A CHIAROVISO.

Il giorno dopo, in quel giardino solatio della Giudecca, non respirammo tutta l'Italia bella sotto la specie del profumo?

Era come uno di quei doni che figurano la copia delle contrade. Era come uno di quei doni che accompagnano il commiato, troppo ricchi, fatti per colmare e per straziare. Una ricchezza selvaggia. I fiori a mucchi, le erbe a fasci.

I rosai commisti alle ortaglie. Il fogliame frastagliato del carciofo confuso con quello corinzio dell'acanto. Un arco violetto di pendule clematiti, più lieve d'uno sciame, lungo la muraglia ove ingrassano i cavoli glauchi, che sembrano rugiadosi di luna, tutti foglie intorno il cuore simile a una rosa azzurra serrata e indurita dal gelo. Alti oleandri, non arbusti ma alberi, come nelle spiagge del Tirreno. Strisce di giaggioli come in vetta al muro d'un podere di Fiesole; macchie di rosolacci come sul ciglio d'una via laziale. La vite e i suoi viticci freschi, asprigni al gusto; il ribes e i suoi grappoletti di vetro lucido; il fico e i suoi fioroni chiari come le nervature delle sue foglie arrovesciate dal vento; il susino e, tra le sue prugne ancóra acerbe, qualcuna già bionda di miele. I ciliegi carichi di vìsciole e d'amarasche, sopra un pratello in disparte; e le scale rozze poggiate contro i tronchi, per cogliere le ciocche rosse che fanno pensare agli orecchi dei bambini ornati di quei sugosi coralli. I melagrani come candelabri accesi di fiammelle che sono quasi fiore e quasi frutto, quasi lume e quasi cera. Le teste dei papaveri, alte come la giovinetta Proserpina, coronate dalla corona di nove punte, stillanti sopore. I garofanetti a mazzi, che i pii Veneziani chiamano oculicristi e voi chiamate garofani dei poeti, quasi fatti a ricamo sopra una veste di seta verdina. Le viole del pensiero a tappeti gialli, bianchi, violetti; le roselline a corimbi, a grappoli, a capanne, a cascate; le rose d'ogni mese a siepi, a masse, a campi. Il rosmarino, la salvia, la menta, lo spigo, il timo, il serpillo, tutte le erbe odorifere, come in un orto domestico. La lupinaggine, il trifoglio, l'erba medica, l'erba sulla, tutti i foraggi, come in un recinto da pascolo. I limoni e gli aranci nei vasi di terracotta e nelle casse quadrate di legno dipinto, intorno alla vasca d'acqua verde ove scivolano gli insetti gambuti e marcisce il fascio di vinchi gialli e la rana prova a quando a quando il suo flagioletto fioco.

Dove siamo? Ecco un gruppo d'allori nobili come quelli del Bosco Parrasio. Dove siamo? Ecco una fila di cipressetti compagni a quelli di Vincigliata. Dove siamo?

Ecco un pino emulo di quelli che albergano le cicale della Campania e le cornacchie dell'Agro.

Camminiamo per una ripa erbosa, piano, senza parlare, temendo che si sveglino i grandi uccelli di paradiso accovacciati, che non sono se non una fila di tuie auree, a cui il libecciuolo arruffa la piuma come increspa la laguna color di foglia d'aloè.

Rapiti, a un tratto, scorgiamo l'albore dell'Annunziazione. Mille e mille Angeli sono inclinati davanti a mille e mille Marie? e ciascuno alza il suo segno di purità? È la via lattea dei gigli, il cammino senza labe. Tutti gli steli sono precocemente fioriti, avanti la festa del Santo. Maggiori di Chiaroviso, giungono alla tempia di Nontivolio altocinta. Tanto argento vince l'oro del sole e crea un incanto lunare nel giorno.

Dove siamo? Laggiù la Primavera d'Italia e l'Estate d'Italia alzano ciascuna il braccio nudo e congiungono in sommo l'una mano con l'altra, come nei balli a tondo quando tutta la catena deve passare sotto il giogo delle due prime danzatrici.

Ma le ospiti volgono per un altro cammino, con non so che umiltà inebriata.

E nessun fiore fu colto.

 

Il domani, verso sera, visitammo quel giardino bacìo che sta tra la Madonna dell'Orto e la Sacca della Misericordia, piantato dal procuratore di San Marco Tomaso Contarini fratello di quel cardinale Gaspare che fu candido amico di Vittoria Colonna e accomandò a Paolo III Ignazio di Loyola.

Non è un giardino disordinato e copioso come quello della Giudecca, mescolanza ardente di odori e di sapori. È ricomposto con arte su i vestigi cinquecenteschi, segretamente architettato, simile alle sale e alle camere terrene d'un palagio di verdura ove abiti una Stagione educata come una gentildonna ma non schiva d'intorbidare con qualche negligenza la sua grazia mite.

A traverso le sue grate di ferro guarda la laguna di Murano e di San Michele, dove il Gran Becchino attinge l'acqua triste con una secchia di vetro forata.

Ha le sue vecchie mura, la sua vecchissima cinta, dove ogni mattone ha vissuto la sua propria vita, patito i suoi mali, veduto passare i fantasmi del tempo, ceduto o resistito alla corrosione dei secoli e della salsedine, acceso o spento il suo colore. Uno ha tanto sanguinato che è come un massello di grumi; un altro s'è tanto consunto che si nasconde dietro un ragnatelo; un altro, divenuto insensibile, s'è indurito come la rosea cornalina. Altri hanno altri aspetti, altre infermità, altre rimembranze. E il muro tocca l'anima come un racconto che passi per le pupille, scritto coi segni delle fenditure e delle cicatrici. Quando si vede qua e là riapparire tra il fogliame, s'ha pietà come della vecchiezza denudata. Ma gli uccelli si posano su la sua cresta o sul ramo per cantare il medesimo canto.

Quella sera lo scirocco ci fu favorevole. Inumidì il mattone e la pietra ravvivandole, come l'antiquario passa la spugna umida su una lastra appannata di pavonazzetto o di cipollino per iscoprirne le venature e gli screzii.

Nontivolio camminò col suo passo «alla levriera» sopra un pavimento a quadri bianchi e rossi orlato di bossolo non più massiccio di un festone; e sotto l'altissimo tacco il marmo veronese riluceva come porfido suntuoso.

Passammo di appartamento in appartamento, per gli anditi dei pergolati. Le pergole erano sostenute da vecchie colonne, da vecchi capitelli, da vecchie travi, ove la fronda pareva non anche racconsolarsi d'aver portato e d'aver lasciato cadere il fiore. V'era un ricordo di cosa allegra, come quando il ramo séguita a vacillare dopo che l'uccello s'è involato.

Entrammo in una sala di musica. Gli arazzi erano verdi, verdi i tappeti. I sonatori di Giorgione se n'erano già andati, con i loro strumenti e intavolature. Uno aveva dimenticato per terra un archetto, o qualcosa che ci parve nell'ombra un archetto, non forse fatto di crini ma di bei capelli tesi. Come la nostra malinconia origliò su la soglia, il silenzio le ripeté le ultime note d'una cascarda detta la Contarina.

Traversammo una fuga di camere attigue, costrutte di bossolo, di carpino, di mortella, d'alloro, di caprifoglio. Qualcuno fuggiva dinanzi a noi. senza mostrarsi, di camera in camera. Avevamo l'aria d'inseguirlo, se bene andassimo adagio. Inseguendolo, ci trovammo all'ingresso d'un corridoio basso, di fronda così fitta ch'era quasi buio come un cunicolo. Allora stesi la mano e dissi: «Non passiamo di qui». Credo che voi credeste che fosse una precauzione d'infermo malsicuro.

Il cielo sciroccale fumigava non senza qualche sprazzo di vampa, come quando il fuoco piglia e non piglia nella catasta di legna verdi. Volgemmo verso il pergolato mediano, simile a un portico di monastero; salimmo tre gradini umidi, ci trovammo dinanzi al cancello di ferro che dà su l'approdo dalla parte della laguna. Ci affacciammo al cancello. E la ruggine fulva tingeva i guanti delle vostre mani appoggiate, facendo parer più chiara la vostra biondezza. L'estremo ardore del tramonto s'era aperto un varco nella fumèa pigra e accendeva dinanzi a noi, su l'acqua immobile, la muraglia claustrale che cinge l'Isola dei Morti. Tutta la palude e le altre isole erano fumo e ceneraccio. Soltanto l'isola funebre e il suo cipresseto e le ali dei gabbiani spersi splendevano in quel silenzio che pareva lor sostanza e spirito.

Lo splendore ravvicinava il cimitero, abbreviava il transito. La terra sepolcrale invadeva il giardino di delizia. Il mio compagno sepolto m'era prossimo, come quando mi chinai verso le sue scarne mani violacee, prima che il coperchio di piombo fosse sigillato dalla fiamma che già ruggiva e dardeggiava presso la cassa lunga come la sua spoglia.

Allora il cuore mi dolse così forte che, per aver sollievo, dissi il suo nome, parlai della sua anima, parlai delle sue ali e della mia promessa.

Discendendo dalle nuvole perigliose, io solevo condurlo nell'orto contareno. Il giardino gli pareva più bello in un'aria grigia, o sotto un cielo lavato dalla pioggia d'autunno. Preferiva un luogo segreto ov'era non so che pace dell'Estremo Oriente, quasi una cadenza della narrazione di Marco Polo.

Là in una vasca bassa viveva un loto dalla larga foglia che gli sembrava la più dolce e ricca seta del mondo. Una grande e bellissima donna essendosi con noi accostata alla vasca, si vide che aveva l'altezza medesima dello stelo; cosicché la pelle della sua faccia e del suo collo pareva venire a gara, non senza compiacenza, con la foglia solinga. Ma questa, sebbene immobile, riceveva la luce più misteriosamente, come una creatura divina riceve una cosa divina.

Eravamo fermi in un attimo di felicità, senza desiderio. Forse il mio compagno cercava in sé le parole d'uno di quei sentimenti o concetti - gnomas breviculas - pe' quali Giacomo Boni un giorno gli aveva rivelato la grazia dei poeti d'Asia più lontani. Spesso egli per gioco si piaceva di foggiarne a simiglianza, con quel misto di sottigliezza e d'ironia ch'era il tono del suo spirito tra estranei.

Allora la bellissima donna si volse verso noi troppo silenziosi; e domandò, con la gota contro il margine della foglia perfetta: «Chi è più bella?».

«Quella che non parla» rispose il misogino, placidamente.

Non so se in quel giorno o in un altro, seduto sopra uno dei gradini laterali che scendono al cancello dell'approdo, mi ripeté ancora qualche pensiero e qualche sorriso dell'Estremo Oriente, guardando a traverso il ferro battuto l'Isola dell'ultima pace.

Un filo di fumo azzurrino gli esciva dall'angolo delle labbra e, spinto dal vento, si avvolgeva al ferro, vacillava, e poi vaniva. Due farfalle bianche, di quelle che per ali hanno rapito quattro petali a una rosa di neve, esitavano su l'acqua color di perla e poi svolazzavano su per il cancello come se volessero entrare nel giardino, ma pareva non osassero passare per i vani temendo di sgualcirsi. Una alfine si posò sul ferro rugginoso, come su una corolla inflessibile.

Allora il mio amico si ricordò d'una di quelle imagini asiatiche di farfalle che gli aveva mostrate il romito del Palatino. E ripeté, in un velo di fumo, guardando con que' suoi occhi d'ambra verdiccia quel bianco fiore di quattro petali fiorito dalla ruggine bruna: «Ha le ali ancor tremule, e già s'è posata».

Avremmo potuto incidere questa allusione alla sua anima nel suo cippo di pietra istriana, s'egli non fosse stato un guerriero, se nel suo corpo esiguo non avesse chiuso il rigore d'una volontà eroica, se la severità della sua sorte non avesse in noi annerato il ricordo del suo sorriso lieve.

 

Quand'anche questa immensa guerra non altro facesse che ricondurre l'uomo alla familiarità della morte abolendo quel falso limitare che sembrava separarla dalla vita e dalla luce, già dovrebbe per noi essere lodata e benedetta.

Un giovine granatiere della Brigata di Sardegna, tornato con una corta barba rossa da rabbi cresciutagli nella trincea intorno a un viso fermo e netto come se glie lo avesse ridisegnato a sanguigna l'intagliatore del Trionfo di Cesare, parlandomi d'un suo compagno che non aveva saputo ben morire, mi disse: «Era venuto alla guerra, come tanti, senza aver prima fatto la pace in sé». Disse questo con una piana semplicità. E, più delle parole, mi colpì quella sua aria tranquilla che non somigliava a una certa tranquillità usuale ma alla figura d'un sentimento straordinario, all'espressione d'un acquisto e d'un possesso più preziosi che tanto di suolo nemico espugnato e occupato.

Egli era rimasto solo per un giorno intero, in mezzo ai reticolati austriaci, nascosto in uno di quegli imbuti che scavano nella terra le granate scoppiando; e, mentre il nostro fuoco abbatteva gli spineti e sconvolgeva il suolo, egli osservava l'esattezza del tiro e pigliava rilievi imperturbabile.

Un altro giorno, come la sua gente già provata dall'artiglieria nemica era stata presa di mira per errore dalla nostra, egli solo con una bandiera in pugno, sopra un'eminenza del terreno scoperta, tra i due fuochi, ritto in piè, aveva persistito a far segnali finché i nostri pezzi non ebbero mutato bersaglio.

Un'altra volta, di notte, su la montagna, in una di quelle gloriose incamiciate ove eccellono la prodezza e l'accortezza dei nostri fanti, s'era battuto contro una puntaglia austriaca con la baionetta impugnata come una daga e poi, sopraffatto, a pugni a calci a morsi, lasciando sul terreno la pelliccia a brandelli ma riuscendo a svincolarsi e a raggiungere i suoi per ricondurli alla mislea con un mozzicone di lama e con un largo riso ne' suoi denti di lupo tutti in sangue. Aveva perso il pelo, non la ferocia.

Ammalatosi di tifo e di polmonite nella belletta putrida della trincea, i medici avevano diviso in zone il suo corpo paziente, curandolo a contrasto, col freddo e col caldo. Una vescica di ghiaccio sul capo, un'altra sul ventre; un impiastro bollente sul petto; la morte ai piedi esangui. Egli non si ricorda se non di una gran pace deserta, fra sole e neve, ov'egli restava immobile senza tempo, come una di quelle sentinelle perse che si considerano già sepolte.

Era venuto per un'ora a vedermi, senza ansia. Della sua compagnia erano superstiti ventitré uomini. Doveva ritrovarsi all'alba su l'Altipiano tremendo.

Diceva: «Comando da una diecina di giorni una compagnia speciale della Brigata dei Granatieri: la compagnia degli Esploratori. Si tratta di ciò che noi chiamiamo «una formazione organica» da istruire particolarmente, con metodi nuovi, con una disciplina nuova. Si tratta di creare un'anima e un corpo, e di prepararli a sacrificarsi. C'era, in altri tempi, chi allevava le vittime, chi produceva i tori bianchi e le pecore nere. Imagini un che di simile. Non so dove io abbia letto che tre cose costituiscono il sacrifizio: la vittima, l'oblazione della vittima e l'uccisione della vittima. Imagini una compagnia istruita in questo senso. Si va sempre fuori di notte a far esercizio, da mezzanotte alle cinque, su i colli. Mi sono amicate le costellazioni, che conoscevo così poco; e son riuscito a ispirare nei miei Granatieri l'amore della notte. I soldati italiani, in genere, non amano la notte. Gli austriaci ne hanno qualche pratica; ma anche in questa siamo per superarli. I miei Esploratori, per i segnali, già imitano maravigliosamente i gridi degli uccelli notturni. Sono quattrocento ottanta sceltissimi. I pochi superstiti dell'ultima carneficina vi son tutti. Gente che, a vederla, è più alta della sua statura vera. Dalle spalle in su, c'è l'aria della testa: il coraggio che non sopporta d'esser misurato, come la passione. In poco più di dieci giorni, avevo formato intorno a questa compagnia qualcosa come un'aurèola. L'aurèola aiuta a vederci di notte. Nelle soste, solevo raccontare anche le storie antiche dei Granatieri che si chiamavano «enfants perdus». I nuovi rinnovano quel nome a modo loro. Perdutissimi, infatti. Credo che riescirei a spingerli tutti, d'un balzo, di là dalla morte, senza sforzo. Credo che farei qualcosa di buono, con questa gente, anche se si tornasse proprio alla guerra di trincea, nel Carso, come pare. Invece qualcuno s'è accorto che una simile accozzaglia non è regolare, non è «sugli organici»! E la compagnia sta per essere sciolta, prima dell'immolazione, Io sarò rimandato a inquadrarmi, a ridiventare sagoma da tiro nella massa. Non mi lagno. Conosco la trincea. Per un mal di trincea, sono stato diviso in zone fredde e calde: esperimento di culture. Ma confesso che m'è, a un tratto, venuta la voglia di volare. Dopo tanta terra, un poco di cielo. Mi aiuti, se può. Conosco bene la zona di confine perché ho cacciato nella conca di Gorizia e sul Carso. Sono stato a Lubiana, a Gratz, da per tutto laggiù. So la lingua, i dialetti, gli usi. Vista ottima. Peso, in allenamento, circa sessantacinque chili. Ho molta pratica di motori a scoppio….»

