Il mio amico venne, secondo il convenuto. Avevo tuttavia pietà di lui; ma mi accorsi che ora lo consideravo quasi strumento da servire, quasi arnese da trattare con mano delicata o rude nella vicenda. E la mia dolcezza, come spesso m'accade, non era se non una forma della mia energia.
La lucidità talvolta s'accompagna a un orrore quasi animale che sembra il castigo inflitto al laceratore dell'illusione, all'abolitore della convenzione.
Egli aveva cattive abitudini di malato e di maleducato mangiando: masticava con rumore, beveva col boccone in bocca, faceva schioccare le labbra, dimostrava una voracità e una sete non frenate da alcuna creanza. E queste cose comuni, in quella camera monastica annobilita dai libri e dalle stampe, dove ero solito prendere i miei pasti brevi leggendo o seguendo il mio pensiero, queste cose usuali apparivano enormi, aggravate dal mio sentimento insidioso; ché io di continuo gli rifornivo il piatto, gli colmavo il bicchiere, mi affannavo a rimpinzarlo e a inciuscherarlo come usa il compare col compare quando vuole averlo alla mano.
Veramente pareva che avesse grandi caverne da riempire o che da satollare avesse dentro di sé quell'uno che minacciava di non lasciargli neppur le cartilagini e le ossa. Accanto a quel viso vizzo, acceso da una punta di sbornia, incorniciato dai capelli lunghi e dalla cravatta a fiocco, arieggiante ancóra le vecchie maschere romantiche di Henri Mürger, ponevo l'enigma di quell'altra faccia dai larghi piani fortemente connessi come in una testa di Re pastore intagliata nel basalte.
E chiedevo senza suono: «È dunque la tua amante? Conosci la forma delle sue ginocchia? La tocchi con le spatole delle tue dita? Mangia, bevi».
Un soffio di creazione mostruosa alitava tra le pareti fitte di volumi, ove la mia anima era vibrante come quell'aria che chiudono i legni secchi d'un violino ben costrutto. Ciò che dei libri immortali si mescola alla fluidità della vita nel silenzio, l'eternità che è fissa nei frammenti patetici dei capolavori, il mito che appesantisce su una tempia invisibile il fiore vinato del giacinto, lo splendore limpido del vino simile alla presenza corporea del dio che discioglie, un pane, un frutto, un coltello, un lembo di carne trasmutato dal fuoco, l'orlo d'un bicchiere toccato dalla grazia d'un raggio, ogni cosa innanzi a me e intorno a me esprimeva me a me stesso. Pieno di significati, giocavo con l'amore e con la morte. Con la figura del mio ospite, con la figura della donna assente e con la mia sobria ebrietà componevo i quadri successivi d'una nuova Danza macabra.
- Chi è quello? - disse egli, volgendosi verso il camino.
Era il calco intero d'uno degli otto incappati che portano la pietra sepolcrale nel monumento del Gran Siniscalco di Borgogna. Stava presso l'alare, curvo ma con la spalla senza carico, nascosto il volto sotto il cappuccio, scoperto una sola mano dal pollice lungo.
- Veramente - disse - non ti sei fatta una casa allegra.
E, fissando lo sguardo torbido verso qualcosa che vedeva egli solo, s'attristò come fa l'anima quando si raggomitola sul sacco riempiuto.
- Vieni, vieni - dissi all'improvviso levandomi e prendendolo per un braccio familiarmente, con una gaiezza audace. - Raccontami i tuoi nuovi amori.
- Quali amori?
- T'invidio. È una magnifica belva.
Lo feci sedere in una poltrona comoda, mentre il domestico recava i liquori e le sigarette. Io mi misi all'ombra d'uno scaffale, come in agguato.
