Aiuta Guido Cavalieri a togliersi le scarpe e gli accomoda il materasso di gomma (ve n'erano otto a bordo) che gli serve a meglio sostenersi. Dà una mano agli altri per liberarli dagli impedimenti. Sveste il torpediniere Motolese, che pare il men vigoroso. Poi pensa a sé medesimo. Sa che non ha grand'arte nel nuoto e che gli conviene adoperare ogni accorgimento per risparmiarsi. Il mare è mosso da scirocco. Quando egli s'allontana dal luogo del naufragio, dove pullula la nafta mista alle bolle d'aria, quasi rantolo e sangue della nave uccisa, un gran dolore gli fende il petto. Fa tre volte il segno della croce, raccomanda a Dio le anime dei sepolti, promette di recare il messaggio alla patria. Poco dopo, ode dietro di sé il grido soffocato del torpediniere che già pericola; ode l'ultima voce di Ciro che annega; vede davanti a sé il gruppo degli altri tre nuotare più veloce verso ponente. Rimane solo.

Il mare è sempre deserto. Lo scirocco rinfresca. Sul far della sera, dopo circa sei ore di nuoto, il naufrago avvista la Mula di Muggia, ha l'illusione della salvezza, la tentazione dell'approdo.

Ecco il momento eroico di questo gran cuore marino.

La terra è là, sinuosa e bassa, coi suoi lunghi dossi violacei. La sera sinistra cala su la solitudine non interrotta né da una scìa né da una traccia di fumo. Lungo la costa nemica si accendono i fasci di luce che scrutano il cielo e il mare ostili. Dai cannoni che tuonano su l'Isonzo, si propaga il rombo per tutto il golfo. Nessuna stella sgorga dal crepuscolo che s'abbuia. Laggiù, sul fondo di sabbia e di fango, sotto lo specchio d'acqua ove continuano a pullulare la nafta e l'aria, il Jalea morto giace coi suoi morti. Un d'essi è scivolato fuori dalla falla di poppa, e va fluttuando nella striscia oleosa. Dove sono i tre nuotatori che mostravano di aver tanta fretta? Dov'è Biagio di Tullio? dov'è Guido Cavalieri? Hanno raggiunto la costa? hanno preso terra a Grado? già in salvo?

Un materasso di gomma galleggia trasportato dalla marea, là, verso il Banco d'Orio.

Vietri, che vuol dire costanza, mentre fa il morto, supino su l'onda squammosa, considera pacatamente le probabilità di salvezza e delibera. Sa che alla Mula di Muggia in quell'ora non c'è anima viva e che, se riescisse ad approdarvi, si troverebbe tutta la notte abbandonato in una spiaggia perfida di rena e di melma. A progredire verso Grado la corrente non gli è favorevole, anzi lo respinge al largo per levante. Ma quella stessa corrente, s'egli la segua invece di contrariarla, lo aiuterà forse a ridiscendere verso Grado nella prima luce del mattino. Gli conviene dunque riallontanarsi dalla terra e prepararsi a passare in mare una notte di circa nove ore. Non esita, non si scoraggia, non dubita delle sue forze, non ha paura dell'ignoto, non è stanco di lottare e di patire. «O cuore, sopporta.» Ed è un cuore di vent'anni!

Riconosce il proiettore austriaco di Duino; e su quello si regola per determinare via via la direzione e la velocità della deriva. Tutta la notte vede balenare, ode tuonare la battaglia lontana su l'Isonzo affocato. Il cuore non gli vien mai meno, né la mente gli s'offusca. È duro, costante, vigile, sagace. Come non si lascia sopraffare dall'ansia, così non si lascia vincere dal freddo, dalla sete, dalla fame. Sono passate quattro ore, e la notte è al colmo. Fra quattro ore comincerà ad albeggiare. La sua pazienza d'uomo supera la pazienza della notte. Il vecchio marinaio d'Itaca non è più virtuoso di questo imberbe marinaio campano. Il sale lo impregna e lo preserva. Le stelle gli sono fauste. Alla diana egli scorge di nuovo la terra, avvista la riva di Grado.

Allora getta il suo primo grido, il saluto del risveglio, il richiamo del gallo. Chiara è la voce, e aumenta con la luce. È la novissima giovinezza d'Italia che saluta il giorno, temprata nel suo mare.