Parlava semplice, con gesti sobrii. Il reale e l'ideale avevano in lui il medesimo accento. Lo guardavo fiso, senza rispondere, con quella pupilla dove ora s'aduna tutta la voracità del mio sguardo. Sentivo in lui l'amore dell'olocausto «in cui tutta la vittima si brucia, totalmente ad onor divino».

«So che non cessa di pensare al Suo compagno scomparso» mi disse, con una bontà velata.

Gli risposi: «Le auguro uno che a lui somigli».

E m'erano là, accanto, sopra lo sgabello, in mucchio, le liste di carta scritte nel buio, quando avevo gli occhi bendati, quando stavo supino nel letto, col torso immobile, col capo riverso, un poco più basso dei piedi, sollevando leggermente le ginocchia per dare inclinazione alla tavoletta che v'era posata.

Cercai nelle rubriche. Trovai, e lessi.

 

[La coppia virile, la coppia da battaglia, rinata nella creazione dell'ala umana, conduttore e feritore, arma d'altezza, arma celeste, maneggiata da una sola volontà, come la duplice lancia del giovine Greco.

Il compagno è il compagno. Non v'ha oggi al mondo legame più nobile di questo patto tacito che fa di due vite e di due ali una sola rapidità, una sola prodezza, una sola morte.

Il più segreto brivido dell'amore non espresso è nulla al paragone di certi sguardi che, nelle ore leggère, riconfermano tra i due la fedeltà all'idea, la gravità del proposito, il sacrificio taciturno di domani.

Ora la morte, che doveva prendere i due, ne prese uno, un solo, contro il patto, contro l'offerta, contro la giustizia, contro la gloria.

Alla cima della gloria, per la coppia alata, è l'olocausto: il sacrifizio in cui è arsa tutta la vittima.

La sorte del fuoco è la lor vera sorte.

La loro ala rombante diviene il lor rogo fiammeggiante.

Come nell'ottava bolgia, essi sono due «dentro ad un fuoco», ma il fuoco non è diviso. Non parlarono in alto; non ebbero bisogno dell'orazion piccola per essere acuti; né parleranno nei crolli della fiamma. Come il volo era un silenzio ceruleo misurato dal canto ritmico della combustione, così l'olocausto si risolve in nero silenzio.

La necessità eroica della coppia alata, quando sia sopraffatta, è l'arsione totale.

Chi si rende prigione, e cede la sua ala, si può dire veramente che pecchi contro la patria, contro l'anima e contro il cielo. Sventurato o svergognato, perde ogni diritto alla gloria.

Portato dal fuoco, il combattente aereo è un incendiario in vita e in morte.

Beati i due compagni eroi le cui ossa irriconoscibili sono mescolate nella barella come tizzoni fumanti!]

 

Egli guardava di tratto in tratto la mia tempia fasciata, il mio occhio bendato, con un sentimento di dolcezza, ma senza proferire alcuna di quelle parole di compianto o di conforto che mi sono odiose e mi sembrano vilissime. Io notavo che i suoi occhi bruni erano straordinariamente ingranditi e che la barba fulva intorno alla faccia ossuta gli dava quell'aspetto energico e pacato che doveva avere il Purificatore quando ebbe cacciato dal Tempio «coloro che vendevano e comperavano in esso». Non v'era più nulla di superfluo nella sua carne come non v'era più nulla di vano nel suo spirito. Non un'oncia di vanità né un'oncia di adipe. Il vero asceta nei due sensi, come quegli che aveva esercitato e preparato alla perfezione il corpo e lo spirito.

Certi asceti cristiani parevano respirare veracemente in Dio, cioè non nell'aria comune, non nei vènti del mondo; parevano avere i polmoni e l'anima adattati a una nuova condizione di esistenza. Simile egli pareva respirare in disparte, in non so che novità interiore, consapevole di sé stesso, e pure non più appartenente a sé stesso, presente e pur trapassato. Non era un uomo; era un'offerta. Non aveva più nessun legame, fuorché quello che lega l'offerta al sacrificio. Era, nel più alto significato ideale, il Volontario.

Parlava semplice, con gesti sobrii. Stava là seduto, occupava poco spazio. Ma quella sua serenità aveva qualcosa d'immenso e di profondo. Io mi sentivo all'orlo della sua serenità come su la riva di un mare raggiante. Dinanzi a un uomo, ecco che avevo un senso sovrumano dell'uomo.

Era quello un uomo pel quale la vita e la morte s'erano confuse come il giorno e la notte si confondono nella zona dell'alba.

Tuttavia le sue mani erano robuste e, nella lotta a corpo a corpo, avevano preso il nemico per la gola; forti erano i suoi bianchi denti, e avevano morso alla disperata il nemico; saldi i suoi piedi, nelle grevi scarpe munite di chiodi, e avevano sferrato contro il nemico il buon calcio all'inguine.

Pensavo: «Ecco un soldato d'Italia». Mi tornavano nella memoria certe sere d'ottobre, laggiù, lungo l'Isonzo, quando parlavo ai reggimenti in punto di marciare verso la battaglia. Da prima i reggimenti non avevano se non un solo viso e un'anima sola, perché io non vedevo se non la fronte allineata, a traverso la mutazione della mia voce. Ma dopo, rotte le righe, avvicinandomi, scoprivo in uno sbattimento d'ombra, in un riflesso di lume vespertino, qualche aspetto di sovrana giovinezza, qualche testa costrutta come quelle delle statue atletiche di Delfo, qualche faccia illuminata come quelle dei martiri invitti, un che di ferino e di spiritale, un che di adamantino e di fervente, come nel volto del mio visitatore. Certo, i più belli erano venuti alla guerra dopo aver fatto la pace in sé.

L'ho io fatta in me?

V'è certo, per ottenerla senza sforzo, un dono di grazia, una elezione gratuita. Allora essa scende e ci sgombra di tutte le infezioni e di tutte le fermentazioni, come dei mali incurabili accadeva al tocco del guaritore. Allora l'identità della vita e della morte diviene un sentimento luminoso. Il pericolo - come da me fu scritto in un libro di prova ascetica - diviene l'asse della vita sublime.

Mi guardo dentro; e confesso che quella qualità di pace, quella pura tempra interna, rivelatami dalla presenza di quel giovine amico, non mi fu concessa, benché io mi sforzi di osservare la disciplina utile a conseguirla.

Si pecca per ardore, anche incontro alla morte. Dov'è la pace, non può essere l'ebrezza. Non si può dire che vi sia vero silenzio in quello spirito che il levame lirico solleva e infervora di continuo. È necessaria una certa nudità interiore, l'assenza delle imagini e delle melodie, perché l'anima imiti quella trasparenza dell'alba «dove il giorno e la notte si confondono».

Ma, poiché la divinazione di una trasparenza tanto perfetta mi rapisce, io cerco il modo di accostarmi a quello stato che mi sembra oggi il più alto per colui che vuol donare tutto sé stesso, per il volontario della sua propria libertà.3

Dal momento in cui quel giovine si rizzò in piedi e prese commiato per andare a vivere come si va a morire, per andare a morire come si va a vivere, la mia aspirazione lo segue. Quando udii la porta richiudersi dietro di lui, stetti in ascolto. Il suo passo tranquillo risonava nella calle stretta allontanandosi. Nondimeno egli mi appariva in un modo misterioso, riempiendomi di fremito e d'anelito.

Si pecca per ardore, anche incontro alla morte. Considero le trasformazioni del «pensiero dominante», da che stette su me, dal principio di un esilio che fu per me una specie di trapasso. Non pace ma ansietà; non fermezza ma ebrezza; non silenzio ma clamore. Il sangue sgorgante dal corpo ignudo del mio Sebastiano aveva per lui medesimo la forza del vino fumoso. Il ritmo del suo canto era come il polso della mia febbre. Per essere a sé il suo cielo, egli voleva le sue ferite innumerevoli come gli astri. Era di sé martire e testimone. I suoi uccisori gli erano specchio. Egli medesimo era l'uccisore e l'ucciso, il saettatore e il saettato. Cangiava la morte in voluttà, guardandola. Gli arcieri, ogni volta che lo ferivano, morivano in lui; ed egli in loro moriva. Per dire il suo rapimento nella morte, imitava il furore della vita.

Come dissimile a quel giovine combattente dell'Alpe!

Forse qualche vampa di quell'antica febbre risorgeva in me, o Chiaroviso, quando vi parlavo della morte lungo la bella riva. Ritornava nel mio sangue l'appassionato aroma della Landa che versa la resina dalle mille e mille piaghe dei suoi tronchi morituri. E forse fu la consueta smania di liberazione, o una subitanea curiosità di confronto, quella che mi spinse a condurre verso la figura del martire inebriato due compagne non immemori di quel che già fui e di quel che già mi piacque.

 

Il domani della sosta nell'orto di Tomaso Contarini, approdammo a quella casa dei Contarini che fu dipinta e dorata da Zuane de Franza. Passava un canotto veloce, di legno bruno levigato e leggero come quello d'un contrabbasso, con a poppa un Ammiraglio canuto, blu e oro, figura di cera in una custodia di vetro.

I due filoni della scìa propagarono l'onda alle due rive del canale pieno. Dall'improvviso rimescolamento la gondola stava per essere sbattuta contro i gradini di marmo, quando col remo abile il gondoliere tranquillo la distaccò e la tenne discosta. Il fondo piatto diede tre o quattro colpi su l'acqua come la spatola di Arlecchino. Poi rimanemmo qualche minuto a danzare tra onda e onda, per una nuova scìa lasciata da un battello nell'accostarsi al pontile vicino. E tutta la vita fu una cosa vana, fluttuante e inesplicabile. I pensieri si alleggerirono e si dispersero. I sentimenti non ebbero più alcun peso. Un sorriso eguale s'indugiò nella bocca delle due donne, il sorriso fisso e dipinto delle statue arcaiche dalle molte trecce, mentre s'attendeva che la danza terminasse. Le liste corrose del marmo di Verona brillarono nel portico quasi che la salsedine vi avesse incrostato cristalli di sale e schegge di conchiglie. Lo sciacquìo orlò di bava i gradini gialli come l'avorio dei dittici. Il palagio traforato ci pendeva sul capo come fatto di refe da una Buranella malaticcia e paziente che tuttavia vi lavorasse di sul tetto con le sue mani da dogaressa. Anche le qualità della materia si trasmutavano come le facce della mente. Non sapevo più nulla, e non v'era più nulla, fuorché maniere di dire, figure di musica, ambagi di linee. Non sapevo perché fossi là e non altrove, non in cima a una piramide, non dentro a un labirinto. Era come una dispersione attonita, come un annullamento stupefatto. Quel legno cavo e nero danzava sul nulla; e i colpi della spatola di Arlecchino risonavano a quando a quando nel vuoto dell'anima. Alfine mettemmo il piede su la pietra ferma. Avemmo il passo cauto, come dopo una vertigine. Aspettammo davanti a una porta che non si apriva. Il passato esiste? Tornavo a quella porta dopo vent'anni. Vedevo, a traverso il battente, nella sala terrena, me chino, con Giorgio Franchetti e con Angelo Conti, me in ginocchio come un operaio a commettere nello stucco porfidi e serpentini per rifare il pavimento di musaico.

I riflessi del canale entravano coi soffii dell'aria marina; e noi secondavamo col nostro lavoro quei giuochi della luce, orientando ad arte i tasselli così che ciascuno pigliasse la sua diversità di chiaro e di scuro e tutta l'opera fosse varia e sensibile, là dove un musaicista meccanico avrebbe tutto appianato e agguagliato in una politura inerte. A ogni passaggio di battello, uno strepito di risacca si prolungava su la riva, riecheggiato dal portichetto come da un antro. Avevamo nella conca dell'orecchio una melodia argentina, e quelle sillabe ineffabili che si creano a quando a quando nei riscontri del vento. Nei pomeriggi di scirocco, i marmi misti sudavano come le nostre tempie, come le nostre mani; e quella tepidezza umidiccia pareva propagare alla materia la sensibilità della nostra pelle e più umanamente assomigliare a noi la nostra opera. Divenivamo più lenti ma più imaginosi. Un orto vicino, di là dal muro coronato dai vecchi merli di terra cotta color «rosa di gruogo», ci mandava l'odore vainigliato dell'oleandro nella polvere soffocante dei calcinacci. Perdevamo a poco a poco la memoria di noi, attratti in non so che incantesimo delle cose. Vedevamo i piedi ignudi d'una creatura sconosciuta passare sul nostro lavoro nettato dalla spugna.

Ed ecco che il custode venne ad aprire la porta, dopo vent'anni! E non osai guardarlo in viso.

Entrammo. La mia ombra e quella dei miei due amici si dileguarono pel pavimento, nello sprazzo di luce marina che lo percosse. Nulla intorno era mutato. Non camminai sul musaico, quasi temessi di calpestare le mie stesse mani. Camminai rasente.

Erano tuttavia là i rottami, le assi, le lastre di marmo non segate, le scorticature della parete, le travature scoperte, la solitudine aspettante, l'abbandono e il trasognamento, e quelle furtive larve grige vestite di ragnateli laceri, che abitano le case dove il nuovo fu demolito per ritrovare il vecchio.

Il gran pozzo rossigno era là, nel mezzo del cortile, pieno di silenzio e di polvere come un'arca. Allora mi ricordai che venivamo a visitare un ospite moriente e immortale. E non mi tornò di sopra al muro merlato l'odore dell'oleandro ma quello della resina, quello dei pini piagati d'occidente; il profumo della Landa, l'aulente malinconia della spiaggia oceanica, l'aroma dell'esilio.

E, salendo la scala erta, riudivo nell'aria il coro angelico di Claudio Debussy ripetere misteriosamente il nome del Santo. E il mio spirito tremava di maraviglia come quando per la prima volta sentì dalla profondità del dramma salire la rivelazione della melodia. Gli si ripresentò a un tratto l'evento immenso. «Dal vecchio mondo che si gonfia e crolla, ecco balza la giovine Musica».

Andavamo vacillando sul solaio sconnesso della sala veneziana restituita alla sua vastità primiera. «Dov'è?» diceva Nontivolio. «Dov'è?» diceva Chiaroviso. Tavole pencolanti, pareti raschiate, usci senza imposte. Come sta ad asciugare il bucato dei poveri, stavano appesi a una cordicella per traverso alcuni tappeti persiani di grande pregio. Attoniti, ci soffermammo a toccarli. Erano vivi. Avevano serbato nei secoli la vita animale onde è pregna la lana tondata nel momento che la tingono i tintori d'Asia. Nontivolio passò la sua lunga mano in uno sdrucio.

Ma che era quella bellezza ferita al paragone dell'altra?

Vacillavamo tuttavia sul solaio malfermo. Ed ecco un arco marmoreo, l'apertura stupenda d'una specie di tabernacolo glorioso, tutto marmi venati e rosati, cui non tanto rischiarava l'alto spiraglio quanto il soffitto a melagrane d'oro.

«Dov'è?» ripeteva Chiaroviso. Gli occhi non lo vedevano ancora, ché la luce dov'egli viveva era una luce diversa da quella del giorno.

«Eccolo.» Egli era diritto in piedi, dentro l'edicola. Era come in un ciborio di marmo. Era nudo, sol fasciato i fianchi sobrii; grande, svelto, col petto quadro. Nella sua carne i dardi parevano fitti con arte, come gli aghi crinali in una capellatura simmetrica. Il suo sangue colava parco, quasi lo ritenesse la durezza dei muscoli.

Non riconoscevo il mio giovinetto canoro, rivolto verso l'Oriente dei misteri sanguigni, turbato dalle lamentazioni degli Adornasti, dal pianto melodiante delle donne di Biblo. L'eroe scolpito dal pennello di Andrea Mantegna era di verace schiatta romana. Nella sua larga faccia, sostenuta da un collo robusto come un rocchio di colonna, la bocca dai piccoli denti schietti mi ricordava quella del giovine combattente partito per l'Altipiano. Dischiusa, non per dire una parola o per gittare un grido ma per bere l'aria silenziosa, aveva non so che purità belluina, come se vi respirasse un selvaggio istinto. Confitto presso il piede saldo e attraversato dalla cocca pennuta d'una saetta, un cero sottile portava la sua fiammella e un cartiglio dov'era scritto:

NIL NISI DIVINVM STABILE EST CŒTERA FVMVS.

