli incorniciava le labbra sottili e il naso dritto come una lama. Era muscoloso e magro... forse troppo magro... il prezzo di battaglie e fame? Le sue labbra si contrassero, cariche di aspre parole di sfida, ma poi si accorse dell’Adrestia ormeggiata poco distante, guardò gli ateniesi morti e poi i resti galleggianti della nave speronata. «Tu... tu hai affondato quella galea?» domandò e le sue parole furono sottolineate dallo schiocco prodotto da un avvoltoio che staccava un occhio dalla testa di un ateniese morto.

«Mi ostacolava», rispose Kassandra nel suo stesso tono brusco.

Vide la scintilla di rispetto che si accese nei suoi occhi e seguì la direzione del suo sguardo marziale in cima alla scogliera, dove ora sostava il Lupo a contemplare la baia, con il mantello che ondeggiava nella luce arrossata dal tramonto. Si appoggiò sul suo bakterion*.

Kassandra si rese conto d’essere rimasta a fissarlo un po’ troppo a lungo. Se ne accorse anche Stentore.

«Perché ti interessa il Lupo?» volle sapere improvvisamente sospettoso.

Kassandra mantenne un atteggiamento disinvolto. «Sono venuta a... servirlo.»

«Dunque sei un misthios. E pensi che abbiamo bisogno d’aiuto? Non hai appena visto cosa è successo a questi stupidi ateniesi? Megara non è forse ancora in mani spartane?»

«Finora», rispose lei. «Ma ho sentito che Pericle di Atene ha intenzione di lanciare un’importante offensiva via terra da queste parti.»

Un angolo del labbro superiore di Stentore si increspò in una smorfia.

«Sono sicura che vincerete molte battaglie», continuò lei prima che lui la insultasse, «ma non potrebbe tornarvi comodo un mercenario per certe operazioni? Chiedo solo un posto nel vostro accampamento e un ricovero sicuro per gli uomini della mia nave per il tempo che resterò.»

Stentore fece un grugnito di scherno. «Vuoi metterti al nostro servizio? Credi davvero che permetterei a una lama prezzolata di avvicinarsi a mio padre?» Mentre parlava lanciò un’occhiata al Lupo in cima alla scogliera.

«Tu... sei il... figlio del Lupo?» si meravigliò Kassandra confusa.

«Mi ha adottato poco dopo la morte dei suoi figli», spiegò Stentore. «Mi è stato padre e istruttore. Se sono un lochagos*, comandante di questo reggimento, lo devo a lui. Per me è tutto e per lui io sono disposto a tutto. Lo seguirei fino alle porte dell’aldilà.»

«Io chiedo solo di poter fare lo stesso», fu la risposta di Kassandra. Lui la osservò di traverso, misurandola dalla testa ai piedi come un mercante che giudica un ronzino, quindi prese la sua decisione battendosi una mano di taglio nel palmo dell’altra. «No. Nessun misthios metterà piede nel nostro campo o si avvicinerà al Lupo», affermò. «Ce ne sono già abbastanza annidati nella nostra regione al soldo degli ateniesi...» Arricciò il naso. «Ircano e la sua banda di mercenari non fanno che razziare i carri delle nostre vettovaglie affamando i nostri uomini. Altri sono a caccia della testa di mio padre, avidi della taglia che incasserebbero. Ci sono già troppe spine nel fianco del Lupo. Altre non ce ne servono. Per quel che ne so potresti essere una di loro... venuta qui a uccidere mio padre.» Per qualche istante la fissò con uno sguardo di pietra. «Dunque togliti di mezzo, vai a dormire sulla tua barca e sii contenta che ti lascio andare con la testa ancora sulle spalle, straniera.»

Il lieve rumore di lance che le venivano puntate alla schiena le segnalò che era tempo di togliere il disturbo. Abbozzò un inchino e si avviò al fragile rifugio che le offriva l’Adrestia.

Dopo una cena di sardine arrostite e messe sotto sale, che sciacquò con vino ben annacquato, Kassandra si sdraiò a dormire a prua. Sulla baia calò un silenzio innaturale in cui non trovò pace nonostante la mente annebbiata e i muscoli indolenziti, così si alzò a sedere contro il parapetto, con le ginocchia strette al seno e Icaro che si puliva le penne accanto a lei al chiaro di luna. Guardò la cerchia delle fiaccole sulle galee ateniesi e il bagliore dei fuochi in cima alla scogliera, dov’erano accampati gli spartani. Lì sotto, nella conca della baia, era circondata dai marinai che russavano in coperta e poco distante dai corpi maleodoranti degli ateniesi morti lungo la spiaggia. Erano stati spogliati delle armature ma abbandonati dov’erano.

I suoi muscoli si tesero al suono di remi che si immergevano nell’acqua. Un attacco notturno? Ma quando guardò, scorse solo una barchetta che arrivava dalle navi del blocco. Ne sbarcarono due ateniesi disarmati che si diressero verso il campo spartano. Uomini coraggiosi, uomini già defunti, poco ma sicuro, pensò. Ma tornarono indietro poco dopo e furono raggiunti da una squadra più nutrita di ateniesi disarmati che scesero a terra e li aiutarono a scavare fosse lungo la spiaggia dove seppellire i loro morti, autorizzati a farlo dai loro nemici giurati.