S'ode la voce su la spiaggia latina, nel vecchio porto dei Patriarchi, nelle acque gradate.

Allora la sorte a tante prove così crude aggiunge un ultima prova, la più cruda.

Alla voce di soccorso ripetuta, escono senza indugio un battello a elica e una piccola barca lagunare, un topo da pesca; e si mettono alla ricerca del naufrago.

Ma il capo cannoniere che guida il battello, quando è sul punto di scoprire il nuotatore, scorge un velivolo austriaco che traversa il golfo da Trieste volando verso Grado. Il rombo del motore impedisce di riudire la voce sottovento. Egli tralascia la ricerca e ritorna nel porto, sotto la minaccia del nemico aereo. Il naufrago distante lo vede coi suoi occhi scomparire. Dopo la sedicesima ora di resistenza inumana, quando pare che il suo patimento sia per finire, ecco che egli deve chiedere al suo cuore un nuovo sforzo, il più difficile! Resiste anche alla disperazione. Aspetta che il velivolo passi, che il rombo si dilegui; e ricomincia il suo clamore.

Il battello esce di nuovo; fa rotta ad ostro, verso l'origine della voce; avvista finalmente l'uomo, in vicinanza del gavitello che è posto al largo. Il capo cannoniere s'alza in piedi e grida di lontano al nuotatore: «Viva l'Italia!».

Vietri, che vuol dire ardore, si leva con tutto il petto fuori dell'acqua e risponde con tutta la possa dei suoi polmoni: «Viva l'Italia!».

Quando il battello gli è vicino, egli lo raggiunge con due bracciate; poi, senz'aiuto, pontando le braccia, sale a bordo. Respira; sorride; chiede da bere.

Gli uomini del battello sono confusi: non hanno portato né acqua né cordiale. Uno gli offre una sigaretta, peritoso. Egli franco la prende, l'accende, tira qualche boccata di fumo, con gli occhi socchiusi, con un'aria di contentezza infantile, come se riassaporasse la vita di bordo, come se ritrovasse il primo tra i piaceri del marinaio.

Sbarcato, condotto all'infermeria, non perde mai le forze, non si lascia mai vincere dal malessere e dalla stanchezza. Conserva la sua disciplina in ogni atto, in ogni motto, come - dopo sedici ore di mare - la sua pelle serba il buon colore di frumento e la ferma grana, conciata all'uso nostro, all'uso d'Italia, non con la vallonea spenta nell'acqua di mortella, ma col sale e col sole.

Quando nomina la sua nave perduta, quando parla del suo comandante e dei suoi compagni rimasti nel fondo sepolti, quando apprende che nessuno è giunto in salvo, di quelli esciti con lui dal portello di prua, il dolore lo stringe: un dolore senza lacrime, un dolore d'eroe, che par gli intagli quel dolce volto con uno scarpello più severo. Resta mutolo e fisso, col capo reclinato. L'acqua salsa gli cola dall'orecchio giù per l'omero nudo.

 

Sembra che la purità di quella mestizia si diffonda su le lagune e sul golfo, quando dal canale di Gorgo ci rialziamo a volo per esplorare lo specchio funebre, per scoprire in fondo alla trasparenza marina il sepolcro d'acciaio.

Abbiamo colto i fiori violetti della barena. Davanti a me, coprono le bombe, con quell'altro fascio. La pulsazione energica del motore non turba il sentimento musicale che ho in me e che raccoglie tutti gli orizzonti in una sola armonia.

Mi volgo verso il mio pilota. Il suo volto è grave e attento. Ora mi guarda senza sorridere. Una stessa commozione ci mescola. Il nostro petto è pieno di patria. Vedo laggiù, dietro il suo camaglio, di là dai timoni, il campanile di Aquileia e i santi pini superstiti della grande selva nautica che copriva dal Gargano al Timavo il lito adriano. Abbiamo nelle ali gli spiriti della storia più solenne. Respiriamo una nobiltà presente come l'aria. Onoriamo nei nostri morti un'elezione divina.