Ma il divino lampeggiava e s'oscurava, appariva e dispariva, presente e fugace, diverso e instabile, tra il fumo dalle mille e mille forme.

Ripassando lungo l'inferriata bassa della sala terrena, mi volsi a cercare l'imagine mia giovenile inginocchiata sul musaico. Si faceva sera. Ripensai la mia finestra bassa, laggiù, su l'Ausa, dove i miei compagni venivano a chiamarmi picchiando i vetri con le nocche. Erano giovani. Intravedevo nell'ombra violetta i loro denti bianchi come quelli del San Sebastiano di Andrea Mantegna il Cesàreo.

Ora bisogna che io mi umilii. Divini et humani nihil a me alienum….

Apro a caso il libro segreto della mia memoria, e mi chino sopra questa inquieta cenere d'una mia giornata arsa.

 

[Il mio generale - dalla cui rude bontà m'ebbi ieri in dono una sorta di alloro spinoso sradicato alle falde del sanguinante Podgora e trapiantato in un vaso di terra rossa - il mio generale mi avverte che stamani l'oratore castrense parla alla Brigata Caltanissetta accampata in Versa.

Vado a Versa. È una mattina d'ottobre limpidissima, quasi temprata e forbita come un'arme nuova. Le strade sono già asciutte, stanno per ridiventar polverose. File di soldati, file di muli, file di carriaggi. La mia macchina grigia, snella, vibrante come una piccola torpediniera, fende i battaglioni che si aprono. Movimento insolito da per tutto. Si sente che qualcosa è nell'aria, che qualcosa di grande si prepara. Si fiuta già l'odore del sangue, come il fumo del mosto alla vigilia della vendemmia.

Arrivo sul campo. Cerco sùbito l'altare. È alzato in mezzo ai pioppi ingialliti, fasciato con le coperte di lana bruna in cui s'avvolge il sonno dei combattenti nella trincea. Talune sono così vecchie che mostrano i buchi. Ci si vede il sole a traverso.

I soldati si schierano dall'una e dall'altra banda, col fucile e con la baionetta inastata. Hanno un aspetto di vigore che cova l'impeto. Appartengono alla Brigata siciliana, alla Brigata di bronzo. Taluni sono foschi come i Saracini dell'imperator Federico. Il loro capo grida i comandi con una voce dura. Sembra un veterano eritreo o libico, che abbia lasciato appeso all'arcione lo staffile di cuoio d'ippopotamo.

Il Duca arriva, con quel suo aspetto grave e un po' distante, ma semplice, tranquillo.

Comincia la messa officiata da un prete robusto come uno zappatore, che pronunzia le formule sacre con una bocca accesa sporgente da una barba fulva.

Il capo grida: «In ginocchio!» I soldati s'inginocchiano, poggiandosi al fucile. Come nei duomi la preghiera è sostenuta dalle guglie e dai pinnacoli, qui oggi è infissa nelle punte delle baionette. Una preghiera irta e aguzza. Volti inclinati di giovani imberbi, di uomini maturi, taluni belli come i più belli esemplari dell'Ellade e del Lazio. Bocche sensuali, bocche tristi. Lanugine bruna o rossastra su mascelle risentite, su bazze tutt'osso. In taluni l'intero teschio traspare; e si pensa allo scheletro che attende entro la carne e che ne imita i gesti, ne segue le attitudini, prigioniero. Teste già toccate dalla morte, già segnate dall'Operaia indefessa. Una massa di carne da macello, un carnaio ben preparato.

Il cannone tuona, verso il monte di San Michele. Un velivolo nemico si mostra alla sommità dell'azzurro, tra le nuvolette degli scoppii. Quasi tutti gli occhi si sollevano al cielo lacero. Si vede il bianco ma non è il bianco della paura. Vi balena un sorriso selvaggio.

Il sacrificio della messa s'interrompe affinché il Cappellano parli. Egli sale sopra una bigoncia che domina l'altare fasciato di lana rozza. Con una facondia senza intoppi, egli parla del coraggio. Il coraggio l'ascolta, armato e taciturno.

Il cielo è d'una purità sublime, incurvato su l'Alpe che le prime nevi imbiancano. Un tepore lento si forma dalla preghiera, sopra le baionette nude e verticali. Il fogliame moribondo dei pioppi tremola di continuo, oro nell'oro. Il Carso è laggiù, laberinto di trincee e forteto di reticolati, quale lo conosco dall'alto. È certo che domani s'ingrosserà quel fiume caldo che vi si forma sotto il sasso.

Non odo più le parole dell'oratore che ha già la bocca piena di saliva. Odo il canto della terra, odo la pulsazione assidua dei cuori che pompano il sangue del sacrifizio; odo il silenzio di sotterra e il silenzio che sta di là dall'azzurro.

È una grande ora, la più grande da che abbiamo passato il confine e piantato la bandiera nel suolo redento. So che domani, a mezzogiorno, incomincerà lo sforzo, incomincerà la tremenda sinfonia, assai più vasta che quella dei giorni di luglio.

Volti di soldati in una specie di trasognamento, che sembrano già posati su l'erba funerea. L'anima si curva su di essi. Il cielo s'affoca d'amore. Veggo il mio volto presso quei volti, agguagliato a quella bellezza. Qualcuno si curva, mi riconosce, mi chiude gli occhi. La marea si ritira di sotto alla volta del mio capo. Due sollevano il mio corpo per coricarlo nella barella.

Perché penso a quella pietra che un giorno sollevai nella foresta opaca e lasciai ricadere sbigottito, avendovi di sotto scoperta una vita brulicante e fuggiasca?

Il Barnabita cessa di parlare. Il sacrificio della messa vien ripreso dall'officiante, con un susurro lieve, con un moto di labbra, perché ciascuno oda nel cuore la parola profonda.

«Siate facitori della Parola, e non uditori» è scritto sul pulpito di Grado, nella Basilica dei Patriarchi.

Vedo luccicare i chiodi nelle grosse scarpe del cherico inginocchiato davanti all'altare: i chiodi tra il fango, fra la terra molle, fra qualche fil d'erba e foglia morta.

I soldati sono di nuovo in ginocchio. Le teste sono chine sotto la selva lustra delle baionette. S'ode negli alberi gialli un crocidare di cornacchie sommesso. Il Duca è immobile, pensoso, con quel suo maschio pallore solcato dalla forza d'una malinconia che sembra in lui risalire dalle profondità secolari della sua stirpe di guerrieri e di santi. Egli si volta a guardare un poco in su. Il vino vermiglio brilla nell'ampolla, sopra la tavola dell'altare; e il riflesso batte nella spalla destra di Emanuele Filiberto segnando d'un segno luminoso il rozzo panno soldatesco del cappotto ampio come una tonaca senza cordiglio.

«Tenuisti manum dexteram meam, et in voluntate tua deduxisti me….»

Un giovine capitano, alto, snello, adusto, si china verso di me e mi dice a bassa voce: «Perdoni, tenente». Poi mi mette le dita nel collo e afferra una vespa che stava per pungermi. Ha la vespa viva tra il pollice e l'indice. Me la mostra sorridendo. Sorrido al ricordo della vespa che ronzava sul balcone di mia madre e che mi punse il polso, al momento del commiato. Ferita di poeta! Vulnus hyblæum.

Il crocidare fioco delle cornacchie su gli alberi d'oro accompagna la fine della messa di sangue. «Ite, missa est.» Il sacrificio è compiuto. I soldati si levano in piedi, e hanno un poco di terra molliccia ai ginocchi. Presentano le armi, mentre il Duca si muove, seguito dai suoi ufficiali, per raggiungere il luogo dove aspetterà che tutte le compagnie passino in ordinanza davanti a lui vicario della Gloria.

Il sole monta al meriggio. Le ombre sono brevi. Nella gran luce i corpi umani hanno un che di sparente, un che di labile. Quella massa di carne mortale scorre, su la prateria, non men lieve che la fuga d'una nuvola. Il passo misurato risona, come una pesta sorda; ma sembra che, dal ginocchio in su, gli uomini sieno avviluppati di silenzio, d'un silenzio remoto come quello che s'incurva laggiù su l'Alpe bianca della prima neve.

 

La rapidità mi placa. Odo di tratto in tratto, sopra al rombo del motore, il mortaio tonare sul monte. Vado al colle di Medea per visitare l'osservatorio di dove lo Stato Maggiore della Terza Armata assisterà alla prossima azione. Possiamo salire con l'automobile per la strada nuova, rischiando le gomme contro la ghiaia asprissima. Arriviamo al posto telefonico. I soldati si ricoverano sotto le tettoie per non essere colpiti dai bossoli, che i cannoni della nostra difesa aerea continuano a tirare contro un ostinato uccellaccio austriaco. Do all'ufficiale di guardia alcune istruzioni per la copritura dei vetri che luccicano e rivelano il posto all'osservatore nemico. Entriamo in una specie di ridotto, tutto corridoi bui come quelli delle Catacombe. Passiamo per una stanza fasciata di legno che un pittore ambizioso orna di festoni, di ghirlande, di cartigli, come per un convito augurale. Tutti questi operai sono pieni di devozione, di ardore, di fremito. Costruiscono e ornano il Belvedere della Vittoria?

Che spettacolo, dalla vetta del colle! La pianura dolce come un invito, i borghi d'un grigio di tortora, le città biancicanti, Gorizia condannata, i monti e i poggi già irrigui di sangue italiano e ricchi di ossame quanto di sasso. Tutto è oro d'autunno, azzurro di lontananza. Intorno al velivolo è una corona di nuvolette bianche, quasi serafiche. Il sole s'è fatto caldo come in maggio. I fianchi di Medea sono vestiti di acacie, di pioppetti, di cespugli. Ho voglia di stendermi su la proda e di dormire.

Se mi stendessi, non dormirei. L'irrequietudine mi caccia. Rientro nel mio rifugio su l'Ausa, nelle mie due stanze basse che la manìa di un cacciatore o di un ornitologo paesano riempì di uccelli impagliati. L'occhio sfugge i palmipedi per confortarsi nelle imagini della Nike di Samotracia, della Vittoria di Brescia. Che farò per attendere il domani? Ecco un messaggio. I marinai delle batterie navali collocate nell'Isola Morosina confidano che domani a mezzogiorno sarà con loro il Lanciere di mare. Rivedo il sabbione biondiccio, le passerelle su la mota, le torri di legno nascoste nella fronda delle querci, la Sdobba azzurra, un lembo del Bosco Cappuccio, Ronchi, Doberdò, la selva di Monfalcone, la Rocca, e Duino sul precipizio di rocce, e lo smottamento rosso di Sistiana, e laggiù Barcola, e laggiù Trieste, tutta l'Istria cilestrina. Le voci dei marinai e delle cornacchie tra gli alberi. A volte un gabbiano brilla nell'aria come un velivolo. Due cavalleggeri guardano i fili del telefono, coi loro piccoli cavalli villosi tra la frasca. Nell'osservatorio nascosto dentro la quercia, il comandante calcola sopra un quaderno, tra il goniometro e il canocchiale. Il sole brilla su i treppiedi di legno levigato. Il megafono, la grande bùccina di metallo, sporcata di verde, sta appeso al ramo. S'aspetta il primo colpo. «Pezzo uno, attenti! Castagnola, fuoco!»

Le visioni, le apparizioni e i sogni mi rapiscono lo spirito a ogni attimo se mi soffermo, se mi seggo, se mi riposo.

Già i cavalli sellati sbuffano davanti alla porta. Monto Doberdò, che sembra allegro. Vado su la strada di Palmanova, in cerca d'un prato per galoppare. Ne trovo uno troppo piccolo, dove s'affonda. Scopro, verso Muscoli, un fiumicello colmo che corre tra file di salici annegati fino a mezzo il fusto, dorati come la chioma di Ofelia. A un certo punto, non incontro più né carriaggi né ambulanze né truppe. Una pace improvvisa, in una ripa solitaria.

L'acqua verde, la viottola umida, i salci d'oro, i pioppi d'un oro anche più splendido; le erbe lunghe, le vermene oscillanti, un uccello misterioso che fugge per l'ombra, senza grido; il sentiero che si restringe sopra l'argine, finché diventa impraticabile; una fila di alti pioppi dorati, laggiù, dove non posso andare; e l'acqua che fluisce come un sorriso sinuoso.

Soavità di questo paese riacquistato! L'autunno vi biondeggia come un ritratto del Palma vecchio. Qualcosa di femineo e di docile, da mettervi la mano per entro. Dov'è la guerra? Dov'è tutta quella carne da lacerare e da pestare, che stamani era accomandata dal prete al Dio degli Eserciti?

Mi arresto là dove è impossibile passare col cavallo, tanto è folto l'intrico delle acacie. Torno indietro per le viottole erbose e fangose. La pesta sorda di Vaivai, che mi segue, sembra attirare indietro la mia malinconia, in un modo musicale che non so esprimere. Doberdò sbuffa, e a quando a quando tuba, roco come una tortora.

Vado a cercare un prato che conosco, di là dall'Ausa. Galoppo finalmente sul terreno soffice, sopra le ombre lunghissime dei fusti, come sopra uno smisurato rastrello.

Il prato è segreto, tutto chiuso fra cortine di pioppi, silenzioso, dolce come chi ama arrendersi. Gli alberi ardono per le cime, come i ceri, pioppi e salici dai lunghi rami verticali: leggeri, aerei. Le ombre s'allungano finché toccano l'altra estremità. Il cielo impallidisce. La mia malinconia si fa più musicale ancóra, misurata dal galoppo ritmico del cavallo. Ripenso, o meglio risento certi vespri fiorentini sul Campo di Marte, in vista di Fiesole gloriosa, tra una chiarità di muri graffiti….

Il passato non val più nulla. né vale il presente. Il presente non è se non un lievito.

Ho non so che volontà di morire. Ascolto la melodia del mondo, che significa: «È tempo di morire, tempus moriendi».

Esco dal prato come da me stesso, col cavallo in sudore. Ritorno su la strada brutale, fra lo strepito atroce dei carri. Fumo, polvere, puzzo, ingombro, grida. E il cielo così arduo e tanto immacolato

Nella scuderia, l'odore della canfora, l'odore della miscela inglese. Uno strano intorpidimento m'invade, nella posta, tra muro e tramezzo, su la paglia fresca, mentre il palafreniere fa la fregagione alla spalla di Vaivai. Nessuna volontà di tornare a casa, di seguitare a vivere. Imagine d'una trincea profonda, sul Monte San Michele, nel Bosco Cappuccio, dove si muore, dove la morte percote e schiaccia di sùbito, dove il corpo diventa inerte come la mota, come il sasso, all'improvviso. Torno a casa. Tutte le noie della vita comune, di quell'altra vita, sono là, su la mia tavola. Se devo finire domani, val la pena di occuparsene? Donatella è là, nella cornice di smalto, con i due levrieri favoriti, con Agitator e con Great Man, col fulvo e col nero. Mi riappare la prateria di Dama Rosa, il muro pallido, il granaio basso, il gioco dei cani nell'erba non falciata. Ore lontane, ore di solitudine, di ebrezza, di afflizione. E la tomba della mia povera Dorset Red, laggiù, nell'angolo, rilevata di zolle, simile ai tumuli dei soldati, che vidi ieri sotto i cipressi di Aquileia, all'ombra del campanile venerando. E l'immensa guerra che riempie i continenti e le isole, la gigantesca forza nemica, la pulsazione tremenda della razza barbarica.

Dio, Dio, solleva domani di mille cubiti la statura nostra! Dacci il sentimento della potenza, del diritto divino, dell'imperio ereditato.

«Gettiamo il fegato di là dal Carso e andiamo a riprenderlo. Questo bisogna.» Così diceva iersera un soldataccio che odorava di trincea muffita.

Perché nessun canto mi esce dal cuore? Perché, quando per forza mi dispongo a comporre il canto aspettato, sono preso da una specie di ripugnanza che par vergogna?

Lo so, lo so, mia gente. Voglio sparire prima che la fede m'abbandoni.

 

Ero intento alle solite cure atletiche dei muscoli, quando il migliore dei miei compagni di terra ha picchiato ai vetri della finestra bassa: il capitano dal bel capo di negro impallidito, il mio pilota di tempesta, quello del più arduo volo.

Forse viene a offrirmi la fine eroica. «Al quale io dissi: Benvenuto è il tuo nome. Rispose: Benvenuto sarò io questa volta per te.»

Mistero della sera, dell'arrivo inatteso, della voce che suona su la soglia, tra l'aria di fuori e l'ottusità di dentro. Ogni uomo è un messaggero. Bisogna aprirgli il pugno.