Egli trasse il suo tabacco misto d'oppio da una sua scatola di bossolo e lo rotolò nella carta tra l'indice e il pollice ingialliti come dalla tintura di iodio. Affettava quel sorriso vano che gli conoscevo bene, quel sorriso di donnaiuolo disgustato che non fa differenza fra tresca e tresca; ma una delle sue deboli gambe tremolando sul tacco ed egli guardandosi la punta della scarpa, mi risorse nella memoria l'imagine d'un contadino che avevo veduto in un campo guardare tranquillo il suo piede scalzo ove una testa di vipera pareva incastrata per sempre come una sesta unghia.
- Perché la chiami belva? - disse. - Tu sai la storia?
- Non so nulla. Chi è?
Egli la bruttò con una parola vile; e poi biasciò come se la lingua gli si fosse disseccata.
- L'ami dunque?
Egli parlò, pieno di rancore, di sgomento, di vendetta e d'incantesimo, con qualcosa d'intollerabile come la vista di un'agonia, con qualcosa di falso come il gioco di un istrione, a volta a volta miserando e odioso, tragico e ridevole.
Ora la Leda senza cigno era là, così liscia che pareva non dovesse avere un solco neppure nel cavo della mano, levigata veramente dall'acqua dell'Eurota. E la sua vita era un'altra.
Nasceva d'una di quelle razze miste la cui virtù funesta è prodotta da un oscuro concorso di sangui e di fati, come la potenza di quei miscugli da infuriare, ove la radica della mandragola e l'umore della giumenta bollivano insieme. Suo padre, grande amatore di cavalli, aveva tenuto una famosa scuderia da corsa; poi s'era rovinato, aveva vissuto d'espedienti, da cavaliere d'industria; discendendo di bassezza in bassezza, inciampando più d'una volta nel codice. Dopo aver vissuto in contatto cotidiano coi palafrenieri, coi fantini, con gli allenatori, sfogando la sua temerità nativa e i suoi gusti da circo nel montare i puledri trienni su i galoppatoi publici, ella aveva sposato a diciott'anni un gentiluomo francese: aveva divorziato a venti; e s'era ritrovata prima con una fredda canaglia d'amante e poi sola, nel disagio, alla ventura, esposta alle persecuzioni del padre che voleva foggiarne un bell'arnese da guadagno non per lei ma per sé. Incapace di affrontare la miseria, deliberata a tutto, ella aveva incontrato in una città di terme una specie di procacciante in cerca di complici e di vittime: il quale per un seguito di accorgimenti felici era riuscito a fidanzarla con un giovine sciocco appena appena escito di minorità, orfano, già molto ricco e prossimo erede d'un'ancor più lauta fortuna. Ella, il fidanzato e il mediatore avevano vissuto due anni insieme, «avevano fatto la vita», errando d'albergo in albergo, di piacere in piacere, di noia in noia, dall'una all'altra veglia, dall'una all'altra tavola da giuoco, in una promiscuità non confessabile; ché la promessa sposa aveva posto il divieto fino all'ascensione del talamo e il paraninfo era riuscito ad esercitare sul novellino un dominio assoluto, simile a una sorta di malia perversa, servendosi di quel filtro che si porge con la siringa d'oro. La morfina, somministrata dalla mano sapiente, aveva diffusa una così rosea benignità che senza sforzo e senza sospetto fu ottenuta in favore della fidanzata austera una polizza d'assicurazione per un milione e mezzo, pegno nuziale. Quando il primo versamento fu eseguito in regola, la previdenza consigliò di sopprimere il benefattore. Un giorno, in una via difficile dei Pirenei, a una dose più forte di narcotico seguì una disgrazia preparata con squisita cautela. L'automobile rimessa in movimento, dopo una sosta casuale, precipitò nella forra lasciando su la carreggiata l'assassino incolume.
Non ascoltavo cose già note? Certo, di simili casi abbondano gli annali giudiziarii e i rossi romanzi ad uso dei portinai. Ma serpeggiava di sotto a quella massa di fatti volgari, non so che canale d'ombra che il mio spirito aveva già risalito e ora novamente risaliva riconoscendovi in confuso gli indizii del suo primo passaggio. E quella profondità mi dava l'ansia di scavare ancor più profondo in me stesso, di raggiungere in me un più vero di me, il quale non temesse e non fallisse dinanzi a ciò che stava per formarsi e per apparire.