Kassandra alzò lo sguardo verso l’accampamento spartano. Il Lupo era di nuovo sul ciglio della scogliera a seguire le operazioni di sepoltura, incorniciato dal cielo nero e da una striscia argentata di stelle. Di sicuro ti congratulerai con te stesso d’aver dato mostra di un così encomiabile briciolo di senso dell’onore, mormorò con odio. E dov’era il tuo onore quella notte sulla montagna?

Per un’intera luna l’Adrestia rimase ormeggiata vicino a Pagai, mentre Kassandra si ingegnava di conquistare la fiducia degli spartani. Di giorno seguiva come un’ombra i loro plotoni che si spostavano lungo la costa a difendere le poche insenature e i pochi attracchi dove gli ateniesi avrebbero potuto cercare di prendere terra o per respingere attacchi di fanti da nord. Due volte li aiutò ad avere la meglio. In un caso appostandosi su uno scoglio da cui scagliare frecce infuocate oltre le teste degli spartani in attesa di dare battaglia e colpire le vele delle triremi ateniesi in arrivo, incendiandone gli scafi prima che raggiungessero la costa. Stentore l’aveva a sua volta incenerita con lo sguardo come un avvoltoio derubato della sua carogna. Qualche giorno dopo aveva partecipato a un’altra battaglia, sbucando improvvisamente dal bosco a neutralizzare un pericoloso combattente ateniese. Per tutto ringraziamento si era presa una strigliata da parte di Stentore che questa volta aveva anche estratto parzialmente la spada. «Stai alla larga dai miei soldati. Stai alla larga da mio padre», l’aveva ammonita. Ma Kassandra non aveva mancato di notare le profonde occhiaie dell’ufficiale e i movimenti affaticati dei suoi soldati. Nonostante l’orgoglio e la fama di saper ridere in faccia al digiuno forzato, era chiaro che da quasi mezza luna molti di loro non mangiavano abbastanza.

La fiducia degli spartani era come una serratura inespugnabile. La chiave era il grano dei carri che venivano razziati. Kassandra si alzò, scese silenziosa dalla barca e si avviò verso l’interno.

Sulla scogliera l’accampamento spartano era delimitato da una cerchia di fiaccole. Tutt’intorno le sentinelle vegliavano imperturbate, con la base chiodata delle lance conficcata nel terreno in modo che le aste si ergessero come picchetti. Tra gli alberi e nei punti più elevati del terreno circostante erano appostati alcuni Sciriti*, giavellottisti provetti e vedette notturne, non spartani purosangue, ma guerrieri tenuti comunque in gran conto. All’interno del campo i soldati spartani sedevano intorno ai fuochi a ridere, sorseggiare dai loro kothon* brodo nero e pesantemente annacquato o ad affilare la punta delle loro lance. Alcuni si offrivano nudi ai loro schiavi iloti che ne ungevano e strofinavano i corpi smunti con gli strigili*.

A un’estremità del campo sedeva Stentore, stanco, affamato e irascibile. A differenza degli altri, si era alzato nell’oscurità e aveva portato con sé alcuni altri guerrieri insonni a fargli compagnia in attesa che si consumasse la notte. «Cantatemi i versi di Tirteo», pretese, burbero, «uno dei suoi canti di guerra.»

I due guerrieri spartani che sedevano di fronte a lui dall’altra parte del fuoco tossirono e, con un certo disagio, cominciarono a storpiare dolorosamente un canto scritto trecento anni prima dal più grande poeta di Sparta. Sgomento, Stentore si affrettò a intervenire. «Basta, fermi, prima che il fantasma di Tirteo si avventi su di voi e vi strappi la lingua dalla bocca.»

Posò lo sguardo sull’Adrestia, incollata alla spiaggia peggio di una patella. Erano ormai quasi due mesi, per tutta la lunghezza di quella torrida estate, che quella seccante misthios era inchiodata a pochi passi da loro. La sua interferenza nelle battaglie recenti aveva tolto prestigio alle loro vittorie, una volta usando addirittura un arco, quell’arma così poco spartana. Un giorno era sceso nella baia a guardare i suoi uomini in esercitazione. Schierati in falangi opposte, avevano marciato gli uni contro gli altri come fossero in battaglia. Aveva riso divertito e applaudito vedendoli affrontarsi l’un l’altro, atterrarsi a vicenda o fingere di uccidere un avversario. Alla fine era rimasto in piedi un solo soldato, in mezzo a un cumulo di vittime stordite e gementi. Stentore aveva espresso a gran voce la sua ammirazione avvicinandosi al vincitore... finché sotto la rossa tunica spartana e l’elmo di bronzo si accorse che non c’era un uomo della Laconia. C’era lei. Quella là!

Aveva aggredito i suoi uomini con la furia di un titano vendicativo per averle concesso di partecipare alla loro esercitazione, per averle messo a disposizione una lancia e uno scudo spartani. Ma se li merita, signore, aveva obiettato un soldato. È stata addestrata perfettamente nell’arte della guerra spartana, anche se non ci ha detto da chi.