Mettendo la prua verso Punta Grossa, prendiamo quota, mentre osservo se dalla baia di Muggia non si levi incontro a noi un'ala nemica. Il nostro «Albatros» è male armato per il combattimento aereo, ma acquistiamo il vantaggio del vento, del sole e dell'altezza. Il golfo è deserto e liscio come un lago alpino. Trieste è tutta bianca in un velo di luce. Vedo l'ombra lievissima dell'elica tremolare su la tela chiazzata d'olio bruno. I tiranti ben tesi vibrano come le corde dell'arpa eolia. L'orecchio attento, a traverso la tasta di bambagia che lo tura come la cera d'Ulisse, percepisce le minime variazioni nel tono del motore. Lo spirito è oggi tanto sensibile al numero che tutte le apparenze gli giungono ritmeggiate. Il suo silenzio è vicinissimo al canto.

Nella virata vedo alzarsi da Gorgo due nostri velivoli; distinguo sopra le ali le due bande e i due cerchi neri. S'alzano a proteggere la nostra esplorazione. Paiono immobili, sospesi nella quiete. Roteando in larghi giri, attendiamo che prendano altezza. Laggiù, il Carso pallido sembra che vibri nel calore come la lava quando si fredda perdendo il vermiglio.

Incomincia la nostra discesa, mentre i due velivoli fanno la guardia incrociando a levante. Il cuore diviene ansioso, l'occhio attentissimo. Siamo su la linea congiungente Punta Grossa e Grado. Il sole declina, la bonaccia si fa tutta eguale, senza bava di vento.

Mi piego sul bordo, col capo nel turbine dell'elica, studiando gli aspetti dell'acqua. I segni della mia mano indicano al mio compagno le diverse direzioni. Il velivolo obbediente le segue, sempre più abbassandosi. Vira, sbanda, sta su le volte, procede a biscia, come una vela che bordeggi per non allontanarsi dal luogo.

Ed ecco, con un balzo del cuore alla gola, ecco che mi sembra di scorgere su lo specchio liscio una chiazza scura, simile a quelle macchie screziate che appariscono quando si muove il primo pelo dell'acqua e il mare muta colore Mi volto verso il mio pilota con un gran gesto involontario. Egli si china dalla stessa banda e guarda, mentre l'Albatro cala a poche braccia dall'indizio. È una chiazza oleosa, è la nafta del Jalea.

Allora l'ansietà di scoprire il fondo mi curva sul bordo della carlinga, dove la mia gola aderisce come a una lunetta di ghigliottina. Sono tutt'anima e tutt'occhi, tremante e lucido. In un battito delle palpebre mi riappare di tratto in tratto il viso del capitano. Per lui mi fu confidato quel fascio di fiori. Quando mi sollevo per rivolgermi al mio pilota, sento nel calore del cofano il profumo della cedrina e delle rose bianche.

Sorvoliamo in su e in giù lo stesso spazio. Ci risolleviamo, ci riabbassiamo. Proviamo e riproviamo. La trasparenza è mutevole, la luce è ingannevole. Il mare ci contende il suo segreto.

Distinguo a una profondità di circa tre metri qualcosa di chiaro e di rotondo come una larga medusa. È la testa di una torpedine. Siamo sopra lo sbarramento, contro il quale urtò nell'accostata il sommergibile.

Quale istinto misterioso governa ora la nostra macchina alata? Quale spirito la guida? Dentro di noi, fuori di noi, si fa un grande silenzio. Tutto è acqua e aria. Le coste hanno assunto una qualità eterea. Non le guardo ma le posseggo come orli luminosi del mio sentimento.

Simile a una visione interiore, simile a una di quelle imagini che la poesia rischiara d'improvviso nella profondità della tristezza, m'apparisce in un attimo la tomba navale.

 

Or dove sono quei fiori che si posarono su lo specchio funebre senza turbarlo? Come ritroverò i movimenti di quella sinfonia vespertina che pareva rendere a noi sensibili le nostre ali, quasi fossero appiccate ai nostri òmeri?

Si volava a poca altezza, seguendo il lido sinuoso, come se alla terra ci avvicinasse un aumento d'amore. Ma ci sembrava d'essere, in verità, tra due cieli, tanto la faccia della laguna più e più prendeva simiglianza con la sera già su lei china a rimirarla.