- Come sai queste cose?
Egli animava di tratto in tratto il suo racconto con talune di quelle intime rivelazioni che non può commettere ad altri se non chi si confessi audacemente contro sé medesimo.
- Le so da lei.
- Ella si accusa?
- Non si accusa; parla. Ignora dove sia il bene, dove sia il male. Prima ti dice una cosa tremenda, senza guardarti, con non so che sorriso timido, come chi provi col piede la resistenza della tavola posta a traverso il torrente, prima di passare. Poi ti curva come un carico, ti pesa sopra come una colpa che tu debba reggere con l'osso della tua schiena.
- E sei sicuro che di queste cose ella non si componesse allora e non séguiti ora a comporsi una vita imaginaria?
- Porta il ferro della realtà ben ribadito al piede.
- Come?
- Vive con l'assassino.
- Dove?
- In questo paese.
- Da quanto?
- Da due anni.
- Era già la sua amante, prima della catastrofe?
- Sì, era; ma per compenso della mediazione, e poi per mezzo della complicità. Ella lo abomina.
- E perché lo tollera?
- Le circostanze che accompagnarono la fine del promesso sposo parvero sospette. E la Compagnia ne profittò per contestare la validità della polizza. Le prove mancavano o eran troppo vaghe. Nondimeno il processo fu avviato e si trascina ancora. L'uomo dunque la tiene sotto la minaccia di una denunzia folle e della mutua perdizione. Credo che, terminato il processo sul cui buon esito finale non v'è omai dubbio, la somma debba essere divisa tra i due in misura già pattuita.
- Quali rimasugli di vecchio romanzo poliziesco t'ingombrano la fantasia?
- Tutto questo è reale, e non è se non un barlume della realtà cotidiana. Imagina: essi vivono insieme, là, sul Bacino, in una di quelle villette sonore fatte di tramezzi e di palchi sottili, dove s'ode il cuore battere e il polmone gonfiarsi, dove non è possibile sfuggire all'odore dell'essere odiato né allo sciacquìo della sua catinella.
- E che uomo è costui?
- Imagina una testa a piramide tronca, una vera testa di pitone, precisa come una volontà geometrica, rigida come un problema o come una sentenza, con due occhi senza colore dietro un paio di lenti spesse come i cristalli delle lanterne cieche….
- E chi provvede alle spese?
- Egli non è d'origine se non un borghesuccio, figlio di un fabbricante di porcellane limosino. Ella ha qualche resto della sua dote. Ma tanto poco non basterebbe alle sue abitudini di eleganza e di lusso, almeno esterne. La fiducia nell'esito del processo le apre un credito rovinoso presso gli usurai vinattieri della Gironda. Anche per queste strozzature è buon mediatore il pitone freddo.
- E tu chi sei davanti a lui?
- La vittima designata del gioco abituale. Due o tre volte, mentre ero davanti al pianoforte, là, nella villa sul Bacino, l'ho veduto apparire nel vano dell'uscio, sogghignare silenziosamente, poi ritirarsi come uno che vada altrove per abbandonarsi alla sua ilarità. E ogni volta aveva per me l'aspetto di quei fantasmi che si formano da certe disgregazioni dello spirito su l'orlo della follìa e che agghiacciano il malato con una presenza intermittente. Un mio povero compagno, prima di entrare in una casa di salute, era frequentato da uno di questi visitatori; e non osava mai voltarsi per tema di vederselo allato. Ora qualcosa di simile accade anche a me….
- Ma è chiaro che si tratta di un fantasma tollerante e perfino compiacente, amico mio.