Più tardi uno degli uomini che Kassandra aveva sconfitto aveva cercato di corteggiarla afferrandola e tentando di baciarla. Ora era seduto in un angolo dell’accampamento a curarsi la mandibola disarticolata e i testicoli pestati. A renderlo ancora più inquieto erano le segnalazioni degli Sciriti, che riferivano i suoi strani movimenti durante l’ultima luna. Era stata vista aggirarsi nell’entroterra nel cuore della notte. Ma cosa sei, misthios? si domandava.

C’erano comunque preoccupazioni peggiori. L’avvertimento della fanciulla era fondato: Pericle di Atene stava veramente scendendo a sud a capo di un forte contingente con il proposito di sopraffare le difese spartane e di conseguenza presto i lochoi spartani sarebbero saliti a nord per intercettare gli ateniesi, tant’è vero che già erano stati richiamati i loro alleati. Si passò le dita tra i capelli. Quel parlare di eroi ateniesi, di imponenti eserciti nemici, di quella che sottovoce veniva già data come una epocale sconfitta spartana, mordeva il suo morale tanto quanto la fame gli mordeva la pancia vuota.

Un rumore di passi, svelti, qualcuno veniva verso di lui passando tra le tende.

Alzò di scatto la testa. «Guardie!» esclamò.

Un’ombra apparve nella luce del fuoco. Stentore si alzò in piedi portando la mano alla spada, ma l’ombra si fermò e gli lanciò un oggetto che cadde vicino al fuoco squarciandosi. Era un sacco da cui scivolarono fuori grani di prezioso frumento. Gli occhi di tutti i presenti lo fissarono come se avessero visto monete d’oro. Stentore alzò lo sguardo sull’ombra che veniva a fermarsi nella luce delle fiamme. L’espressione di Kassandra era quella di una cacciatrice, con l’arco ancora in pugno.

«Misthios...» ringhiò Stentore.

«Ircano è morto. Durante quest’ultima luna ho spiato le sue mosse. Questa notte mi sono infiltrata nel suo campo e ho ucciso lui e i suoi uomini. Nel suo covo ci sono ancora una decina di carri di grano rubato. Ora tu e i tuoi uomini potete mangiare e rimettervi in forze... in tempo per l’arrivo degli ateniesi.»

Stentore si alzò in piedi, in parte felice e in parte furioso. «Dunque ci hai portato di nuovo salvezza?» sibilò. «E ora pretendi inchini e lodi?»

«Chiedo solo di poter conferire con il Lupo», rispose lei serafica.

L’ira si spense nel cuore di Stentore e nella sua mente cominciò a brillare il germoglio di un’idea. Una lancia in più era sempre benvenuta. «Molto bene. C’è un modo per assicurarti l’incontro. Quando marceremo a nord per affrontare le falangi ateniesi», decise puntandole un dito addosso, «tu, misthios, marcerai nella mia enomotia*, la mia milizia personale. Garantirò io per te. Ti sei mossa bene nell’esercitazione sulla spiaggia. Ma un combattimento per finta non basta a misurare l’abilità di un guerriero. Dovrai dare prova di te come oplita, come partecipe del fronte d’attacco, in una battaglia vera

Una prospettiva che fece scoppiare a ridere i due spartani seduti davanti al fuoco.

Stentore la esortò mentalmente a crollare sotto il peso di una prova probabilmente mortale. Scappa, misthios, sparisci!

Kassandra sostenne il suo sguardo. «Dammi una lancia e uno scudo e combatterò da spartana.»

Il sogghigno di Stentore si rabbuiò in un’occhiataccia.

La marcia dei due grandi eserciti diretti alla battaglia sollevò nel cielo di Megara nuvole di polvere come serpenti rivali che si preparano ad avventarsi l’uno sull’altro. Quella mattina Barnaba si era comportato come una vecchia chioccia cercando di dare a Kassandra più pane del solito e assicurandosi che avesse acqua a sufficienza.

Ora, dopo una mezza mattinata di marcia a nord della Baia di Pagai, si chiedeva se l’avrebbe mai più rivisto. Sotto l’elmo il sangue le rombava nelle orecchie, il respiro sibilava come onde di risacca e l’aria puzzava del suo sudore. A ogni passo la spalla robusta dello spartano alla sua sinistra le si strofinava sul braccio, la correggia dello scudo appeso alla schiena le segava la clavicola e il manico della lancia da oplita le escoriava il palmo. Aveva lasciato sull’Adrestia la lancia di Leonida, sapendo che, se l’avesse vista, il Lupo l’avrebbe riconosciuta e di conseguenza avrebbe riconosciuto anche lei. Erano trentuno gli uomini barbuti con quell’espressione di pietra a comporre l’enomotia di Stentore. C’era anche il Lupo a marciare con loro. Gli altri soldati seguivano come un enorme serpente rosso. Erano stati chiamati i rinforzi dagli alleati del Peloponneso, tebani, corinzi, megarani, fociani, locriani, grazie ai quali il Lupo era riuscito a raccogliere una forza di quasi settemila uomini. A precederli, miglio dopo miglio, tra colline rocciose e pendii boscosi, c’era un’avanguardia di Sciriti affiancati da una squadra di cavalieri beoti.