Il benvenuto ritorna, quando sono pronto. Al primo vederlo, gli trovo la qualità dei sogni. Mi porta il vento alpino che passa pel valico, là nell'Altipiano dei Sette Comuni; mi reca l'odore della prateria soleggiata dove pascolano le vacche presso la loro ombra lunga, dove i fiori violetti del colchico si piegano verso la loro ombra lieve. Tutti i nastri delle vie legano la terra verde. Delle abetine non vedo se non le cime fitte come schiere e schiere e schiere di lance. Dell'alpe non vedo se non i denti che stracciano le nuvole, le groppe che s'accavallano, le ombre disposte come le nervature nelle foglie palmate…

Il benvenuto mi parla, e non lo comprendo. Mi occupa l'orecchio il tono del motore. Sto sul mio seggiolino di prua. Porto il barografo legato a zaino su la schiena. Mi serro la mia cintura di sicurezza. Non ho davanti a me se non il bordo di zinco verniciato di bianco, simile a quello d'un leggerissimo palischermo. Non ho davanti a me se non l'agile mitragliatrice collocata sul treppiede d'acciaio. La fisso con la canna in alto. Sento sotto i miei piedi la fragilità dell'assicella di noce. L'aria mi penetra. Sono d'aria e d'anima. Vivo una vita perfetta.

Il benvenuto mi parla, e io non l'odo. Passiamo su Gorizia, sotto una cupola di scoppii bicolori. Ora andiamo incontro alla sera, alla nostra sera. Il pilota abbandona le leve e allarga le braccia, come verso una donna bella, con una subitanea fantasia giovenile. Nel verdognolo e nel bruniccio i nastri delle vie legano la terra. I denti dell'alpe masticano l'oro del tramonto, lo ruminano, lo sfilaccicano. Siamo sopra la pianura. Udine biancica nel violaceo. Il sole scompare nelle liste delle nuvole, quasi spade che lo decapitino. Ora siamo a duemila e ottocento metri di quota. Si scende con un volo librato arditissimo. La prua dà di becco nell'ombra. Tutto il mondo gira intorno al mio sogno. La pianura si solleva e diventa cielo; il sole mi passa sul capo come se tornasse al meriggio; l'alpe danza una giga frenetica; le città e i borghi sono lanciati nello spazio come sassi da una frombola titanica. Il sole, fasciato dalle liste d'oro, turbina. Un discobolo divino lo scaglia verso il fato di domani…

Il benvenuto m'indovina assente e mi riconduce a lui toccandomi il gomito, come quando dal suo posto nella carlinga, tra le nuvolette bianche e rosse dei tiri austriaci, mi chiedeva il taccuino per scrivervi tranquillo: «Cattiva carburazione. I radiatori sono freddi. Spero di raggiungere le nostre linee». Lo guardo, lo guardo bene.

Ha i capelli rasi fino alla cotenna, come gli atleti greci, come i lottatori del ginnasio. Vorrei nominarlo col nome d'uno dei tre Magi, del più giovine, di quello dalla pelle buia, dalle labbra grosse, dagli occhi sporgenti, di quello che portava la mirra.

Piemontese d'oggi, pacato, volontario, tenace, ma non senza pieghevolezza e amore del gioco, preciso e ardito, deliberato a vincere e a godere. Ha ventisette anni: è nel culmine della giovinezza, quando la prima fame è sazia e cominciano gli indugi sul sapore.

È stato a Verona, per tre ore, divorato dal desiderio e dall'ansia, per vedere una sua amica che passava da quella stazione con un treno della Croce Rossa. Servito da un'astuzia e da un'audacia fredde, dissimulando la sua avidità quasi ferina - dopo la lunga astinenza del campo d'aviazione - ha potuto riescire a ritrovarsi con lei: per alcuni attimi? per un'eternità? La visione di tutta quella carne dolorosa, composta negli scompartimenti squallidi, ha traversato il suo delirio. E, per perdonare a sé l'empietà, egli ha promesso al suo rimorso l'espiazione: ha giurato di offerirsi al più gran pericolo, ora e sempre, per tutta la guerra…

Mi racconta questo su la soglia, mentre si vede luccicare l'Ausa sotto la luna nuova, e s'ode sul ponte lo scalpitío dei cavalli.

Per avere ventisette anni darei il libro di Alcione.

Ho la mia fotografia di ieri, implacabile, che mi mostra quel che sono, quel che è il mio viso. Eppure, oggi, a cavallo, avevo non so che senso giovenile del mio corpo. Dianzi, sotto le spazzole dure e sotto i guanti di crino avevo non so che senso giovenile dei miei muscoli, dei miei tendini, delle mie arterie.

Ma là, nella fotografia di ieri, nella «istantanea» spietata, sono già vecchio. Lo vedo: c'è là qualcosa di senile, che pure mi sembra estraneo, che pure non sento in me. Quando cammino, quando galoppo, quando volo, quando l'aria mi percote, quando il vento mi fischia negli orecchi, ho del mio viso un sentimento che non è reale. Credo di avere il viso fermo e liscio della mia volontà. E questo è un viso grinzoso di vecchietto «richiamato»!

Pure, dianzi, davanti alla porta della scuderia, sono saltato giù dalla sella con una leggerezza di volteggiatore; e mi sono ritrovato in piedi, con un equilibrio netto, su le gambe elastiche.

V'è una giovinezza di movimento, che può essere conservata a lungo dalla disciplina. Ma l'età e la passione, accoppiate sotto un giogo, continuano ad arare la faccia.

Il filo di scarlatto che misi intorno al collo d'un mio eroe per segno della minacciata mannaia, non era se non una figura della mia inquietudine. Talvolta penso che mi piacerebbe di reggere il mio proprio teschio in mano, come certi militi della Leggenda aurea, e di concedere al resto del corpo le sue illusioni muscolari.

Il benvenuto mi offre il buon rischio, con una certa galanteria, come si offre un trifoglio di quattro foglie. Domani, a mezzogiorno, incomincerà la sinfonia sanguinosa. Martedì mattina andremo, col nostro leggero «Farman», a riconoscere le linee nemiche e a proteggere con la nostra mitragliatrice i «Caudron» che faranno il servizio per le artiglierie.

Il tono vitale sembra aumentato anche nelle cose intorno. Il capo raso del benvenuto ha per fondo le imagini equestri del Gattamelata e del Colleoni. La Leda del Museo marciano è ghermita dal gran cigno dell'Eurota, non con piede palmato ma con artiglio d'aquila che travaglia la lunga coscia voluttuosa.

«Perché Leda tra i Condottieri e le Vittorie?» mi domanda il ghermitore di Verona, ne' cui occhi forti ondeggia un'altra imagine.

«Perché è la madre dei Dioscuri, che stanotte verranno di nuovo a lavare i loro cavalli bianchi nel Timavo.»

Egli sorride. Ha i denti di smalto intatto. Sveglio in lui l'istinto della poesia. Certe volte, a grande altezza, quando tutto era divino intorno a noi, sopra di noi, e le nostre ali parevano ferme, rigate dalle ombre esili dei tiranti, egli mi chiedeva il taccuino e abbandonava le leve per scrivermi un suo pensiero lirico.

Siamo ora seduti tutt'e due sul banco. Si parla di apparecchi, di camerati, di capi, di fortuna, di sfortuna. Si guarda su la carta la distanza tra Campofòrmido e Vienna: il nostro sogno. Ier l'altro, il colonnello Barbieri, a Pordenone, dimostrava l'impossibilità di compiere l'impresa con un «Caproni» da trecento cavalli. Si discute, si persiste, si vuole, si spera. Si sogna e si disegna un velivolo di forza triplice, robusto e rapido, armato a prua e a poppa: una squadriglia formidabile, capace di gettare su Schœnbrunn diecimila chilogrammi di tritolo.

Siamo tutt'e due sul banco, l'uno accanto all'altro. Ci sembra che i nostri destini si leghino, si annodino. Egli è giovane, io non sono più giovane. E tutt'e due martedì, prima di mezzogiorno, potremmo esser morti, essere un pugno di carniccio carbonizzato, qualche osso annerito, qualche cartilagine rattratta, un teschio spiaccicato con qualche dente d'oro luccicante nella poltiglia. O forse abbatteremo un velivolo nemico, il primo, e discenderemo nella gloria!

Quando glie lo dico, i suoi occhi luccicano tra le palpebre rilevate come quelle dei bronzi arcaici.

Si alza per andarsene. Ha i guanti troppo stretti. È ancor lontano dalla vera eleganza. Ma i denti bianchissimi gli brillano, come lassù, nel nembo montano, su la tempesta impietrita dell'alpe, quando mi voltavo verso di lui dal mio seggiolino di prua per fargli un cenno risoluto.

Su la soglia, nella sera limpida, mentre la luna nuova brilla tra la fronda della ripa, mentre un ragazzo fischia sul tiemo d'un burchio ormeggiato, mentre là su la strada di Palma un cavallo nitrisce, mentre laggiù il Trecentocinque dell'Isola Morosina romba e rimbomba, egli riprende a parlare della sua amica bella e della furente ora veronese. Un Maggiore medico, dal treno della Croce Rossa, vedendolo passare, mentre l'infermiera fingeva di non conoscerlo e dissimulava l'ansietà, il Maggiore medico aveva detto: «Guardi che capitano giovine! Sembra un ragazzo».

Il capitano soggiunge, con modestia incantevole: «M'ero fatta la barba».

Se ne va. Va a desinare, poi riparte per Campofòrmido. Lo accompagno fuori. Lo seguo con lo sguardo fino di là dal ponte. Non ho voglia di andare alla mensa, non ho voglia di ritrovarmi in quella sala fumosa, piena di chiacchiere; non ho voglia di riudire tra quel baccano l'ufficiale dell'Intendenza parlarmi del «cavallo di carica» e del «prelevamento» di una uniforme pel mio caporale.

Lo spiazzo è deserto di carriaggi, perché domattina lo debbono spianare e inghiaiare. L'Ausa è liscia come uno specchio, senza il più lieve increspamento, senza la più tenue ruga. È giovine.

Varco il ponte, alla ventura. Le vie sono ancora piene di soldati, gonfie di sangue cupo. I carri passano ronfiando, con un solo occhio azzurro. Passa una fila di cavalleggeri, portando i cavalli a mano. Passa un'automobile del Comando, a tutta velocità, con il solo fanale di sinistra acceso. L'Ausa non si muove; sembra stagnante come il Lete: chi lo varca è un morto. La luna è insensibile, come al tempo dell'insonnio di Saffo.

Torno indietro. Cammino per la strada di Palmanova. Giungo davanti alla catena tesa dalle guardie, alla barra notturna. Passo oltre, scavalcandola. L'occhio blu di un carro mi viene incontro. Come si avvicina, il chiarore mi abbaglia, perché il soldato che lo conduce ha grattato la vernice azzurra e ha scoperto nel centro un disco di luce bianca, per veder meglio la via. Mi scanso, e urto contro qualcuno che borbotta e puzza.

È un prigioniero straccione, che un lanciere a cavallo caccia innanzi, su per il margine.

Vedo, laggiù, lungo la fronte, splendere le bombe illuminanti. Arrivo all'Ospedaletto e torno indietro. Un medico fuma un sigaro davanti alla porta, tranquillo.

Rientro. Non ho pace. Soffoco. C'è nelle stanze requisite un odore di stoffa nuova: l'odore dei paraventi portati dal tappezziere di Udine, che mi servono a nascondere gli orrori dello stile goriziano. Paraventi? Come vorrei stanotte appoggiare la mia vita contro un parapetto di trincea!

Il letto requisito mi sembra ridicolo, col suo doppio guanciale, con la sua rimboccatura ben fatta, col suo piumino trapunto, con la sua carafa d'acqua sul marmo del comodino.

Non ho sonno, ma credo che ho un po' di fame, perché sento che la testa mi si vuota. A quest'ora il digiuno è inevitabile. Non è la vigilia? la grande vigilia?

Odo uno scalpiccío di truppe sul ponte. Il cuore mi balza. Esco, accorro.

È una brigata di rinforzo, fanteria scelta. Le file marciano nel chiarore della luna declinante, valicano L'Ausa, traversano la città addormentata e spenta. Passo vivace. Allegria schietta. Scoppio di lazzi, di risa, di canti. E vanno a morire.

Stamani, sul campo di Versa, nella luce meridiana, sotto il cielo candido, il torrente di carne mortale mi pareva perdere la sua consistenza e divenir quasi moltitudine di larve in punto di dileguare per la prateria come ombra di nuvola. Ma quest'altra gente nella notte, non so perché, mi pesa come se io la portassi, come se io medesimo la trasportassi alla morte. Non sono larve, non sono labili imagini. La luce non li divora, non li consuma. Sono uomini, ossature, muscoli, fiati. Homines, durum genus. Hanno quel terribile odore che sale dal numero quando esso è numerato dal destino per la sua bisogna. Mi sono prossimi. Un gomito mi urta; il calcio d'un fucile mi batte contro l'anca; un alito forte mi soffia alla gota. Mi confondo con loro. Rientro nella mia sostanza. Mi sembra che la mia anima sfavilli, e che le faville si apprendano alle loro ossa. Essi parlano, gridano, cantano; e io sono silenzioso. Ho cantato per loro, essi cantano per me. Nessuno mi riconosce nella notte. Mi riconosceranno all'alba. Gridano: «Viva la guerra!» gridano: «Viva l'Italia!» Io grido in loro.

Passa un capitano sopra un cavallo enorme come gli stalloni dei condottieri, sopra il cavallo di Bartolomeo Colleoni, tanto alto che par rialzato da un piedestallo, con una potentissima groppa, con un vasto petto di toro, con un massiccio collo crinito. Di dov'è mai disceso questo destriero monumentale? dov'è mai andato a cercarlo la Requisizione dei quadrupedi? Sembra una bestia di leggenda, riapparita per portare a una nuova meta un nuovo destino. Odo sonare su la strada i suoi quattro zoccoli ferrati, distintamente tra lo scalpiccío e il clamore. Scorgo i lunghi fiocchi selvaggi ai suoi pasturali, la sua coda cresputa e ondosa come se in cammino le si fossero disfatte le trecce e le ligature di pompa. Non è questo il cavallo che domani a notte sarà abbeverato nel Timavo dalle sette fonti? Non è candido come quel di Càstore, è nero come l'inferno del Carso.

Anche l'ufficiale che lo monta è membruto, avvolto nell'ampio mantello, col cappuccio su gli occhi, taciturno. È un destino commesso a un'ossatura più che umana. Appare intagliato nel chiarore freddo, grandiosamente.

Lo seguo trasognando. La poesia mi travaglia il petto, come una branca nascosta; e il mio istinto di cavaliere mi tormenta i muscoli delle gambe. In altri tempi avrei sognato di abbattere quel destino coperto, e di porre il mio in sella usurpando il potere. Cammino a fianco dei soldati, con non so che meravigliosa umiliazione di cui si colma il mio cuore come d'una felicità inattesa.

Siamo all'ombra delle case, nella via arborata. In un crocicchio, la luna bassa apparisce in fondo alla strada di destra e rischiara la fila. Un sottotenente imberbe mi riconosce al mio collaretto bianco del reggimento di Novara e alle due alette d'oro che luccicano su la mia manica. Arresto le sue dimostrazioni. Scambiamo qualche parola a bassa voce.

«Viene con noi?»

«Vengo con voi.»

«Fino alla trincea?»

«Fino alla trincea.»

Egli trema e ha due belli occhi puri, raggianti d'amore e di fervore. Tace, al mio segno. Rientriamo nell'ombra. Camminiamo in silenzio, col passo dei soldati. Ora siamo fuori del sobborgo, su la grande via bianca. Il cavallo gigantesco si disegna sul cielo stellato. Se si impennasse, parrebbe in punto di sollevarsi per tornare alla costellazione nomata del suo nome, tanto la sua forma è favolosa. I soldati intonano un canto che dall'avanguardia si propaga laggiù sino agli spedati. Misuriamo il passo su la cadenza, e ci sembra d'essere per sempre immuni dalla stanchezza.

Vicino a me un soldato non canta ma di tratto in tratto, rapito nell'impeto delle riprese, manda qualche nota monca, come se masticasse. Lo guardo. Ha il boccone in bocca. Mangia il suo viatico. Sembra pan fresco, all'odore. Sùbito la mia fame si sveglia.

Senza peritarmi, gli domando un pezzo del suo pane. Egli si volge confuso.

«L'aije muccicate, 'gnore tenende» dice con un rammarico gentile, mostrandomi il segno dei denti nella crosta bruna.