- Non contraria i giochi del caso e della fantasia, i capricci della noia e della crudeltà, ma soltanto li sorveglia da vicino o da lontano. Egli non ha se non uno scopo: tener legata a sé la complice, sia pure con una lunga catena da lentare quando convenga. Egli non teme se non la fuga, lo scampo, diciamo pure «l'evasione». Ora le armi ch'egli serba contro di lei e le note minacce rendono inefficace qualunque tentativo in terra. Ma v'è uno scampo dalla parte del buio, v'è lo scampo di sotterra. E questa la sola minaccia ch'ella possa opporre a quelle altre che la curvano.
- È capace di uccidersi?
- A ogni momento.
Rividi luccicare l'arme d'acciaio e d'avorio per l'apertura del manicotto color di perla. Rividi la donna dalla mano celata, in piedi dinanzi a me, intiera, silenziosa, piena d'un suo male simile a una verità o a una menzogna profondissima che le tenesse vece di vita.
- A ogni momento, per un nulla, come si apre un uscio, come si passa una soglia, come si scende un gradino.
Fino a quel punto le cose narrate erano rimaste non meno estranee alla figura ideale di lei che, per esempio, al calco dell'Apollo di Piombino posto sopra uno scaffale di libri quadrato e girevole, là, vicino al pianoforte. Non riuscivo né a comprendere né a sentire che tale fosse la vera sostanza della sua vita. Il suo mistero rimaneva intatto come la divinità oscura della statua che attraeva i miei occhi dorata dalla luce del pomeriggio. Tanto quelle azioni definite erano dissimili alla creatura infelice quanto un inno omerico o un capitolo di mitologia eran diversi da quella forma intenta abitata da uno spirito non meno inconoscibile che il vigore d'un albero il quale alleghi i suoi frutti.
Dov'era la mano che aveva modellato su la fronte breve del dio il doppio ordine simmetrico di riccioli? Non meno insistente mi pareva il potere di quel passato nel cui rigore doveva essere costretta quell'anima. Il mio spirito non riconosceva alcuna coesione in sì grave massa di fatti volgari, ma era posseduto da un sentimento poetico che lo mescolava in un modo misterioso a ciò che si genera sotto il silenzio umano. Per ciò l'istinto volgeva tanto spesso i miei occhi verso l'Apollo che, finito come un'opera di cesello, esprimeva da ogni linea un infinito di poesia. Anche una volta la forma mi diveniva una fede veggente; e, ascoltando tante vane ignominie, non credevo se non a ciò che mi significava la bellezza levigata dall'acqua dell'Eurota.
Or ecco che, all'improvviso, tal bellezza m'appariva appresa alla morte come un di quei cammei intagliati nella vena bianca di un'agata scura. Il rilievo ne divenne così fiero che tutto il resto si dissipò. Udivo il mio cuore battere con tanta violenza che mi stupivo non l'udisse il mio amico. Ma egli doveva essere assordato dal suo proprio tumulto, su cui di tratto in tratto versava un sorso ardente.
- Perché? - gli chiesi. - Perché ne parla con arte; perché, come tante altre donne, ne fa una graziosa millanteria….
- Due anni fa, in un periodo d'insofferenza e di furore, tentava la morte quasi ogni giorno. Aveva uno di quei canotti leggeri da corsa che si vedono alle gare di Monaco, munito d'un motore a sedici cilindri, donatole da un ammiratore argentino. Un'anima dannata di meccanico l'accompagnava, a qualunque ora del giorno o della notte, quando col maledetto vento di ponente il Bacino era in tempesta e il passo dell'Oceano diveniva impraticabile. Con prodigi d'astuzia, sfuggiva a ogni attenzione e a ogni impedimento. Quasi sempre tornava nel punto in cui si perdeva la speranza di vederla riapparire. Per ore ed ore l'onda aveva schiumeggiato su lei come contro una figura di prua. Chi la baciò, dové sentire per lungo tempo il sapore del sale su quelle labbra screpolate.