E finalmente in una grande conca polverosa videro la muraglia che li aspettava.

Ferro, bronzo, tuniche e stendardi bianchi e blu. Le brigate di Atene arrivavano fin oltre l’orizzonte. Saranno diecimila, pensò Kassandra. Dalla moltitudine si levarono un coro di grida e canti di scherno.

Secchi comandi risuonarono lungo la colonna spartana. La coda del contingente venne avanti a formare un ampio fronte in opposizione a quello ateniese, con gli spartani del Lupo sulla destra, gli alleati al centro e gli Sciriti piazzati a sinistra. Lo scalpiccio dei calzari fu sostituito dai rumori di legno e metallo degli scudi che venivano trasferiti davanti ai soldati a costituire un muro di bronzo in una teoria di stemmi dai colori vivi, tra i quali spiccavano quelli di folgori, serpenti e scorpioni degli alleati del Peloponneso. Anche Kassandra si spostò come gli altri lo scudo dalla schiena al petto, infilando l’avambraccio sinistro nella porpax* di bronzo e afferrando la cinghia di cuoio. Ora lo scudo era diventato parte del suo corpo.

Ci fu improvvisamente silenzio, disturbato solo dal sottile sospiro del vento. Poi si udì un belato affranto. Un sacerdote spartano dai capelli bianchi trascinò una capra attraverso le linee e si fermò davanti al Lupo. Kassandra osservò il vecchio canuto con la corona d’alloro che gli cingeva la testa sulle spalle nude e ossute e nella sua mente riaffiorarono con forza i ricordi di quella notte. Il sacerdote levò una preghiera al cielo tenendo una lama appoggiata al collo dell’animale atterrito, invocò il favore degli dèi e affondò la lama. La capra stramazzò con uno spasmo tra gli schizzi del sangue che le eruttavano dalla gola squarciata.

Quando finalmente l’animale smise di sussultare, il sacerdote dichiarò che gli dèi erano soddisfatti. Il Lupo alzò una mano e tutte le lance si abbassarono per puntarsi sulla schiera degli ateniesi sull’altro lato della conca.

Alle spalle di Kassandra uno spartano disarmato imboccò una coppia di auloi*, tenendoli come le zanne di un elefante, prese fiato e soffiò. Dalle canne si diffuse un cupo lamento funereo che si propagò nell’aria della piana. Kassandra si sentì accapponare la pelle. Le note dell’inno a Castore disseppelliva ricordi rimasti sepolti da tempo di momenti felici e festosi dell’infanzia. Guardando le file dei soldati ateniesi si accorse di avere la bocca completamente inaridita e la vescica gonfia come un melone. Sapeva di essere in grado di affrontare e sconfiggere uno qualunque di quei nemici, se presi singolarmente. Non era forse vero che durante la fanciullezza il Lupo l’aveva addestrata senza sosta nell’arte del combattimento, mostrandole come opporsi a un avversario, come essere forte e inamovibile, quando spingere, quando colpire? E durante l’addestramento degli spartani nella baia non aveva dato dimostrazione del suo talento e della sua abilità di combattente? Ora però si preparava a un tipo di confronto che le era del tutto nuovo, estraneo... inquietante.

«Paura, misthios?» l’apostrofò Stentore alla sua destra.

Lei non lo guardò neppure.

«Marciare in battaglia è come correre con le catene alle caviglie. Non puoi girarti e scappare se non vuoi coprirti di vergogna. Non puoi schivare i colpi del nemico come potresti fare in un corpo a corpo. Sei parte di un muro, parte della macchina spartana. E parte del muro resterai. Qui non ci stiamo esercitando. Dovrai combattere e vincere... o combattere e morire.» Sospirò e fece una risatina. «Dovresti essere contenta, perché coloro che vivono sul ciglio della morte sono coloro che vivono di più.»

«Tu vorresti che io scappassi», rispose lei a denti stretti. «Non lo farò.»

«Forse no. Ma forse imparerai qualcosa guardando me, perché io oggi mi coprirò di gloria nel nome del Lupo. Sarò il suo eroe. È me che chiederà di vedere alla fine di questo giorno!»

Lei gli scoccò un’occhiata obliqua e pensò che sarebbe stato meglio non dire niente. Ma non poteva fare a meno di chiedersi come sarebbe potuta andare. Se quella notte sul monte non ci fosse mai stata, ora Stentore sarebbe lì? O ci sarebbe lei? O forse Alexios? Le parole le uscirono di bocca prima che potesse trattenerle. «Il Lupo... se muoio oggi non avrò potuto incontrarlo. Parlami di lui.»

Stentore la trafisse con uno sguardo di sfida. «Vorresti sapere delle sue guardie? Le sue abitudini? È questo che vorresti, eh? Credi che abbia dimenticato che sei un misthios?»

Kassandra si girò verso di lui con un sospiro. «No, intendevo... che tipo è come padre?»