Con una commozione profonda, come se udissi la voce medesima di mio fratello partitosi giovine dalla casa paterna e non più ritornato, riconosco l'accento del mio paese, l'idioma della terra d'Abruzzi.

Lo guardo. Non può avere più di vent'anni. Anch'egli ha i denti bianchissimi, nel suo sorriso d'innocenza, e gli occhi stralucenti come quelli degli spiritati che vidi roteare intorno al santuario di Casalbordino, dietro gli altissimi stendardi rapiti dal turbine del miracolo. «Evviva Maria!»

Gli levo il pane di mano, lo spezzo in due, e gli rendo la metà. Rimane attonito, con gli occhi bassi. Alla luce delle stelle scorgo le sue lunghe ciglia ricurve. Rattengo le parole del suo linguaggio, del nostro caro linguaggio, che mi salgono alle labbra. Mordo crosta e mollica, franco.

Ed è il miglior pane che io abbia mai mangiato, in verità, da che ho denti d'uomo.]

 

Tale la cenere inquieta d'uno dei miei giorni vissuti con quel «pensiero dominante» che è il tema melodico del racconto musicale composto da me fuoruscito all'ombra dei pini landesi intorno al tempo del solstizio, or è tre anni. Il quale io vi mando costassù nella contrada di Silvia l'Italiana, o Chiaroviso, come il dono dell'alleato e il ricordo dell'ospite, accompagnandolo con questa Licenza che poteva esser breve come il congedo d'una ballatetta e m'è ora divenuta sotto la mano un libro folto, per il gran piacere del divagare proprio al convalescente.

Sorrido pensando a quegli invogli di fronde compresse e risecche, venuti di Calabria, che un giorno vi stupirono e incantarono, quando ve li offersi sopra una tovaglia distesa su l'erba di Dama Rosa, non ancor falciata, ove da per tutto tremolavano i fiori scempii e le avene fatue fuorché nei solchi segnati dal giuoco dei levrieri. Gli invogli erano di forma quadrilunga come volumetti suggellati d'un solitario che avesse confuso felicemente la biblioteca e l'orto. Ci voleva l'unghia per rompere la prima buccia. La membrana andava in frantumi ma le nervature resistevano come quelle del dosso d'un libro legato in cartapecora. La seconda foglia era più tenace e la terza ancor più, e la quarta più ancora. Il viluppo si faceva più stretto assottigliandosi. Le dita non arrivavano mai in fondo; e l'attesa irritava la curiosità; e l'indugio faceva credere al gusto che là dentro si celasse la più saporita cosa del mondo. E m'ho tuttavia nella memoria quella grazia del viso chino, ove la bocca si socchiude e chiude per l'acqua che le viene.

Ecco l'ultima foglia in cui è avvolto il segreto, profumata come il bergamotto. L'unghia la rompe; le dita s'aprono e si tingono di sugo giallo, si ungono di non so che unguento solare. Pochi acini di uva appassita e incotta, color tané oscuro, di quel colore che «pare ottenga nell'occhio il primo grado», pochi acini umidi e quasi direi oliati di quell'olio indicibile ove nuota alcun occhio castagno ch'io mi so, pochi acini del grappolo della vite del sole appariscono premuti l'un contro l'altro, con un che di luminoso nel bruno, con un che di ardente senza fiamma, con un sapore che ci delizia prima di essere assaporato.

Così, o Chiaroviso, il racconto della Leda senza cigno è ravvolto in questi molti fogli che conviene svolgere o frangere. Non dico che in fondo il sapore sia tanto squisito, ma certo è insolito.

Quando la dura sentenza del medico m'inchiodò nel buio, m'assegnò nel buio lo stretto spazio che il mio corpo occuperà nel sepolcro; quando il vento dell'azione si freddò sul mio volto quasi cancellandolo e i fantasmi della battaglia furono d'un tratto esclusi dalla soglia nera; quando il silenzio fu fatto in me e intorno a me; quando ebbi abbandonato la mia carne e ritrovato il mio spirito, dalla prima ansia confusa risorse il bisogno di esprimere, di significare. E quasi sùbito mi misi a cercare un modo ingegnoso di eludere il rigore della cura e d'ingannare il medico severo senza trasgredire ai suoi comandamenti.

M'era vietato il discorrere e in ispecie il discorrere scolpito; né m'era possibile vincere l'antica ripugnanza alla dettatura e il pudore segreto dell'arte che non vuole intermediarii né testimoni fra la materia e colui che la tratta.

L'esperienza mi dissuadeva dal tentare a occhi chiusi la pagina. La difficoltà non è nella prima riga ma nella seconda e nelle seguenti.

Allora mi venne nella memoria la maniera delle Sibille che scrivevano la sentenza breve su le foglie disperse al vento del fato. Sorrisi d'un sorriso che nessuno vide nell'ombra, quando udii il suono della carta che la Sirenetta tagliava in liste per me, stesa sul tappeto, al lume d'una lampada bassa.

Quando ella si accostò al mio capezzale col suo passo cauto e mi portò il primo fascio di liste eguali, tolsi pianamente le mie mani che da tempo riposavano lungo le mie anche. Sentii ch'eran divenute più sensibili, con nelle ultime falangi qualcosa d'indistinto che somigliava a un chiarore affluito. Stavo per imparare un'arte nuova.

Prima, la mano soppesava la materia e l'occhio la considerava. La materia aveva colore, rilievo, timbro. La penna era come il pennello, come lo scalpello, come l'arco del sonatore. Temperarla era un piacere glorioso. Lo spirito umile e superbo tremava nel misurar la risma compatta e intatta da trasmutare in libro vivente. La qualità dell'olio per la lampada era eletta come per un'offerta a un dio inconciliabile. Nelle ore di creazione felice la sedia dura diveniva un inginocchiatoio scricchiolante sotto le ginocchia che sopportavano la violenza del corpo inarcato.

Nel buio, un sentimento vergine rinnovava in me il mistero della scrittura, del segno scritto. Il mio corpo era come in una cassa, disteso e serrato. Mi pareva di essere uno scriba egizio, in fondo a un ipogeo. Occupavo la mia cassa di legno dipinto, stretta e adatta al mio corpo come una guaina. Pensavo sorridendo: «Agli altri morti i familiari hanno portato frutti e focacce. A me scriba la pietosa reca gli strumenti dell'officio mio. Se mi levassi, il mio capo non urterebbe il coperchio dov'è dipinta all'esterno la mia imagine di prima coi grandi e limpidi occhi aperti verso la bellezza e l'orrore della vita?»

Il mio capo restava immobile, chiuso nelle sue bende. Dalle anche alla nuca una volontà d'inerzia mi rendeva fisso come se veramente l'imbalsamatore avesse compiuta su me la sua opera.

Sùbito le mie mani trovarono i gesti, con quell'istinto infallibile che è nelle membrane delle nottole quando sfiorano le asperità delle caverne tenebrose. Prendevo una lista, la palpavo, la misuravo. Era simile a un cartiglio non arrotolato, simile a uno di quei cartigli sacri che i pittori mettevano nelle loro tavole. V'era un che di religioso nelle mie mani che lo tenevano. L'udivo crepitare tra le mie dita che tremavano. Sembrava che la mia ansia soffiasse sul tizzo ardente che m'avevo in fondo all'occhio. Vampe e faville s'involavano nel turbine dell'anima. Sentivo su le mie ginocchia la mano della pietosa.

Le sollevavo leggermente per ricevere la tavoletta. Era, per me oscurato, come una tavoletta votiva. Fra il pollice l'indice e il medio prendevo il cannello. Il medio aveva tuttavia il solco del lavoro ostinato. Nulla dies sine linea. E tremavo davanti a quella prima linea che stavo per tracciare nelle tenebre senza scorgere le parole.

Cerco nelle rubriche del Notturno, e trovo questo:

 

[Non scrivo su la sabbia, scrivo su l'acqua. Ogni parola tracciata si dilegua, come nella rapidità d'una corrente scura. A traverso la punta dell'indice e del medio mi sembra di vedere la forma della sillaba che incido. È un attimo accompagnato da un luccicore come di fosforescenza. La sillaba si spegne, si cancella, si perde nella fluida notte.

 

Il pensiero sembra correre sopra un ponte che dietro di lui precipiti. L'arco poggiato alla riva è distrutto, sùbito crolla l'arco mediano. L'ansia raggiunge la riva opposta con uno sgomento di scampo, mentre il terzo arco cede e sparisce.

 

Scrivo come chi caluma l'àncora, e la gomena scorre sempre più rapida, e il mare sembra senza fondo, e la marra non giunge mai a mordere né la gomena a tesarsi.]

 

Un giorno mi venne il desiderio improvviso di riconoscere l'accento di quell'altra mia arte; e mi ricordai di un'opera da me scritta nel mio rifugio della Landa, tra la fine della primavera e il principio dell'estate, scritta con una penna e un'attenzione più aguzze che mai.

La voce di Desiderio Moriar mi risonò nel buio. «La notte non è onnipresente e perpetua? Se chiudo il pugno sotto il pieno meriggio, ecco, faccio la notte nel cavo della mia mano.»

Il volto di Desiderio Moriar mi riapparì nel buio. «Egli fece la notte in sé, coprendosi la vista con le palme; e restò silenzioso.»

Allora pregai qualcuno, che stava al mio capezzale, di rileggermi quelle pagine obliate.

V'era, qua e là, alcun tratto d'arte notturna. V'erano parole d'uno strano potere, che sembravano tracciate a occhi chiusi. Tra riga e riga, gli aspetti della vita assumevano il carattere delle apparizioni. «La nostra vita è un'opera magica, che sfugge al riflesso della ragione e tanto è più ricca quanto più se ne allontana, attuata per occulto e spesso contro l'ordine delle leggi apparenti.» La vocazione della morte v'era espressa con modi musicali d'una novità che mi rapiva. Avevo dato al «pensiero dominante» uno stupendo viso di donna, «quell'antica e novella faccia dai larghi piani fortemente connessi come in una testa di Re pastore intagliata nel basalte».

Certe cadenze mi facevano d'improvviso balzare il cuore veloce e suscitavano dal fondo del mio occhio ferito grandi bagliori, come d'un incendio che ricominciasse.

Ed ero immobile sempre. Gli orizzonti si avanzavano come quattro barre, si chiudevano come uno steccato. La città vi rimaneva dentro, senza vista, senza respiro, esanime. La casa, piena di sollecitudini, di voci sommesse, di cure, di rumori segreti, di piccoli iddii nascosti, s'acquetava, si dileguava quasi, diveniva inesistente. Sole le quattro pareti della mia stanza esistevano; e intorno era il vuoto senza fine. Poi sole esistevano le quattro colonne del mio letto, che credevo di sentire nel buio come quattro aste d'una tenda quadrata nel deserto. Poi sole esistevano le mie ossa, solo esisteva il mio scheletro fasciato di carne.

E nello scheletro era come una coagulazione subitanea della vita. La vita s'aggrumava, s'accagliava come il sangue che non scorre più. Era un orribile peso.

E ascoltavo la voce del lettore: «Tutto il mio essere aderì all'incognito che è il fondo della vita, per l'ombra accolta nel corpo, pel buio che occupa i nascondigli della carne, per l'oscurità delle viscere e dei precordii. Sentivo stillare verso me il dolore e la morte come le gocciole che gemono dalla parete d'una caverna tenebrosa. Una disperata poesia divenne la mia propria sostanza….»

È dunque un dono funebre questo che io vi mando, o Chiaroviso?

È l'ultima opera d'arte pura ch'io abbia composta nella solitudine dell'estremo Occidente. A considerarne la materia e il lavoro, par chiusa come una di quelle belle pigne penzolanti dal più alto ramo del pino piagato; la quale io m'imagino non possa esser colta se non per infiggerla alla punta del tirso «che rende furibondo chi lo porta».

Dimentico dunque di averla già assomigliata a qualcosa di più dolce che i semi durissimi custoditi dalla scaglia verdebruna? Ma forse entrambe le similitudini le convengono; ché nulla è inconciliabile dinanzi alla sovranità del ritmo.

Mi misi a comporla attentissimamente, per farmi il polso allo stile di un'opera più vasta intitolata La primavera. Anche una volta, mi aiutava a scoprire gli aspetti dell'ignoto la mia più profonda sensualità. Questo racconto misterioso, anzi quasi direi mistico, è ricco d'elementi naturali come nessun altro. Il mistero v'è adombrato per una successione d'imagini dense, corporee, d'un rilievo palpabile, immuni da ogni indeterminatezza, espresse in una lingua che la lontananza sembra aver fatta più potente come il vino navigato.

Per solito io sono sagacissimo nel distinguere quel poco che di me può piacermi. Questo mi piace. V'è il meglio dei miei difetti e delle mie virtù, con qualcosa d'indefinibile che annunzia una terza giovinezza del mio spirito.

I miei prossimi sanno come l'unica lode che mi valga sia quella di me a me, infrequente. Sorrido prendendo in mano questa cosa d'arte, soppesandola e stimandola da ottimo conoscitore, quasi non fosse mia, con un occhio che si esercita per due, mentre la necessità dell'azione m'incalza e il desiderio della bellezza sembra irrevocabilmente sottomettersi a quel «ritmo di perfezione sublime non consentito agli uomini se non nella sola ora che segue il transito.»

 

È dunque un dono funebre questo che io vi mando, o Chiaroviso, là dove i cigni solcano tuttavia in pace lo stagno di Silvia la Romana?

In fondo, non è se non una storia di canile, poco dissimile a quelle che ci raccontavamo certe sere seduti su i banchi dei favoriti frantumando il biscotto quadrato, mentre i garzoni continuavano a spandere la paglia fresca nelle cucce attigue donde saliva a quando a quando un lagno di gelosia.

Temo che Marcello dalla sua tenace avversione contro i barzoi sia impedito di gustarla, specie dopo la cattiva prova fatta sul nostro campo di corse da quei discendenti della razza tartara che nell'originaria steppa asiatica difendeva la tenda contro le belve notturne e non temeva di battersi col leopardo, addolcita poi nella migrazione verso l'istmo caucaseo, verso la Tauride e il Volga, forse accresciuta di grazia e di snellezza da qualche mescolanza col biondo veltro di Persia che si vede figurato in quelle miniature di cacce ove i re sassànidi tendono l'arco mentre le favorite a cavallo suonano l'arpa o il tamburino.

So che non lo commoverà una sì nobile genealogia, tanto studiosamente raccolta in un periodo disposto in tondo come il dosso di un levriere che dorma sopra un bel tappeto. Ma non mi accorderà egli forse qualche indulgenza se gli dirò che usavo allenare i miei barzoi di diciotto mesi con un terribile greyhound per toglier loro ogni traccia di mollezza acquistata in Occidente, e se gli dirò che non amo la mia muta piumosa e spumosa se non lungo la riva del mare?

È una vera storia di canile, in fondo. Mettiamo che non si tratti veramente di levrieri ma di cigni. Bisogna per lo meno convenire che son cigni della specie di quelli, oriundi non dell'Eurota ma della Moskova, i quali riescirono a sbigottire Donatella sedicenne. Vi ricordate della bella storia che la grande amica ci raccontò frescamente, sul banco del suo divino Plotinus - the fastest dog of his day - una sera di luglio memorabile negli annali del Greyhound Club di Francia perché fu la sera in cui dovevano nascere gli otto illustri cuccioli dalla nera White Orris sposata al biancazzurro figlio di Platonic e di Streemoch?

Un collegio di fanciulle nobili instituito da una vecchia dama in memoria della sua figlia morta: una grande casa di campagna in un parco immenso e solitario come una steppa, biancheggiante di betule, occhieggiante di stagni.

Tutte le sere le educande vanno a uno stagno che sanno, pieno di cigni. Attraversano il parco tenendosi allacciate e cantando in coro. Portano il pane ai cigni che accorrono verso il margine fendendo l'acqua liscia; e tutta l'acqua rimane raggiata di scie su l'imbrunire. Risa, grida, sobbalzi; e non so che vago terrore, perché i grandi uccelli taciturni guardano con un cipiglio selvaggio e si appressano a prendere il cibo con un aspetto quasi imperioso alzando le ali a calice sul dosso e tenendo il collo all'altezza delle cinture. Le vergini hanno i loro prediletti; e li imitano nelle attitudini talvolta, inconsapevolmente, come l'amante imita l'amato e di lui si forma.

Or ecco che una sera le damigelle inebriate di canto trascurano di portare il pane. I cigni accorrono, e non ricevono se non voci di rammarico e promesse che non riempiono le mani vuote. Qualcuno soffia di collera come il serpe drizzato contro l'incantatore.