Ben la vedevo, quasi avessi dentro di me l'approdo, coperta dalla sua cappa impermeabile, con la sua faccia dentro il camauro d'incerato diafana come la lampada della medusa natante. E non l'avevo attesa se non per ripartire con lei nel crepuscolo.
- In una spiaggia galante di Normandia, poco dopo il suo divorzio, fu assiduamente assediata da un giovane giocatore di «polo» che le faceva montare i suoi cavalli deliziosi. Senza nulla concedergli, seppe renderlo così folle di passione ch'egli le offrì di sposarla. Ella ne rise, e lo torturò con tanta raffinatezza che un giorno egli trovò il coraggio di partire e forse andò a giocare il suo gioco su qualche buon terreno inglese dell'India. Ella non lo amava: non s'era abituata a lui se non come a uno schiavo da servire a invenzioni e ad esperienze di supplizii; ma amava teneramente uno di quei cavalli da «polo», un saurello che portava il nome shakespeariano di Petruchio. Quando seppe della partenza, la sera stessa si avvelenò con qualche pastiglia di sublimato corrosivo; e rimase per giorni e giorni tra la vita e la morte. Dal letto di dolore non faceva che tendere la palma della mano, ripetendo il gesto usato nell'offrire lo zucchero al suo Petruchio.
Ora, di sotto ai miei cigli socchiusi, vedevo quella sua mano nuda, tratta fuori del guanto, quella mano lunga e robusta dalle nocche asciutte e polite sfiorare il labbro esiguo d'uno dei piccoli cavalli fidiaci che galoppavano nei gessi del Fregio disposti lungo la mia parete. Non mancava se non la palla di legno e il mazzuolo dal manico flessibile agli sveltì cavalieri ateniesi, il prato raso ed elastico agli zoccoli delle loro bestie ben raccolte. Vedevo il sole obliquo ferire l'erba grassa di Normandia e un fascio di raggi come una lama d'oro tagliar netto due zampe nervose pontate in terra nell'arresto brusco. Ma il mio cuore di rivale balzava di gioia selvaggia alle parole: «Ella non lo amava».
- Or è un anno, di questi giorni appunto ai primi d'aprile, una sera….
Il mio cuore si fermò. Riudivo, dentro di me, cadere le seggiole rovesciate sul pavimento sonoro, laggiù, nell'ombra della sala piena d'echi come una chiesa nell'ufficio delle Tenebre.
- Una sera? - feci, per sollecitare la voce che s'era interrotta come se la sopraffacesse la mia ansietà. Rivedevo negli occhi della sconosciuta il riflesso di madreperla, e il suo viso alterato dal tremito indomabile.
- Una sera, a Bordeaux, per qualcosa di simile, mentre seduta nell'automobile discuteva con lo zio d'un povero ragazzo che volevano impedirle di rivedere, lasciò partire a un tratto un colpo verso il suo petto, dal revolver nascosto nel manicotto. La palla rasentò il polmone e si conficcò sotto la scapola. Ancóra la vita in pericolo per settimane e settimane, l'orrore d'un letto in una clinica, il pitone desolato al capezzale….
Tutte le apparenze e tutte le divinazioni di quella lontana sera di primavera rifluirono dentro di me con una forza moltiplicata, creando un sentimento ch'era come una forma di dolore immensa ch'io non potessi patire e conoscere tutta quanta se non nel futuro. Non avevo alcun dubbio; nondimeno chiesi:
- Che giorno era? Lo sai?
- Sì, era il cinque d'aprile.
- Per disperazione d'amore?
Una gelosia oscura mi travagliava.
- Per imaginazione d'amore e per insofferenza della stupida vita.