La maschera severa di Stentore vacillò. Nei suoi occhi Kassandra vide per la prima volta il ragazzo che era stato. In quell’unico istante sentì di capirlo. Stentore non le rispose. Lo spiraglio che si era aperto all’improvviso sul suo volto, altrettanto velocemente si richiuse sotto la maschera impenetrabile di prima. Gli auloi suonavano e Kassandra capì che da lui non avrebbe avuto altro, così ebbe quasi un soprassalto quando finalmente Stentore parlò.

«È forte. Anche premuroso. Un buon padre, direi. Eppure ci sono momenti in cui sembra di non esserne convinto lui stesso. Momenti in cui si estranea. È come se su di lui scendesse una nebbia di gelida tristezza.» Rise, dando di nuovo spazio al suo atteggiamento da tipico spartano. «Ma immagino che tutti noi abbiamo dei rimpianti.»

«Senz’altro», mormorò Kassandra sentendo una fitta al cuore e girandosi a guardare il Lupo. E presto ce ne saranno di nuovi.

Il lamento funebre degli auloi cessò. Anche gli ateniesi smisero di lanciare insulti e provocazioni.

Centinaia di ufficiali di entrambi gli schieramenti ordinarono l’avanzata. Come un braccio gigantesco che spazza una tavolata, gli spartani e gli alleati si avviarono a un’andatura che colse Kassandra di sorpresa. Era un passo di marcia, sì, ma sostenuto e condotto nel silenzio più totale. Mentre gli alleati cantavano o gridavano, gli spartani scendevano nella conca muti, con lo sguardo fisso davanti a sé, carichi di odio. La distanza tra i due schieramenti diminuì velocemente. Kassandra vide sopraggiungere il plotone di opliti in tunica bianca con la spallina destra color blu zaffiro. Il loro taxiarchos* esibiva un elmo attico piumato e una thorax di bronzo e calzari di cuoio rifiniti in oro. Avanzavano ripetendo in coro il loro grido di battaglia:

«Elelelelef! Elelelelef!»

Il cuore di Kassandra prese a galoppare come un cavallo in fuga. Ora la risposta alla domanda di Stentore, paura?, era quasi decisamente un . Continuò a marciare con gli altri, decisa a non cedere al panico, e intanto le punte delle lance ateniesi erano sempre più vicine, più vicine, e poi...

Lo schianto!

Le punte mortali urtarono il suo scudo togliendole il fiato, alcune le sfiorarono la testa, altre cercarono di ferirla agli stinchi. Lungo tutto il fronte si alzò un assordante fracasso di ferro e bronzo come un battere di zanne metalliche. Alcuni usavano la lancia per scalzare lo scudo di un avversario permettendo al compagno vicino di trafiggergli il petto. In quei primi momenti furono centinaia a cadere, in un accavallarsi di gemiti soffocati dai fiotti di sangue e flaccidi rintocchi di viscere sbudellate. Una lancia sfiorò una guancia di Kassandra e le sciolse una ciocca di capelli. Sentì il caldo del proprio sangue sulla faccia, ne sentì l’odore e il sapore sulle labbra. Il taxiarchos ateniese l’aveva presa di mira, vedendo in lei un anello debole nello schieramento spartano. Incastrata nel muro di opliti, altro non poteva fare che proteggersi dietro lo scudo e rintuzzare i suoi attacchi.

«Guardate, gli spartani hanno portato una troia in battaglia!» urlò divertito l’ufficiale mentre tra loro si diffondeva un orribile tanfo di interiora e l’aria si riempiva di caldo sangue polverizzato. Sottoposta ai suoi abusi, la sua lancia si spezzò, come accadde a molte centinaia di soldati su entrambi i fronti. Ora che le armi più lunghe erano inservibili, i due schieramenti si avventarono l’uno contro l’altro nel fragore dello scontro di mille scudi. Kassandra si ritrovò faccia a faccia con l’ufficiale ateniese, impegnata anche lei come tutti gli altri spartani in un corpo a corpo con un nemico a loro numericamente superiore.

«Ti taglierò via le tette, cagna spartana», latrò l’ufficiale ateniese sputacchiando saliva e bagnandole la faccia. «Poi trascinerò il tuo cadavere con il mio cavallo da qui al nostro accampamento.»

Stentore era al fianco di Kassandra, con la faccia nera di sangue.

«La spada, misthios», ringhiò, mentre la estraeva lui stesso per affondarne la corta lama nella gola dell’ateniese che spingeva davanti a sé. Kassandra vide che il taxiarchos si accingeva a fare la sua mossa, ma la sua folgorante reattività non gliene diede il tempo. Estrasse la piccola lama curva che le era stata consegnata quella mattina e la conficcò fino in fondo in un occhio del vanaglorioso comandante. Le sue spacconate si trasformarono in uno stridulo grido di dolore e pochi istanti dopo era morto. Un altro ateniese prese velocemente il suo posto e i due schieramenti rimasero così ingaggiati, spingendo e tirando, fino a quando, in un moltiplicarsi di lamenti e gemiti, gli ateniesi indietreggiarono prima di un passo e poi due. I fieri canti di guerra diventarono grida di disperazione. Il loro soprannumero non era riuscito a tener testa alla famosa tenacia spartana. Lo schieramento si disintegrò, gli ateniesi si diedero a una fuga scomposta abbandonando gli scudi sul terreno. Kassandra sentì la grande pressione cedere. Stentore guardò ridendo i cavalieri beoti uscire dal fianco per consolidare la disfatta del nemico, mentre i peltasti avanzavano dall’altro fianco scagliando i loro giavellotti sui pochi reparti ateniesi che opponevano ancora resistenza.