Quando le fanciulle si accomiatano per riprendere la via del ritorno, afflitte d'aver deluso i favoriti, ecco che odono su le loro tracce uno stropiccìo di piedi palmati e di penne dibattute. Si volgono, e scorgono la frotta malcontenta che, lasciato lo stagno, le insegue senza grazia pel cammino. Gettano un grido che più le sbigottisce, e si danno alla fuga, credendo di avere alle calcagna il soffio dei lunghi colli, credendo di vedere a ogni svolto biancheggiare la frotta minacciosa. Non si arrestano. Le più timide e le più folli comunicano alle altre la paura e la delizia d'aver paura. Giungono a casa scapigliate, pallide, anelanti, con nel bianco degli occhi la voluttà del rischio ignoto. Raccontano l'avventura interrompendosi a vicenda con la voce rotta dall'ansia. Qualcuna a un tratto scoppia in singhiozzi. Entrando per le finestre aperte la sera ha lo sguardo torvo dei cigni; le tende mosse dalla brezza hanno il fremito delle piume. La notte cala come le notti delle favole. Si favoleggia fino a tardi. L'inquietudine scaccia il sonno dai letti virginei. Si ascolta, si palpita, si sobbalza. Quando gli occhi stanchi si chiudono, quando si placano i seni illesi, di tra le pieghe delle cortine bianche un collo bianco s'allunga verso il capezzale.

 

V'era una copia dorata della Leda marciana, sopra una base di marmo veronese, nel gabinetto che per una favorevole disposizione della luce fu scelto dal dottore chiamato a esaminare il mio occhio spento, la sera del mio ritorno dal campo.

Ero seduto sopra uno sgabelletto; e il piccolo specchio forato splendeva contro la mia fronte come il fuoco di un astro infausto. Ero tranquillo ma attentissimo come quando mi ritrovo solo con la mia sorte e tendo l'orecchio a percepire una mutazione di ritmo da introdurre nella mia musica.

Il dottore abbassò lo specchietto forato. La sua faccia mi piacque per una certa crudità che contrastava con tutte quelle forme della raffinatezza settecentesca in quello stanzino adorno di medaglioni mitologici.

«Chiuda l'occhio sinistro» mi disse, con un modo brusco che mi parve rendesse ancor più salda e diritta la mia spina dorsale. «E mi dica quel che vede di quella statua lucente.»

La doratura brillava giù per la lunga schiena, giù per le gambe lunghe della Leda callipige; e tre riflessi vividi rilevavano i tre unghielli del Cigno confitti nella coscia con una violenza di rapina.

Premetti con un dito la palpebra sinistra. Non vidi più nulla, se non il doppio apice della capellatura, di là da un'onda nerazzurra sottilmente orlata d'ambra.

Allora, non so perché, mi riapparve in mezzo dell'anima il viso di Donatella quale era là, sul banco del suo campione, quando raccontava l'avventura dei cigni ridivenuta sedicenne, fresca e misteriosa come la sua voce: una tra le più potenti grazie della terra.

E sentii, come Nontivolio su la riva degli Schiavoni, quanto la vita fosse bella.

Tuttavia, nel levarmi e nel ricondurre fino all'uscio col mio più affabile sorriso l'aspro condannatore, io ero accompagnato da una bellezza d'altra natura, per cui credo che piacqui al mio demonico.

 

La vita è bella, anche pel monocolo; il quale può dirsi beato in paese di ciechi. Imagino che oggi siete nella casa di Silvia, o Chiaroviso, con quella veste bianca e succinta che avevate visitando la villa Torlonia. V'intrattenete, imagino, nella «sala fresca» della fontana che alimenta lo stagno, all'ombra dei faggi. Vi si fa un concerto di oboe, di flauti e di pive, misurato da Luigi Lulli con battute di tirso? O forse la compagnia italiana condotta da Domenico Biancolelli vi recita Arlecchino e Lelio servi del medesimo padrone?

In codesto chiaro stagno le dame solevano prendere con nodi scorsoi i cervi che il suono dei corni e il clamore delle mute cacciavano verso lo scampo dell'acqua. Legavano esse il laccio a prua del palischermo e, levati i remi, si lasciavano trarre alla ventura dalla bestia perduta che tentava di riguadagnar la riva.

Non v'è in tal diporto quasi una similitudine di questi miei divagamenti? Segnis ludibria languoris.

 

La vita è bella; e l'arte è sempre da trovare; e nessuna materia varrà mai ciò che lo spirito inventa.

L'altra notte ritornai alla Madonna dell'Orto, rientrai solo nel giardino del Procuratore, per l'approdo che guarda la laguna, per quel cancello rugginoso dove un giorno avevo veduto esitare le due farfalle bianche. Qualcuno m'aveva annunziato la fioritura precoce del grande loto. Portavo una lanterna cieca, e l'occhio avido.

Inciampicai a destra su quei tre gradini di mattoni messi per coltello. Camminai lungo le inferriate intravedendo il chiarore della luna logora che sorgeva dietro i cipressi di San Michele. Voltai sotto il muro che corre dalla parte della Madonna. L'ombra mi avviluppò. Non potei evitare la stretta pergola cupa che quel giorno avevo temuta. Là ero atteso. L'aria s'agghiacciava dietro i miei passi. La vedetta dall'altana degli Spiriti gettò il suo grido, che mosse le onde della notte liquida.

Pensavo che il primo fiore del loto mi facesse un segno chiaro. Ma l'oscurità era più fonda in quel luogo che credevo di riconoscere. Nondimeno tenni coperta la lanterna, per non disperdere il mistero che d'attimo in attimo mi rendeva più sensibile. Respiravo l'odore dell'acqua tacita, come se mi chinassi su la bocca d'un pozzo. V'era qualcosa come un respiro senza suono, nella tenebra. V'era qualcosa come una perfezione presente. V'era qualcosa come un evento magnifico, sospeso nel tempo. Tutto il mio essere si affannava a sentire di là dalla sua potenza. I limiti del mio corpo si confusero coi margini delle vaste foglie.

Feci la luce. Una creatura da non abbracciare, da non possedere. Ogni foglia come una faccia voltata verso una felicità non visibile se non a lei sola. Steli così puri, d'un così spontaneo getto, d'una così necessaria ascensione, che non potevano aver nascita da una radice obliqua. Una divinità in piedi, che lasciava intravedere i lembi rotondi del suo divino ammanto. Non so che ombra voluttuosa sopra non so che pensiero eterno. Una voluttà vinta dalla bellezza. Una melodia modulata dall'alto verso il profondo, verso ciò che deve risorgere. Un silenzio diviso e unanime.

Non avevo ancora scoperto il fiore. Ero come qualcuno che in ginocchio levi lo sguardo su per la veste ineffabile al cui sommo sta il viso nudo, il candore ch'egli teme di profanare, la verginità intatta.

Finalmente! Era più alto che tutte le foglie, più alto d'ogni altro stelo. Veduto, non lasciava più altro vedere. Senza radice, solo, nella notte.

Una mano mi toccò la spalla. E soltanto allora mi volsi.

La vita è bella. Sotto le pergole di quella vigna Nontivolio avrebbe dovuto curvarsi come la grande Circe quando versa il filtro nelle coppe delle mense collocate presso il suolo. Era una vigna di Murano, una solitaria vigna in pergole, appena appena inclinata verso l'acqua, all'estremità dell'isola.

Fu ieri, o quasi, e me ne ricordo come d'un sogno interrotto. Passammo Per un monastero senza monache, vecchissimo, senza usci senza imposte, pieno di donne cenciose e di bambini macilenti, brulicante di malattie e di miserie sonante di ciarle e di strilli e di singhiozzi, popoloso e vuoto, dove ardeva e splendeva l'ara di un vetraio, laggiù, in fondo a un corridoio ingombro di legna: un cuore di fuoco domato. Il dolore della Foscarina ripalpitava all'orlo della fiamma.

Poi, non so per che via, non so per che andito, entrammo nella vigna come in un'opera di vetro freddo e verde.

Era un labirinto di pergole basse. Non ci si camminava in piedi. Le viti qua e là si staccavano dai graticolati malfermi di pali e di canne, per coricarsi in terra, per abbracciarsi su l'erba. I tralci a ogni passo c'impastoiavano; i pampani ci passavano una mano fresca su la faccia; i viticci tentavano di pigliarci l'orecchio e il collo. Tenevo il braccio alzato su la fronte per proteggere la vista che mi rimane, temendo il palo aguzzo e la canna fessa, nell'ombra ingannevole. Intravedevo le stelle per gli spiragli della volta pampinosa, e parevano vicine da poterle tastare come i grappoli acerbi che penzolavano da per tutto fitti e duri.

V'era un lume quasi di crepuscolo, un lume di perla, un albore di via lattea, che rendeva sensibile la trasparenza dei pampani. V'era talvolta un che di vitreo, un che di fragile, qualcosa come un ghiaccio verdiccio che s'incrinasse, che si screpolasse. Il canto delle raganelle continuava in suono quella fragilità, quella verdezza. Credevamo di udir saltare una botta molliccia a traverso il cammino, e mettevamo il piede cauto per non schiacciarla, rabbrividendo. Senza sapere perché, avevamo uno sgomento improvviso, un senso languido di freddo, come se la febbre ci salisse dall'erba su per le ginocchia. L'umidità pareva che c'impallidisse, che c'illividisse. Il cammino si faceva cedevole. L'orma si sprofondava. Ci sorreggevamo a vicenda per non sdrucciolare nella belletta.

Tornavamo indietro, smarriti, esitando ai crocicchi. Eravamo prigionieri del laberinto d'uva. Le pergole si facevano più basse. Andavamo quasi carponi, vincolati dai sarmenti, serrati nella frescura delle foglie, soffermandoci a mordicchiare i viticci asprigni. D'improvviso vedevamo luccicare l'acqua, giù per un'apertura praticata tra la ripa e la fratta come una callaia da passarvi. V'era legato a un piuolo, con una corda stramba, un sandalo marcito; e un mozzicone di remo, una forcola consunta, una gottazza senza manico davano al silenzio raccolto in quel legno cavo una tristezza umana che faceva pensare agli annegati solitarii.

Da quella parte la vigna era più selvaggia: finiva in prunaia, finiva in canneto. Sentivamo, di là dagli sterpi, di là dalle cannucce, l'ambascia della dozàna, l'afa dell'acqua morta, sciacquìi e fruscìi misteriosi nel limaccio. Erano i serpi che calavano ad accoppiarsi con le anguille in amore?

Non so che apprensione ci respingeva verso i dubbii intrichi della vigna. Erravamo ancora di pergola in pergola, abbassandoci, risollevandoci. Vedevamo sopra ogni pampano una stella, posata come un acino di luce. Tastavamo i grappoli immaturi per trovare un granello meno acerbo. Ci pareva che l'umidità c'inverdisse fino alla cintola. Il bianco degli occhi, in chi mi camminava allato, era stranamente bianco.

A un crocicchio ci abbattemmo in una tavola rustica, senza tovaglia, intorno a cui erano disposte le scodelle e le panche. Non v'era seduto alcuno, se non una figura di spavento. Noi ci sedemmo, trasognati, obbedendo a una sùbita stanchezza.

Allora ci fu uno che ruppe il silenzio per dire: «Questa tavola è fatta col fasciame della barca che pescava l'alga nella Valle dei sette morti».

Vi sono parole che sembrano crearsi nell'aria indistinta e non portare la forma delle labbra note. Vi sono le parole delle cose e non soltanto le lacrime delle cose, reali le une e le altre. Udendo quelle, non le attribuimmo a una gola amica ma a uno spirito che dimorasse in quel luogo o vi passasse. Erano modulate secondo quella luce e quell'ombra, secondo quegli aspetti e quei lineamenti, secondo quel freddo verdore di sott'acqua ove il respirare era simile al boccheggiare. Risolvevano con un accordo atteso i rapporti musicali della malinconia.

«Quale barca raccoglieva l'alga nella Valle dei sette morti?» domandò un'altra voce intonata su quella cadenza.

La tavola era dinanzi a noi. fatta d'un legno più vecchio che quello del coro di Santa Chiara, dove sono iscritti i nomi lucenti delle prime Clarisse ed è appeso un fascetto di spighe. Era di pino. Mostrava le vene e i nocchi. Scheggiato, screpolato, abbrumato, serbava l'odore del catrame e della salsuggine. Io v'ero appoggiato con i due gomiti e mi reggevo con le due mani il capo; e mi pareva di sentirla barcollare come se fosse ridivenuta cava e avesse rimutato in chiglia i suoi quattro piedi.

Tenevo le palpebre socchiuse; e rivedevo - con l'occhio che non riconosce più i viventi ma riconosce i fantasmi - rivedevo Roberto Prunas, il mio compagno sardo, caduto nella laguna con le ali rotte, rivoltolato e trascinato dalla corrente, non ritrovato

se non dopo molti giorni dai palombari, laggiù, agli Alberoni, tutto disfatto nel sacco del suo gabbano, con mezza carne del viso distaccata dal teschio.

V'era, in quel verdore di sott'acqua, non so che spavento bianchiccio.

L'antica leggenda lagunare trasformava la vigna in barena. Ascoltai? o guardai?

«Sette uomini dei lidi, raccoglitori d'alga, passando con la barca lungo una barena, scoprirono il corpo d'un annegato che giaceva sul fianco tra i fiori di tapo, deposto dalla magra. Non gli s'appressarono per tirarlo a bordo o almeno per legarlo con una cima e prenderlo a rimorchio. Passarono oltre. Attesero a raccogliere l'alga. Poi accadde che, venuta l'ora del pasto, si riaccostassero a quella barena per cuocere la polenta e scodellarla.

Era con loro un fanciullo, il figlio d'uno d'essi. E il fanciullo, mentre il paiuolo bolliva, si dilungò dalla barca. Vide sul margine della barena, tra i fiori di tapo, un uomo coricato che non si mosse. Tornò egli al padre, e disse: Padre v'è laggiù uno che dorme. A Nora il padre gli fece: Va, e sveglialo, che venga a mangiare con noi.

Il figliuolo andò, e toccò alla spalla il giacente, un poco lo scosse. L'uomo si svegliò, e si rizzò in piedi, e si mise a camminare dietro il bambino.

I sette avevano giù scodellato la polenta: e s'erano posti innanzi alle scodelle fumanti, e attendevano.

Come scorsero l'ombra di colui che veniva a mangiare con loro, di sùbito piegarono il capo, né più lo rialzarono; né fecero motto, né diedero fiato. Così stettero, rimasero.»

Allora levai la testa, e guardai. E vidi venire per la notte verde, sotto la pergola bassa, il corpo alzato di Roberto Prunas nel sacco fradicio del suo gabbano impellicciato. E la carne macera gli tremolava su l'osso del viso; e la mascella era scoperta, perché mancava il pezzo del labbro; e la fossa del naso e un'occhiaia erano vuote.

 

La vita è bella, o Chiaroviso. L'altra notte tornavamo dall'aver fatto musica in quella sala verde ove, se vi sovviene, i sonatori capelluti di Giorgione partendo avevano dimenticato l'archetto di una viola da braccio.

I nostri sonatori erano alcuni giovani cannonieri dal capo raso, che la guerra ha tolti da un'orchestra di legni e posti in un'orchestra di acciai. La viola era venuta da una batteria di San Nicolò; il violino era disceso da un'altana munita; il violoncello aveva smesso allora allora la guardia della strada ferrata. Ed era un famoso strumento d'un famoso liutaio, di Andrea Guarnieri: una creatura sensibile come uno dei miei levrieretti d'un anno, vestita duna vernice così ricca, d'una pelle così trasparente, che l'avevo veduta rilucere perfino all'ombra degli alberi, tra le fresche pareti verdi, come se veramente la sua lucentezza cristallina fosse data dalla polvere di diamante.

L'artigliere aveva ricolcato il suo dolce violoncello nella custodia e avviluppato la custodia in un càmice di panno bigio. Ma. poiché la gondola era carica da poppa a prua come la barca di Caronte, la cassa stava in piedi per prender meno posto, e aveva il suo corpo, il suo collo, il suo capo, a simiglianza degli altri passeggeri. Essendo calda la notte, il sonatore, toltosi il berretto, ne aveva coperto la sommità della custodia, là dove riposa il manico dal mirabile riccio; cosicché eravamo nel leggero legno dieci uomini e uno spettro d'uomo. Tutti eravamo seduti su le panchette o sul fondo. Soli stavano in piedi lo spettro bigio e i due soldati rematori. Il violoncellista reggeva il suo caro con le due braccia. Ciascuno di noi serbava tuttavia nell'anima la potenza di quelle corde ridiventate mute.

Calda era la notte, senza bava. Lo scirocco aveva perso ogni alito. Il latte di Galassia pareva inondare tutto il firmamento. Le stelle annegavano in una biancosa mollezza. L'acqua pareva «in ardore» come nelle maree di settembre, come intorno al tempo dell'equinozio. I due remi propagavano gli anelli della fosforescenza sino ai muri della Sacca.