Tutto quel chiarore diffuso aveva origine laggiù, sottomare, nel fondo del golfo. Non era un lume di tramonto. Era il lume di non so che spiritualizzamento operato dalla morte immortale.

Chi mi raccontò un giorno la leggenda di quell'uomo solitario che lasciò lo sguardo sopra una imagine sacra lungamente e ferventemente contemplata? I suoi occhi continuarono a vivere senza sguardo, pur rimanendo aperti allo spettacolo del mondo. Ma l'imagine sacra, la tavola dipinta, rimase arricchita d'un mistero inimitabile come il Paradiso.

Questa figura mi serve a sollevarmi verso il modo di quel sentimento che s'era generato in me dalla visione del sepolcro immerso. Il mio sguardo, rimasto nello specchio funebre, s'era convertito in una spiritualità senza confini, ond'ero alleviato e illuminato io medesimo fin nell'imo della mia sostanza.

Allora, più che in alcun'altra elevazione della mia miseria, conobbi come l'anima sia un elemento perpetuo, non legato ai corpi, non prigioniero, ma dai corpi attinto come il vaso attinge l'acqua e la contiene e poi la riversa. Ora saliva e fluiva essa come l'alluvione, smisuratamente accresciuta dalla carneficina che vuotava ogni giorno innumerevoli petti. Restituita in libertà dall'eroismo, essa fluttuava sul carnaio trasmutando gli aspetti della terra e il senso del nostro respiro umano. Sopra tanta strage, sopra tanti cadaveri, non sentivamo noi una più grande quantità d'anima nel mondo? Più grande in copia, più pura in essenza. Noi stessi n'eravamo traboccanti, e ansiosi di versarla ad aumentare la piena. La sua potenza era per sforzare le ossa della stirpe futura, l'angustia carnale dei nostri figli; era per costringerli ad esternarla di continuo in grandi azioni, in grandi invenzioni, in grandi sacrifizii.

Il nostro volo ci pareva sostenuto da una specie di rapimento. Il mio pilota abbandonava le leve senza che le ali vacillassero. Il palpito del fuoco operoso pareva attenuarsi nello spazio che l'estasi sempre più allargava dentro di noi respingendo i limiti dei sensi. Respiravamo l'anima e la melodia dell'anima, e i pensieri eterni che i poeti traggono dalle improvvise sue sublimazioni. Era come la beatitudine di un transito. Vivere era come morire, morire era come vivere. La nostra fragilità non era se non divina trasparenza.

E il mio compagno mi toccò la spalla, come soleva; e poi fece un segno verso occidente.

Mi volsi; mi chinai a guardare; insieme ci chinammo.

Avevamo di poco passato Caorle bianca come una città votiva d'argento tra i suoi parallelogrammi esatti. La laguna era tuttora laggiù come la perlagione d'un cielo vista a traverso le nervature d'una foglia macera. Ma nella parte già invasa dalla sera i canali apparivano di quel colore profondo che ha l'acqua intorno agli scogli pescosi. Una lunga fila di nere barche crociate venivano a rimorchio per l'ombra verdazzurra, lasciando una scìa di santità e di silenzio.

Era un convoglio di feriti navigante verso gli ospedali notturni che laggiù attendevano quel carico di sangue e di dolore. Erano i feriti dell'Isonzo e del Carso, i lacerati, i mutilati, i moribondi che scendevano per le vie quiete della laguna. Erano i feriti sorridenti, le giovinezze sublimi, i miracoli inconsapevoli. Qualcosa del loro sorriso ineffabile, quasi non so che freschezza del loro patimento, pareva rilucere nella santa scìa, solco d'anima, traccia spiritale.

Il cuore ci tremava come quando eravamo chini a scoprire la tomba di ferro nel fondo del mare funesto.

Ci abbassammo a volo, con un movimento che forse rispondeva a una volontà d'inginocchiarci. E i fiori della barena, gli asfodeli violetti dell'estuario, che in parte avevamo serbati per memoria degli eroi marini, io li sparsi su quel convoglio silenzioso e glorioso come il sepolcro sommerso.

E il mio più alto canto, o Chiaroviso, è il canto che quella sera io non cantai ma che son certo di riudire in me quando si farà notte e rincontrerò il mio pilota a faccia a faccia,

 

Venezia, giugno 1916.