«La danza della guerra è quasi conclusa», tuonò trionfante Stentore. «Vedi come ci temono gli ateniesi? Pericle fugge a nascondersi tremante nel suo Partenone, circondato da commediografi e sofisti. Sa che i giorni di Atene a Megara sono contati. E poi toccherà ad Atene!»

Ma mentre lui proclamava questo spavaldo pronostico, Kassandra si accorse di qualcos’altro: il Lupo era ferito e separato dalle sue milizie, circondato da quattro soldati ateniesi. No, spetta a me! gridò dentro di sé. Senza un attimo di esitazione si lanciò verso di loro e calò lo scudo sulla testa di uno degli aggressori, ferendone al fianco un secondo, che piombò a terra come un sasso. Un terzo si inarcò in quel momento tendendosi nell’atto di scagliare la lancia sul Lupo. Ma la lancia non lasciò mai la sua mano perché la spada di Kassandra si affondò tra le costole, aprendogli l’exomis, squarciando pelle, carni e osso. Con il polmone trafitto, l’ateniese cadde dimenandosi nell’agonia e portando con sé la spada di Kassandra. Intanto il Lupo finiva l’ultimo aggressore con un colpo della borchia dello scudo in piena faccia. Spezzatogli il naso, con una mossa rapida ed esperta del braccio gli piantò la lancia nella gola. L’ateniese precipitò all’indietro rovesciando la testa all’insù con la lingua penzoloni.

Kassandra s’inginocchiò trafelata e momentaneamente disarmata con il Lupo davanti a sé. Lui la osservò per un momento prima che i suoi uomini lo circondassero. E ancora una volta alzarono solenni le lance e fecero echeggiare un potente «Aroo!» nella nuvola di polvere che riempiva la conca dove si era consumata la battaglia.

Mentre gli alleati festeggiavano dando sfogo a tutta la loro esuberanza, dopo quell’unico grido di vittoria gli spartani rimasero in silenzio. Si limitarono a piantare le lance nel terreno e bere dalle ghirbe scambiandosi solo poche parole a voce bassa.

Uccidere o morire per la nostra patria, le aveva detto una volta Nicolao, questo è il nostro compito. Noi lo facciamo senza pompa o esibizionismo.

Un gruppo s’incaricò di spogliare della loro armatura alcuni ateniesi, per poi piantare le lance a formare una X e appendervi corazze, elmi e scudi. A operazione finita, avevano creato una specie di oplita ateniese con quattro teste. Una semplice, muta stele di vittoria. Il tappeto di cadaveri straziati si riempì del ronzio crescente delle mosche, mentre dall’alto del cielo cominciarono a scendere i mangiatori di carogne.

Dalla cerchia del Lupo si staccò un soldato. «Tu sei il misthios?»

Kassandra annuì.

«Oggi hai fatto colpo sul Lupo con il tuo intervento. Quando saremo tornati al campo di Pagai, chiede che tu vada da lui.»

Kassandra vide Stentore guardare dalla coda dell’occhio, tetro in volto.

* * *

Quella sera nell’aria si addensò l’odore sulfureo che precede un temporale e il cielo cominciò a crepitare e gemere, ansioso di esplodere. Tornando dalla battaglia e risalendo a bordo dell’Adrestia, Kassandra parlò poco. Respinti i tentativi di Barnaba di esaminare le sue ferite ed escoriazioni, si infilò nella cintura la mezza lancia e alzò lo sguardo alla scogliera, dove c’era l’accampamento spartano sul promontorio dove sapeva di essere attesa.

«Tornerò presto», informò il capitano. «Stai pronto a salpare alla svelta... a rischio delle nostre vite.»

Ciò detto, ridiscese sulla spiaggia e si avviò verso il sentiero che saliva sulla scogliera, con il mantello nero gonfiato dal vento crescente e la lunga treccia svolazzante. In cima alla scogliera e giunta sul promontorio... si fermò sorpresa.

Lui era là, girato dall’altra parte, a fissare pensieroso il buio e l’oceano nervoso come se fosse un nemico di antica data. Kassandra avanzò verso di lui e il cuore cominciò a batterle più forte. Il suo mantello rosso sangue agitato dal vento le accese un lampo di memoria nella mente. La salita, pensò. Alla vetta del Taigeto...

Notò fili bianchi nei riccioli neri dei capelli che spuntavano da sotto l’elmo e i segni dell’età su quel tanto di gambe visibile sotto l’orlo del tribon. Gambe forti ma stanche.

Non fece rumore avvicinandosi, ma lui avvertì la sua presenza e la sua testa si piegò di lato di qualche centimetro.

Certo che mi ha sentito, pensò lei. È uno spartano, addestrato alla furtività fin dalla nascita.

Si fermò.

Lui si girò verso di lei, adagio.

Sopra di loro brontolò il tuono.