Andavamo per la Sacca della Misericordia cercando l'eco. Era con noi una cantatrice dalla voce duplice, che saliva alle più alte note del soprano e scendeva alle più basse del contralto: un pallore cupo annodato da nere trecce, sopra un collo rigato dalle vene della melodia. La sentivamo tra noi vivere d'una pura vita musicale, come il violoncello di Andrea Guarnieri. Ciascuno di noi era legato a lei dalla cadenza di un'aria prediletta. Non avevamo altra voce se non la sua.

Ella teneva la testa alta, come lo spettro bigio. Era attentissima, come a un richiamo. Le sue labbra serbavano la forma della modulazione. Mi pareva di vedere la nota nella sua gola come la perla nella conchiglia.

Di tratto in tratto metteva un gorgheggio e poi inclinava la testa nella pausa, come l'usignuolo quando incomincia. Tutti imitavamo quell'atto, ascoltando se la risposta venisse. Così ella tentava l'aria, tentava il silenzio.

I rematori levavano il remo, restavano sospesi, chini anch'essi dalla medesima banda, mentre dalla pala gocciolava l'acqua in collane disciolte. Poi seguitavano a remare piano, anch'essi attentissimi, cercando di divinare il luogo acconcio, scotendo il capo quando la voce non era ripercossa. Tentavano l'acqua come la cantatrice tentava l'aria. Ci sentivamo fatti d'aria, d'acqua e di musica. La gondola era uno strumento natante, col suo corpo, col suo manico, con la sua rosa, col suo scagnello.

Dov'era l'eco? Era scivolata lungo i muri? s'era nascosta sotto il ponte della Sacca?

Ma la cantatrice paziente continuava a interrogare il silenzio. Talvolta qualche nota veniva ripercossa, come se la piena eco fosse prossima. Il rematore di prua teneva il remo ritto a governare; solo vogava adagio adagio quello di poppa, senza che lo scalmo forcuto desse il più lieve stridore. Era come nella caccia di padule, quando il barchino s'accosta al branco e il fucile è già contro la spalla e l'occhio alla mira, e nessuno fiata. Ma, poco più discosto, le note si perdevano. E una strana pena cominciava a opprimerci. Qualcosa di morto era intorno a noi, era tra noi. Mi volsi, e vidi i cipressi di San Michele nel biancore lento. Rabbrividii guardando lo Spettro bigio ch'era tra noi l'undecimo, immobile, rigido, più alto di tutti.

Cresceva la notte senza bava, già senza stelle. I cerchi di luce si rompevano contro le grandi zattere di legname che galleggiavano nella Sacca tristi come se avessero trasportato mucchi di naufraghi o di pestilenti. Le finestre cieche del Casino degli Spiriti, murate a una a una per impedire che vi si riaffacciasse la fantasima, non si riaprivano?

D'un tratto udimmo un tuono cupo come d'un uragano che scoppiasse laggiù su l'Adriatico. Stavamo per entrare nel rio di Noale.

Alzai una mano per far segno ai rematori che s'arrestassero. La mia mano mi parve troppo pallida e il mio gesto troppo vano. Guardai i miei compagni, e li vidi tutti dello stesso color grigio, dello stesso color di cenere, nella barca nera, tutti simili a quello spettro ravvolto in quel càmice e coperto di quel berretto. Erano tutti fissi come quando aspettavano che l'eco rispondesse al gorgheggio escito di quella bianca gola.

«È il cannone su l'Isonzo, uno disse, a bassa voce, da prua come da una indefinita distanza

E due o tre mani troppo pallide si levarono ancora, per far più di silenzio in quel silenzio mortale.

E fu l'ultimo gesto. Ascoltammo, senza soffio, senza colore, divenuti spettri gli uni per gli altri, esangui, esanimi. Non ci guardavamo in viso, ma tutti eravamo fissi al morto dal càmice bigio che ci dominava, ritornato dal sonno come quello che piegò su le scodelle le facce dei raccoglitori d'alga.

I tuoni si seguivano quasi senza pause, formavano un solo rombo propagato dalle solitudini del mare. La battaglia era nascosta sotto l'orizzonte, bolliva nella conca della notte. Gli spettri di prua vedevano forse il fumo del bollore sanguigno tingere l'orlo dell'alba.

Noi non ci volgemmo; non potemmo noi volgerci. Né si volsero i vogatori. I remi rimasero sospesi su l'acqua lùgubre, e credemmo che non ricalassero più.

 

La vita è bella. Oggi è il solstizio d'estate, è l'immobile estasi della luce, la culminazione del giorno febèo. Tutta l'aria è volontà e voluttà di vita. Il cerchio del sole sùbito brulica d'api ardenti che mellificano il fuoco. Passa nel libeccio l'ebrezza del miele igneo. Il bel giardino lagunare, ove fiutammo tutto il profumo d'Italia accolto, lentamente si cuoce. Sfatte sono le rose, sfatti sono i gigli; e gli steli ingialliti si mutano in stecchi. Le speronelle si sfogliano al vento come farfalle che perdano un'ala. Gualcita è la seta dei gracili rosoni che s'aprono intorno alle verghe fogliute delle alcee. Ma il timo, il rosmarino, la spicanardi, tutti gli aromati, sembrano consumarsi come l'incenso. I fiori numerosi della lavanda sono quasi fumo azzurrino. I melograni sono tutti accesi di fiammelle che si nutrono nella cera scarlatta dei balausti. Il giardino s'appassisce e s'appassiona. Gli ho lasciato il mio affanno. La bellezza del fiore si perde, e il frutto non riempie la mano.

Io sono andato a visitare i morti. Si compiono oggi quattro mesi della mia pena, si compiono sei mesi dal trapasso di quel compagno alato ch'era divenuto la metà del mio coraggio, dimidium animi. Ed egli era nato, or è trentatre anni, nel giorno del solstizio estivo. È questo il suo dì natale, il suo genetliaco di luce.

Per la prima volta ho sfidato la luce, nell'ora vietata. Mi pareva d'andare verso il totale abbacinamento, verso la cecità compiuta; o verso un miracolo d'oro. La scala era nell'ombra, tutta la casa era nell'ombra delle tendine verdicce: una prigione cupa e senza pace, dove il letto è un segno spaventoso come la croce a chi ne fu deposto tramortito per ricominciare a morire.

Sono disceso con cautela, senza rumore, come chi fugge per non tornar mai più. Sentivo le mura fatte di tedio, d'angustia e di smania. Andavo ai morti come alla libertà. Nondimeno ho esitato prima di passare la soglia Ho avuto paura della luce come d'un abbacinatore all'agguato nella calle deserta. Ho visto una lama di sole, stretta come uno stocco, davanti a me, allungarsi sul muro dell'orto dei Corner. E il ragno nero, che sta nel centro della sua tela tessuta dentro il mio occhio destro, m'è parso muoversi in un bagliore giallo vorticoso.

Ma come avrei potuto meglio prepararmi a visitare il più ardito dei miei compagni se non con un atto di temerità? Il gusto del rischio pareva di nuovo diffondersi in tutte le mie membra, simile a un sapore da troppo tempo vietato. L'anima sentiva di nuovo la qualità del sangue, come nei mattini delle mie dipartite, quando il pensiero del ritorno era lasciato nel vestibolo a dispregio, quasi ingombro vile.

Contro la riva il canotto aveva il medesimo battito, incitante come la diana, come il rullo del tamburo teso. Ma non v'era sul banco il mio gabbano pesante, né il mio camaglio, né il mio paio di calzari, né la mia maschera, né la mia pistola carica. V'erano sul banco tre fasci di fiori colti in quel giardino isolano ove respirammo l'essenza inebriante dell'Italia bella: tre fasci mortuarii, coperti affinché non li cocesse il sole. E nella corsa il vento sollevava la copertura e il mio cuore, che mi pareva a ogni tratto il sole non soltanto li guastasse ma li pigiasse come fa dei grappoli il duro vendemmiatore. E il marinaio che era al timone, presso al meccanico, si volgeva e con una mano cercava di ricoprire i fiori, per quetare la pena che la sua gentilezza leggeva nel mio viso. Ma anche quella mano era rude come il sole, e mi faceva soffrire. Imagini funebri mi attraversavano il cervello pulsante. Rivedevo la mano villosa del medico nell'atto di ricoprire il cadavere dopo avere iniettato il balsamo per conservarlo.

Allora con un segno brusco ho impedito che l'uomo continuasse quel gesto. E il vento ha rapito la copertura, che s'è dileguata tra i due filoni della scìa schiumanti. Sul legno caldo del banco il sole divorava la freschezza dei fiori.

Ho cavalcato per ore ed ore nel deserto. Solo, di mezzogiorno, ho traversato le sabbie roventi che dividono le grandi Piramidi dai sepolcreti di Sakkarah. Ma non mi ricordavo che il sole potesse tanto essere terribile. Avevo dunque dimenticato, sotto la coltre della mia tristezza, la forza del giorno italiano?

Ero uscito dalle cautele dell'ombra per entrare in un contrasto di violenze aperte. La vibrazione del motore si comunicava a tutte le mie ossa. Tenevo i miei piedi sospesi per interromperlo, discostavo le mascelle perché non arrivasse all'orbita, serravo la palpebra per comprimere i tessuti e gli umori dell'occhio leso. L'acqua rotta dalla rapidità mi spruzzava la gota; e i suoi riflessi erano intorno come un combattimento ad armi bianche. Vedevo, a traverso la palpebra, un rossore simile a una nuova emorragia raggiante, ove il ragno tenace fosse annegato. E il dominio del mio corpo meschino sfuggiva alla mia anima non dominabile. Il mio corpo temeva, si contraeva, pareva quasi cercasse nascondersi per sfuggire all'offesa. L'istinto se n'era impadronito. Ma la miglior parte di me era sollevata da un dolore più solitario che la sommità stessa del cielo. Consideravo la miseria del mio corpo come la fragilità di quei fasci funebri, sopra quel banco arido e palpitante. Il mio dolore e il mio amore volevano difendere la freschezza di quell'offerta che il sole disfaceva. Più che la velocità dello scafo, quel sentimento mi avvicinava alle tombe. E pure quei fiori erano destinati a esser deposti su le zolle secche, destinati a divenir strame innanzi sera. Che già incominciassero a morire, importava forse ai morti? Potevano essi forse godere la loro freschezza?

O illusione sublime dell'amicizia! Io portavo quelle rose, quei garofani e quelle ortensie a colui che un giorno, reduce da un'impresa su Pola, nell'orto di Tomaso Contarini aperto in vista dell'isola sepolcrale, mi aveva ripetuto un pensiero e un sorriso dell'Estremo Oriente: «La farfalla non parla. Vorrei mi dicesse come sogna i fiori».

 

L'approdo è dalla parte del muro vecchio. Di là dai mattoni disfatti si alzano i cipressi ancora arrossati qua e là come il panno nero delle coltri che servirono a troppi funerali. Eccomi alla riva. Non so se è vero. Mi ritrovo su lastre di pietre sonore. I passi mi rimbombano nel capo. I quattro marinai hanno di nuovo sollevata la cassa, con le larghe cinghie. Cammino di nuovo dietro la cassa, di nuovo la tocco, la riprendo. Mi accosto, e metto le mie mani sotto: ora sento il peso. La coltre mi copre le braccia fino al gomito. Cammino senza vedere niente altro che il nero e l'oro e i fiori. Entriamo nel chiostro, attraversiamo il portico. Andiamo verso un uscio, verso il deposito mortuario dove la salma attenderà fino a lunedì per essere seppellita. Non mi distacco dal mio feretro. Entro anch'io nella stanza fredda, imbiancata. La cassa è deposta su due cavalletti. È ancora coperta dalla coltre e dai miei fiori. Mentre mi raccolgo e m'agghiaccio e dico anche una volta addio al mio compagno (il suo povero corpo è scosso da questo continuo moto, dalle prove e riprove per la collocazione stabile), ecco che cominciano a entrare le corone. Sono enormi, talune. I portatori le dispongono contro le pareti, l'una su l'altra. Sono cento, sono più di cento. Un'afa irrespirabile. Fiori ancor vivi, fiori già quasi putridi. Tutta la stanza è ingombra. Per far posto, bisogna premere le ghirlande, calcarle, pestarle….

Non è vero. Trasogno. La gran luce m'acceca. I riflessi acuti mi trafiggono come stocchi. La riva è troppo erta sopra la marea bassa. Una mano ignota si tende per aiutarmi a salire. Mi ritrovo su le lastre di pietra arroventate che mi abbacinano. Fuggo verso la porta del chiostro. Ho qualche minuto di smarrimento. Tutta la vita è come uno sciacquìo lontano, simile a quello che suona contro l'approdo verdastro. Tutta la vita è come il ciarlìo continuo di quei passeri su quei tetti bruni ove qualche tegola rosseggia. Vacillo su le ombre delle colonnette, su liste d'ombra sottili come lame a doppio taglio, che mi mozzano le caviglie. M'imbatto nella porta grigia del deposito, che è chiusa. Mi soffermo davanti alla vecchia lapide di Regina Carazzolo. Rivedo incisa la lieve ghirlanda di ulivo e di edera; rivedo le due ali. Come si sono alzate le erbe negli interstizii delle lastre sconnesse, intorno al pozzo francescano! Sono alte come candele infisse. Il gran sole non lascia scorgere le fiammelle.

Passo tra due cipressi e due magnolie. Salgo una breve scala. Un crudele ardore m'abbaglia, simile a quello che tremola sopra le stoppie deserte. Una pietra bianca, una pietra di tomba, si smuove sotto i miei piedi. Odo il lagno rauco d'una sirena che lacera laggiù, la laguna torpida. Odo un maglio che batte, laggiù, su ferramenti grossi. Il cuore mi manca. Tocco il fondo della più opaca tristezza. Sono tra buio e barbaglio. Ho in un occhio l'orribile ragno nero, e nell'altro una vertigine di fiamma. Vado avanti, e non so perché non cada. Tutte le pietre delle tombe si smuovono sotto il mio passo. Discendo qualche gradino che splende e tentenna come le lapidi. Ora la ghiaia stride. Che è quella scala di luce e d'ombra? È la via dei cipressi, che rasenta il cimitero dei marinai. Vedo non so che cosa dolce e miserabile: in un campo di fango rappreso, un mucchio di piccole croci, di poveri segni, di ghirlande secche, di nomi che luccicano, di tumuli senza nomi e senza erbe. E il mio primo compagno non s'alza? non mi viene incontro? E gli altri due miei compagni dove sono?

Dov'è Roberto Prunas? dov'è Luigi Bresciani?

Intravedo nel bagliore il cippo di Giuseppe Miraglia. L'ala dorata d'Icaro vi splende nel cavo. Domina tutte le altre sepolture. È come un grande stipite terminale. Le parole che io v'incisi, la gloria non le dimenticherà. L'alloro che io v'appesi, il tempo non lo sfronderà.

Ma dove sono le altre due tombe? Non le conosco. Non le riconosco. La sera del 2 aprile i due miei amici erano vivi, seduti accanto al mio letto. Dovevano, il giorno dopo, esperimentare la nuova ala, senza di me. Sentivo nell'ombra la loro forza ch'essi dissimulavano, sentivo la loro gioia ch'essi dissimulavano per non straziare la mia impazienza. Tendevo a ogni tratto verso di loro le mie mani per avvicinarmeli. Gino sorrideva con tanta bontà che il suo viso n'era rischiarato. Aveva l'aria d'un giovinetto, d'un guardiamarina ancóra timido, con quella testa imberbe e bionda un poco inclinata verso la spalla sinistra, con quelle ciglia chiare che nel sorriso si serravano e palpitavano lasciando scorrere uno sguardo limpido come una di quelle gocciole di guazza che nel velivolo, fra tela e tela, pendono da un tirante d'acciaio. La faccia di Roberto olivastra pareva invece come invecchiata dai due profondi solchi che contornavano la bocca sottile. Era una faccia di pastore sardo scavata dal tedio e dalla riflessione. Usava egli l'ironia, talvolta l'arguzia; ma la sua maschera era come quelle campagne solcate da torrenti aridi in attesa di piene subitanee. I solchi delle lacrime erano scolpiti nelle gote fin giù al mento. E sembrava che da un momento all'altro dovessero riempirsi.

Da quella sera ansiosa e affettuosa, ecco che per la prima volta ricalco la terra dove i due corpi si disfanno. Cammino fra lo strame funerario, fra il pacciame che ricopre i crepacci. Mi curvo su i morti del mare, a scoprire, a leggere. Ogni nome mi ferisce, ogni pietra mi colpisce. Ecco il capo torpediniere del sommergibile Jalea, Ciro Armellino. Ecco il sottocapo, Biagio di Tullio. Un ricordo sublime mi solleva il cuore. Rivedo, in fondo allo specchio d'acqua esplorato, la lunga tomba di ferro, il sepolcro navale. Ecco i morti del sommergibile Medusa, ecco i morti dell'Amalfi, ecco i naufraghi ripescati e sotterrati. Son forse più tristi qui, in questa mota gialliccia, sotto queste croci meschine, sotto queste ghirlande di zinco.