Quel Paolo, il minorenne ch'ella aveva traviato, era il nipote d'un mercante di vino col quale il pitone aveva trattato operazioni d'usura sul denaro di là da venire, su la farina del diavolo insomma. Vedi strano gioco! Quasi per rappresaglia contro lo strozzino, ella s'impadronì del ragazzo che non mancava di grazia fisica e d'una certa finezza sentimentale. In poco tempo lo mutò, ne fece una cosa sua, da tenere sul pugno all'obbedienza come uno sparvieretto incappellato. Scoperto il pericolo, i parenti corsero al riparo, prendendo sùbito la misura più efficace. Sequestrarono Paolo, lo trascinarono via, lo nascosero non si sa dove. Questo bastò perchè il capriccio esasperato divenisse in lei una specie di furore. Domandò di rivederlo per una volta, di parlargli per l'ultima volta. Non le fu concesso. Si faceva portare quasi ogni sera nella strada dov'era la casa dei parenti, e mandava un messaggio; ma rimaneva delusa. Quella sera a un messaggio imperioso e minaccioso accorse lo zio per tentare di persuaderla alla rinunzia. Ella era nella vettura; egli le parlava dal predellino. Ostinata, ella ripeteva: «Voglio vederlo». Ostinato, l'altro negava. Di sotto alla pelliccia, a un tratto il colpo partì, come per caso. Lo strozzino accompagnò il corpo forato alla clinica. Quando ella rinvenne e poté soffiare qualche parola, supplicò che le lasciassero rivedere Paolo, almeno per un attimo. Inutilmente. La legge dei mercanti fu inesorabile. Solo il pitone rimase accanto al letto bianco, e la primavera contro i vetri della finestra. La palla fu estratta. Le cicatrici….
- Ah, vuoi descrivermi le cicatrici?
Non contenevo più il mio tumulto. Su quella parola egli s'era interrotto per bere ancóra un sorso, per versare ancóra un po' di fuoco liquido nella caverna ove ansava il suo cuore stracco. Egli fasciava interamente il bicchiere con le spatole delle sue dita, cosicché l'indice e il pollice circondavano l'orlo ov'egli metteva le labbra aspirando l'essenza del liquore intiepidato. Le sue narici palpitavano sopra la maschera lustra del vizio. Tutto in lui ora m'offendeva e m'irritava. Vedevo, tra le sue dita deformi e il vetro quasi spremuto, tremolare non so che sorriso odioso. Pensavo ai porci demoniaci che sogliono abitare in quella specie di artisti aspettando d'esserne espulsi dall'esorcismo dell'inspirazione.
- Racconta, racconta. Come dunque è venuta a te?
Rise brutalmente nel cerchio del bicchiere.
- All'odore della carogna, forse.
- Si potrebbe dire con più grazia funebre: a raccogliere il canto del cigno. Non ti dà l'idea d'una Leda? Guarda questo gruppo dell'Ammannati.
Egli sentì l'inimicizia nella mia voce.
- Compagno, - fece convulso, fissandomi - dimmi la verità. Non fu simulazione, ieri, quando mi chiedesti chi fosse? Non l'hai tu conosciuta prima di me? Non sei passato per là, tu anche?
- No.
- E perché sei geloso?
- Non geloso, ma forse un poco iroso. Tu lo sai: io non concepisco la vita se non sotto la specie dell'espressione. Ora coi tuoi racconti opachi tu hai contrariato, linea per linea, la sua espressione in me. Bisogna che io la ritrovi e la ricomponga a forza d'amore e di dolore.
Toglievo ogni gravità a quel che dicevo, col tono e col sorriso.
- Verrà a te; e l'amerai, e ne soffrirai.
- Me la lasci in retaggio?
- Certo, io ne vorrei morire. Ma sono trascinato via come Paolo, sono sottratto al bel destino. E la sua strana sorte è questa: che, al buon momento, ogni vittima designata le sfugga. Ella medesima sfugge a sé.
- A un polmone già leso da una ferita non hai temuto di comunicare il tuo male?