Il Lupo la osservò attraverso la T dell’elmo, e il suo fu lo stesso sguardo distaccato che Stentore aveva evidentemente imparato da lui. Il suo corpo, nudo sotto il mantello, era costellato di cicatrici, con l’aggiunta della fasciatura di una ferita procuratasi nella recente battaglia contro gli ateniesi. Gli anni non erano stati indulgenti con lui. Né lo sarò io, pensò.

«Dunque tu sei l’ombra che ha seguito il mio esercito per mesi», cominciò il Lupo. «Vieni, raccontami di te e spiegami come mai combatti così bene e lo fai senza compenso.»

La sua voce era fonda come la ricordava, stemperata però dal trascorrere degli anni.

Lo guardò negli occhi che scintillarono nel primo lampo di una saetta che zigzagò nel cielo illuminando la baia. Come puoi non ricordarti di me? si chiese contrariata. Dopo quello che hai fatto?

«Conquistarsi la mia fiducia è dura, come avrai visto. Ma ora che ce l’hai, in futuro avrai l’occasione di guadagnarti molte borse d’argento e...»

Il vento fischiò e sollevò il mantello di Kassandra come una bandiera mettendo in mostra la cintura... e la mezza lancia di Leonida.

Il Lupo ammutolì. Un altro fulmine percosse il cielo alle spalle di Kassandra e questa volta rivelò del tutto gli occhi di lui, spalancati, increduli. «Tu...» mormorò con un filo di voce dal fondo della gola.

Kassandra abbassò la mano sull’antica lancia e nel momento stesso in cui la toccò, fu ghermita dagli artigli del passato.

* * *

Mi affacciai nelle tenebre di quell’abisso sperando senza speranza che non fosse vero. I gelidi aghi di acqua gelata che mi tempestavano mi costringevano ad accettare la realtà. Alexios era morto.

«Assassina!» strillò il sacerdote e la sua voce fendette la tempesta invernale come un colpo di falce. «Ha ucciso l’eforo!»

«Ha maledetto Sparta, condannandoci tutti alla fine miserabile predetta dall’Oracolo», strepitò un altro.

Silenzio... poi: «Deve essere punita con la morte. Nicolao, butta giù anche lei, che paghi per il suo disonore».

Brividi gelidi mi risalirono per la schiena come dita di ghiaccio. Mi voltai dall’abisso e vidi mia madre che si dibatteva nell’abbraccio di uno dei vecchi che ancora la teneva prigioniera e mio padre con il volto deformato dall’orrore, la testa incassata nelle grandi spalle.

«Deve morire», sentenziò un prete dalla testa come un teschio. «Se vivrà tu sarai esiliato, Nicolao. La vergogna ti seguirà come un fantasma. Tua moglie ti odierà.»

«No!» strillò Myrrine. «Non ascoltarli, Nicolao.»

«Persino gli iloti sputeranno sul tuo nome», insisté il sacerdote. «Agisci da vero spartano.»

«Per Sparta!» esclamarono molti altri.

«No!» protestò la mamma con quel poco di voce che le restava.

In quel momento io non volevo altro che essere con loro davanti al fuoco a casa, avrei voluto che quello che stavo vivendo non fosse altro che un orribile sogno. Papà venne verso di me, sotto il peso di quei malvagi incitamenti come bastonate sulla schiena e le implorazioni di mia madre non bastavano a proteggerlo. Io aprii le braccia offrendomi alle sue. Mi avrebbe protetto, mi avrebbe fatto da scudo, lo sapevo come sapevo che Apollo, dio del sole, sarebbe sorto a est tutte le mattine. Si fermò davanti a me, fece un sospiro profondo e fissò non me, ma l’eternità attraverso di me. In quel momento giuro d’aver visto la luce vacillare e spegnersi nei suoi occhi.

Mi prese per un polso con una mano forte come una morsa di ferro. Quando mi sollevò mi mancò il fiato. Fece un passo verso il precipizio e per un attimo sentii i miei piedi grattare il ciglio e poi più niente.

«No... no! Guardami, Nicolao», urlò mia madre. «Non è troppo tardi. Guardami!»

«Padre?» balbettai io.

«Perdonami», disse lui.

E poi mi lasciò andare. Mio padre, il mio eroe, scelse di lasciarmi andare.

Agitai invano le mani nell’aria. Piombai nelle tenebre vedendo scomparire il volto di mio padre, udendo l’ultimo grido straziato della mamma. Per il tempo di qualche respiro la caduta fu senza peso, in sincronia con la pioggia gelata nel boato del vento che mi sfilava sulle orecchie, poi fu tutto finito.

E dalle tenebre mi svegliai. A smuovermi fu dapprima un pigolio un po’ stridulo, poi il tocco delicato della punta di un becco. Aprii gli occhi. Per prima cosa vidi i lampi della tempesta lontana sopra di me e mi sentii la faccia picchiettata dalle poche gocce di acqua gelata che riuscivano ad arrivare fin laggiù. Sul fondo di quel burrone regnava un silenzio innaturale. Erano quelli i primi istanti della mia eternità da ombra?