L'aria della stanza pareva divenuta cruda come quella che spira nei luoghi senza legge e senza menzogna. Non ero più capace di reticenza né di dolcezza. Vedevo da una parte quella forma stupenda, trattata con una magnanimità non men severa di quella che rivelavano gli esemplari dell'arte antica nella cui testimonianza continua si conferma il mio senso del mondo; e dall'altra parte consideravo quell'umano focolare d'infezione, quella sorta di sensualità ignominiosa che non potevo separare da un'imagine di lordura e di frode. La mescolanza mi pareva inverisimile. In fondo a quella mia domanda era un'indagine maligna, ché lo sapevo millantatore e incapace di confessarsi deluso come il cavaliere di Petruchio.
- L'hai tenuta veramente fra le tue braccia? Hai respirato in lei?
Le mie pupille lo foravano. Una contrattura involontaria delle labbra mi parve l'indizio atteso; ma egli lo cancellò con uno scoppio stridulo di riso, levandosi e un poco barcollando.
- T'informi con una prudenza senza pudore - disse. - Ma il contagio nella successione sarebbe la mia vendetta. Che ora è? Passerà di qui verso le cinque, a prendermi per ricondurmi. La vedrai. Desidera che tu le mostri i tuoi cani. Io partirò con mia madre domattina, senza fallo. È il caso di dire che ti trasmetto la fiaccola correndo.
Apersi la vetrata su la veranda, con la fretta di chi si senta soffocare da una esalazione malvagia.
La marea, che è femmina, montava verso la duna ispida di giunchi. Tutte le acque tremavano e brillavano sommergendo i banchi di sabbia pallidi e dolci come i corpi dei naufraghi succhiati dalle sirene. S'udiva un mormorìo profondo come dev'esser quello che annunzia la rompente primavera nei paesi di ghiaccio. Il sole declinante lasciava dietro di sé una via splendida per ove pareva dovessero scendere i suoi grandi cavalli bianchi liberati dal giogo. I miti della mia razza venivano a invadere le solitudini senza storia. Il mio spirito era fervido, fertile e fatale come nel principio dell'amore. Il compimento d'una divinazione era prossimo, e l'oracolo del sangue era stato bene interpretato.
Non avevo più volontà di volgermi e di rivedere quel viso distrutto, l'orribile teschio, la dura maschera d'osso a traverso la pelle logora. Qualcosa più forte di me e di quella miseria, ecco, nasceva; ed era per somigliarmi. Uno spirito diceva: «Soltanto esiste quel che ancor non è, e tu vivi del futuro, non ti ricordi se non del futuro». Il mio cuore diceva: «Tutto prendo su me. Ella è senza colpe. L'assolvo. Eccola». Parlava come quel pioppo che stava solo, quella sera, vestito d'argento cangiante, all'angolo di quel giardino. Reduci le apparizioni crepuscolari e notturne mi trapassavano, si dileguavano.
Udii il rumor secco che fece il coperchio del pianoforte sollevato; e non mi volsi ma attesi, rabbrividendo come se la mano si fosse posata su la mia spalla e non su la tastiera.
L'anima dello strumento vibrò come per uno schianto di dolore.
Il morituro parlava il suo vero linguaggio. La disperazione parve talvolta imitare il grido d'una felicità terribile e afferrare il destino alla gola con una branca potente come quella di Beethoven. Tutto quel che innanzi era stato detto o pensato, tutto fu piccolo, vano e lontano. La luce del giorno fu simile alla cecità.
Mi volsi contro lo stipite, vi poggiai la mano alzata e contro la mano la fronte, con chiuse le palpebre. Feci la notte in me, per cogliere i bagliori che la musica spandeva di tratto in tratto sul fondo vacuo della vita. Una pausa mi sospese sopra il mio proprio annientamento. Era come se il silenzio fosse per durare in eterno. Il pianto ricominciò; poi di nuovo si tacque. Ricominciò per la terza volta, come in una sosta al limitare della porta che si deve chiudere; poi finì. E nessuno si mosse.
D'improvviso udimmo un rombo al cancello del parco.
E quegli si levò, e io mi volsi; e mi vidi scolorato in lui, smorto e con le labbra livide, come chi dal fondo risale a galla senza respiro.