Allora mi accorsi di un piccolo uccello che protendeva la testa verso di me. Tutto bianco fino agli occhi cerchiati di grigio. Un esemplare commiserevole. Mi sottrassi a un’altra beccata. Qualcosa di duro e instabile si mosse sotto di me e un dolore spaventoso attraverso le spalle e lungo una gamba mi disse che non ero un’ombra. Ero viva. Non sapevo come, ma ero viva. Mi alzai a sedere. L’uccello mi salì goffamente su una coscia. Riconobbi un pulcino di aquila macchiata. La presi tra le mani piangendo e desiderando svegliarmi da quell’incubo. I miei occhi cominciarono ad abituarsi all’oscurità e allora vidi il «cumulo» su cui mi trovavo per ciò che era in realtà: un mucchio di ossa. Teschi ghignanti, crepati e sfondati, costole che sporgevano da ammassi contorti, resti di indumenti. Con orrore crescente mi resi conto che erano quasi tutti scheletri di infanti. La progenie indesiderata di Sparta. I neonati che gli adulti avevano giudicato deboli o imperfetti.

«Alexios?» chiamai con la voce tremante sapendo che laggiù doveva esserci anche lui. Anche prendere tra le braccia il suo corpicino avrebbe significato qualcosa. «Alexios?»

Niente.

Posai l’aquilotto, mi alzai sulle ginocchia e avanzai nell’ossario evitando di pesare sulla gamba ferita. Tastai con le mani dove l’oscurità mi permetteva di scorgere qualcosa. Poi lo sentii, qualcosa di morbido e ancora tiepido. «Alexios?» chiamai quasi piangendo.

Un fulmine mi mostrò lo sguardo vitreo e il cadavere disarticolato dell’eforo, con la faccia impietrita in un grido e la nuca della testa calva spaccata come un guscio d’uovo. Balzai all’indietro orripilata e afferrai un osso come se avessi bisogno di una clava per difendermi da quel corpo semidisfatto. Lo sollevai comunque davanti a me e allora vidi che non era un osso, ma la mezza lancia di Leonida.

La fissai sentendomi piena di odio, sperduta, disperata. Vagai zoppicando, stordita, in mezzo a quelle ossa in cerca del corpo di Alexios... finché non sentii un crepitio di ossa smosse in un pertugio roccioso e vidi delinearsi nel buio l’alta sagoma di un’ombra più scura. Stava arrivando qualcuno. Se mi avessero trovata lì, dopo tutto quello che era accaduto, mi avrebbero uccisa. Così presi il pulcino di aquila e scappai... da Sparta, dal passato e da tutti i suoi orrori.

Il Lupo di Sparta alzò le mani per fermare la figlia che si era lanciata su di lui. «Come può essere?» esclamò confuso.

Kassandra rispose con un attacco fulmineo, calando la lancia sulla sua gola. Fu solo il suo istinto da spartano a salvare il Lupo, che estrasse una corta spada da una guaina fissata al bicipite e parò il suo fendente. Barcollò con i talloni sul ciglio del precipizio e i suoi occhi sfrecciarono verso il campo spartano alle spalle di Kassandra mentre il cielo veniva scosso dai tuoni.

«Zeus fa sentire la sua voce per me», ringhiò Kassandra, «così nessuno ti sentirà se chiederai aiuto.»

Il Lupo spalancò le braccia per mantenersi in equilibrio e Icaro piombò dal cielo per bloccare la sua spada. Con un grido strozzato in gola, il Lupo s’inclinò pericolosamente nel vuoto della scogliera che si ergeva sulla baia.

Kassandra lo afferrò per il collo e lo trattenne tra la vita e la morte con la punta della lancia che gli premeva il fianco. «Ora, Lupo», ringhiò spingendolo un po’ di più nel vuoto, «giustizia sarà fatta.»

«Uccidimi allora», gracchiò lui. «Ma prima c’è una cosa che devi sapere. Io ho amato te e tuo fratello come se foste veramente figli miei... ma miei non foste mai.»

Una tempesta si scatenò nel cuore di Kassandra all’unisono con quella che infuriava intorno a lei. «Cosa stai dicendo?» Spinse la punta della spada facendo affiorare sangue dal fianco del padre.

«C’è una cosa che devi chiedere a tua madre.»

Kassandra si sentì gelare il sangue nelle vene. «La mamma è... viva?»

Nicolao annuì come meglio poteva. «Non so più niente di lei come lei niente sa di me. Lasciò Sparta quella stessa notte. Dove è andata, non mi è dato saperlo. Trovala, Kassandra, e promettimi di dirle che non mi sono mai perdonato per quello che è successo. E in ogni passo che farai dovrai prestare la massima cautela», aggiunse con la voce contratta e una luce spiritata negli occhi, «attenta ai serpenti nell’erba.» Le afferrò la mano armata e si spinse la punta della lancia nelle carni. «E ora... facciamola finita.»

Un lampo illuminò il cielo e nella superficie di bronzo del suo elmo corinzio Kassandra vide riflettersi la propria faccia. Con un gelo che le avvolgeva il cuore, staccò la mano con cui lo tratteneva intorno al collo e tese i muscoli del braccio per affondargli la lancia nel fianco. Stringeva finalmente in pugno la chiave della gabbia che aveva imprigionato un’ingiustizia per vent’anni.