Forse era meglio che Roberto Prunas non fosse ritrovato dai palombari lungo la diga solitaria. Forse era meglio ch'egli sentisse ancóra passare sopra sé le torpediniere a fuochi spenti in rotta verso i porti dell'Istria. Era meglio che sottomare si cangiasse «in qualcosa di ricco e di strano».

Qui non ha più nome; né il suo pilota ha nome. Li cerco, e non li trovo. Mi smarrisco nella farragine della morte. Vacillo nel barbaglio. Odo sotto il mio cranio uno scampanìo continuo che è come la sonorità della luce. Vedo un'ombra passare lungo il muro abbagliante di lapidi.

È un vecchio cappuccino, vecchio decrepito, che strascica gli zoccoli biasciando, con le mani congiunte sul cordiglio di San Francesco, seguito da un gatto nero e da due gatti tigrati che gli miagolano alle calcagna. Mi accosto, lo riverisco, lo interrogo. Non è se non una tonaca logora, non è se non un cappuccio penzoloni, tanto la sua carcassa mi sembra cadente e sparente. Il suo viso è niente, è meno d'un pomo aggrinzito e muffito. I suoi occhi sono come due frantumi di vetro azzurrognolo, senza sguardo, senza cigli. Si sofferma, non comprende, non risponde. Gli domando dove sieno i miei morti. I morti sono da per tutto. Egli medesimo è un morto che va a coricarsi in quella fossa laggiù, dove i suoi gatti scarni lo lamenteranno tutta notte. I suoi piedi nudi sono morti negli zoccoli che fanno stridere la ghiaia. Egli non ode le voci umane che vengono dalle fondamente lontane; non ode le campane lontane; non ode l'ora che suona; non ode il martello che batte; non ode quel bambino che piange, chi sa dove, forse in fondo a un locello, di sotto a una lapide, dietro a un cipresso.

Dove sono i miei morti? Vedo Roberto Prunas che apre la tabacchiera d'oro donata al suo bisnonno dal re di Sardegna e prende una sigaretta tra le sue dita brunicce. Luigi Bresciani è in piedi, come sotto la tettoia dell'Arsenale dov'era ricoverato il suo meraviglioso idròttero; e la sua gota è inclinata verso la pala dell'elica ferma verticalmente; e le linee del suo volto sono fini, precise e misteriose come quelle del legno propulsante. Batto le palpebre. Le apparizioni vaniscono. Il sudore mi cola giù per la tempia.

Il frate minore non torna indietro. Scorgo nel viale un custode nero. Lo chiamo. Lo interrogo. Non sa. Va a consultare il registro. Si allontana. La ghiaia scricchiola.

L'attesa mi vuota l'anima, e vuota il mondo. I pensieri ruotano e si sperdono come nella vertigine. Col supplizio della luce negli occhi, resto fisso alla mia ombra coricata sul sabbione dove i miei piedi si stampano. Sopra la mia ombra svolazzano due farfalle bianche, simili a quelle che esitavano davanti al cancello rugginoso dell'orto contareno.

Il custode torna. Mi tende una piccola carta piegata: la polizza sepolcrale, la bulletta funeraria: dov'è scritto che Luigi Bresciani fu seppellito nella fossa tredicesima della fila terza.

Oggi è la festa del suo nome.

Ho il foglio tra le dita. Cerco. Scopro la pietra quadrata che porta scolpito il numero tredici.

Nel primo attimo, qualcosa di vivido e di leggero, qualcosa come la sensibilità, come la delicatezza e l'acume del mio amico, trema su quella desolazione. Poi vedo la cruda miseria. Nessun nome, nessun segno. Una grossa corona di zinco e di porcellana, un'altra di conterie nere e bianche; un fascio di palme secche, quasi spinose, legato da un nastro stinto; un coccio rossastro, con uno stecco fitto in un poco di terra; un cartoccio di latta, con un poco di acqua e un mazzolino marcio.

La tristezza mi curva, mi fiacca i ginocchi, mi schiaccia su quel povero orrore. Vedo il viso raso e chiaro, il biondo puerile dei capelli lisci, le labbra esigue e sensitive, i leali occhi fraterni che di sùbito il coraggio affilava e aguzzava. Tra la lugubre cianfrusaglia che ingombra questa sepoltura, scopro il fiore tenue del vilucchio, un che di fresco e di candido, quasi volubile sorriso. S'allevia il peso del cuore.

Ecco che il nostro primo compagno, ecco che il più amato è con noi. La sua voce mi passa nell'anima, come quando conduceva al mio sogno le imagini dell'Estremo Oriente, nel giardino situato dalla Parte dell'ombra.

«Una donna esce dalla casa mattutina, col suo orciuolo, per attingere acqua del pozzo. E vede che un vilucchio prestamente nella notte s'è attorcigliato alla corda umida della secchia ed è fiorito. Rientra nella casa, posa l'orciuolo, e dice: Il vilucchio ha preso la corda. Chi mi dà acqua?»

 

Qui neppur l'amore immortale può disgiungere dalla putredine la figura della morte. La cassa d'abete rozza, dove fu chiusa - or è sei mesi - l'altra cassa levigata e ornata, per preservarla, è certo fracida nell'umidità della fossa. Le assi hanno ceduto, e la mota salsa ha spalmato l'altro coperchio dov'era inciso il nome di Giuseppe Miraglia.

Il 27 decembre era un giorno di piovitura e di caligine. Tutto il camposanto pareva ridivenuto una barena melmosa. Quando fu portata la cassa di legno bianco, quando l'altra vi fu dentro deposta, quando il marinaio conficcò i chiodi a gran colpi di martello, quando vennero i seppellitori con le corde, quando vidi il fango agglomerarsi intorno alle loro suola su l'orlo della fossa, quando vidi in fondo alla fossa luccicare un poco d'acqua giallastra, io non ebbi se non un pensiero e una pena e una domanda. Mi fu risposto che l'abete grezzo poteva durare in terra due anni. Ma non era vero. I sei becchini grigi imbracarono il legname e lo calarono, pontando i piedi nella mota che saliva a mezza gamba. Poi presero le pale. Le aste delle pale erano lisce per l'uso. Un riflesso vi guizzava a ogni movimento. La terra era molliccia, quasi liquida. Le prime palate di melma sopra le assi diedero un suono sordo, un croscio fiacco. Il corpo dell'uomo alato era sepolto nel fracidume. Ma vidi nel fracidume rilucere una conchiglia. Allora aguzzai la vista. E scopersi innumerevoli conchiglie, intiere o trite, bianche o rosee.

Perché queste cose alleviano il dolore? Perché l'amore superstite rimane così tenacemente legato alla bara, al corpo disfatto, alle ossa, alle ceneri, alla materia del sepolcro? Perché oggi, al primo chinarmi sul tumulo del mio compagno, ho sofferto delle fenditure che il calore apre nel breve spazio compreso tra gli orli di busso ingiallito?

M'è egli più vicino qui? o nella mia casa, o nella strada, o su l'acqua, o dovunque io vada e pensi?

Lo rivedo a traverso la terra, a traverso il legno e il piombo. Lo sento rivivere. Lo sento respirare, lo sento ripalpitare, quando m'inginocchio, quando poso la mia mano su la sua sepoltura calda come sul suo fido petto.

L'illusione è profonda come quella radice della speranza che nessuno di noi riesce a strapparsi del cuore interamente.

Non piango, ma entra in me qualche dolcezza. Resto inchinato, col giogo del sole sul collo. Il mio occhio illeso è sensibile come il mio occhio infermo. Le imagini vi s'imprimono e vi restano. Come guardo fisamente la corona d'alloro sospesa al cippo, ecco che la mia visione si fa verde. Potrei levarmi e accorgermi d'esser divenuto cieco. Perché qui un tal pensiero non mi sbigottisce?

Qui non è l'inerte chiarore glauco che ghiacciava la pergola bassa, là, nella vigna di Murano. È un ardore, un incendio divorante Chiudo le Palpebre, poi le riapro.

Vedo i fili d'erba che tremano.

Vedo un ciuffo di trifogli, e non v'è quello di quattro foglie. Vedo le conchiglie lucenti, e ve n'è una fatta come un'orecchia. Le formiche rossigne camminano su per gli ovoli e gli sgusci del plinto. Una lucertola è ferma contro lo spigolo, e par fusa nel bronzo come il braccio d'Icaro nel bassorilievo incastrato. Ma ciascuna di queste cose perde la sua sostanza vera e si trasmuta in un sentimento che è musicale come le cadenze delle lamentazioni.

Chi ha portato a questa tomba i fiori violetti della barena, perpetui come gli asfodeli? Sono simili a quelli che cogliemmo nella laguna di Grado un dì d'agosto, «fiuri de tapo», per spargerli su lo specchio d'acqua dov'era colato a picco il Jalea. Mi volgo, e vedo il marinaio che m'ha seguito portando i tre fasci di rose, d'ortensie e di garofani. Aspetta, sotto il cipresso, diritto, in silenzio.

Chiudo ancora le palpebre. Sento che il mio compagno è dietro di me, seduto al governo delle leve, come in quella partenza. Sento l'oscillazione del velivolo. Ho davanti a me, sopra una specie di rastrelliera, quattro bombe con le eliche fissate da un fil di ferro e il fascio di fiori che un'anima pietosa ci ha affidato per gettarlo sul sepolcro marino.

Prendiamo altezza. C'è vento fresco, ma l'apparecchio è stabile. Un rullio leggero, a quando a quando, poi un senso d'immobilità, di sospensione nell'aria. Il cuore si dilata. Un sorriso spontaneo brilla alla cima dell'anima.

V'è qualche ragnatelo sparso nell'azzurro.

Il mare increspato fa un poco di bava bianca ai lidi sottili.

Un raggio traversa il cofano e fa rilucere il tubo d'ottone nel motore.

Nella scìa d'una torpediniera i due filoni divergono, simili alle due palme nelle mani della Vittoria.

Tutto di qui appar soave, quasi femineo. Dianzi, la città e il ponte erano come il fiore e il gambo.

La gola di Venezia era come la gola della colomba cangiante quando un poco si gonfia e s'inarca nella voglia di tubare.

I colli euganei erano laggiù come tumuli d'amanti famose, inzaffirati.

Le chiare dighe sono cinture cinte alla terra bionda e molle che, come una donna, ha le sue delicatezze segrete da non potersi sorprendere se non di quassù.

Nell'estuario le porzioni della terra sembrano fatte per essere offerte, come il pane si frange, come la focaccia si parte.

Il fango è una materia preziosissima: di quassù è opulento come la sabbia del Pattolo.

Le rive sono protese, distese come chi si stira nel sopore: sono attitudini, sono gesti.

La laguna ha i suoi prati che aspettano le sue greggi d'argento squammose.

La laguna è come la perlagione d'un cielo vista a traverso le nervature duna foglia macera.

Ora il mare la imita. Ora nel mare le correnti rilucono e lo fanno simile alla laguna solcata dai canali tortuosi.

Nel pallore della laguna i canali tortuosi sono verdi come la malachite, verdi come l'ossido di rame, come certi occhi.

Le piccole città bianche, su le sporgenze della costa, sono da prendere e da portare in palma di mano.

Ecco Caorle. Sta sopra una sporgenza che ha la forma di una tiara aguzza.

Guardo ancóra Caorle. Il lido m'appare tagliato come una sella d'alto arcione; e la città è posta in sommo dell'arcione di velluto logoro.

Il mare è deserto. Gli orli spumosi hanno una dolcezza infinita, simili a non so che favellìo, a non so che sorrise parolette.

L'ala inferiore è metà nel sole e metà nell'ombra. La parte davanti è nel sole. L'ombra di tratto in tratto avanza. Resta nel sole una striscia sottile: la costola.

Leggo e comprendo i segni intersecati che fanno le ombre dei tiranti d'acciaio.

Ho lo spirito lucido come l'aria. Si sale, si sale. «Sublimare è d'una cosa bassa e corrotta farla alta, e grande, cioè pura.»

Si sale. Siamo di là dai duemila metri. Siamo soli, io e il mio compagno. Quel che io ho veduto, egli l'ha veduto; quel che io ho sentito, egli l'ha sentito.

Mi volgo. Lo guardo. Ha l'aria d'uno di quegli idoli dell'Estremo Oriente accosciati e immobili. È fisso. Il suo viso è bronzino nel camaglio di lana. Alla radice del naso ha l'ammaccatura degli occhiali, violacea. Porta i baffi tagliati nettamente su la bocca grande, rasi col rasoio agli angoli. I suoi occhi sono felini, tra verdognoli e giallognoli, pieni di polvere d'oro. Prendono qualcosa d'infantile quando mi sorridono.

Egli mi domanda il taccuino, e scrive: «Vuoi, di grazia, stringermi l'elastico degli occhiali, che m'è lento?».

Mi sporgo dal mio seggiolino; faccio miracoli d'agilità per non disturbargli il governo, mentre il velivolo rulla al vento che rinfresca. La molletta non serra. Mi levo i guanti. Riesco a fare un nodo. Vedo a traverso le lenti ridere i suoi occhi. Ho sùbito le dita ghiacce. Il freddo aumenta.

Si continua a salire. Il sangue è armonioso. La vita è piena.

Ecco Grado nostra. Grado d'Italia!

/* «O Gravo belo, me no posso dî El canto eterno de la to belessa….» */

Discendiamo. La terra il mare il cielo s'aggirano in un solo vortice raggiante. Le barene e le velme ci sono sul capo come le nubi. Le alpi dentate della guerra mordono l'Adriatico come l'addentano i moli di Trieste. I gabbiani si precipitano incontro a noi come per passarci a traverso. Abbiamo nel petto i canali verdi, i prati salsi, i lidi biondi orlati di spuma, le isole violette come i pascoli dell'Ade.

Le isole, le barene, le velme, tutte le seccagne solitarie, sott'acqua, a fior d'acqua, nel cieco splendore, hanno non so che aspetto avernale.

I pioppi sembrano consumarsi nel tremito dell'aria, le tamerici vanire nella loro pallidità, i grandi erbai di color gridellino inclinarsi al soffio di non so che transito.

Nulla più ci tocca, fuorché l'imagine della tomba d'acciaio che sta in un fondo ignoto del mare. La cercheremo, la scopriremo. La nostra sosta è accompagnata da non so che funebre melodia marina.

V'è un superstite, un solo. Ha la sua carne sopra le sue ossa; eppure nella luce è simile a un'anima con due dolci occhi.

Ha un'anima paziente e potente come quella del re d'Itaca questo naufrago ventenne; ma i suoi occhi a mandorla sono belli come gli occhi della gioventù che danza intorno ai vasi campani.

È un figlio della Campania, dorato come il frumento. È della stirpe costrutta secondo la «divina proporzione». Come tanto cuore può esser contenuto in quel petto breve? Si chiama Vietri. che vuol dire intrepidezza.

Quale naufrago, perduto nel mare deserto, non teme la notte? Questo non paventò la notte, ma sì scelse di superarne l'orrore, in vista del lido!

V'è un momento eroico più profondo di ogni altro: quello che scocca tra il cuore dell'uomo e tutto l'ignoto, tra il volere dell'uomo e tutto il silenzio.

Questo eroe è come disgiunto dalla sua gloria. V'è un ardore di gloria sparso nella solitudine del mare dove cercheremo la tomba di grigio metallo. E questo superstite ignora la sua virtù, e la bellezza del suo evento.

Cammina col suo passo di marinaio, provato sul guscio del battello emerso. Va lungo la proda del canale, sul prato violetto di santònico; e ha dietro sé le ombre glauche dei suoi morti.

Dov'è Guido Cavalieri? per qual lido si voltola? quale corrente lo trasporta? Il flutto non ha rigettato se non il materasso di gomma che lo sosteneva nel nuoto disperato.

Lo rivedo su la riva degli Schiavoni, presso il ponte, vestito di bianco, parlare con la sua bella compagna, prima della partenza. Era diritto in piedi, svelto, elastico, non curvato sotto la condanna oscura. Sorrideva, mentre tagliava le sue scarpe bianche l'ombra d'un balaustro.

Partenza nella sera di perla. Molla ormeggi. In moto il motore a combustione di diritta. Dal ponte di una torpediniera vedo passare il Jalea emerso, di là dagli sbarramenti, in prossimità della costa, e navigare verso Grado. Il mare s'incupisce; ma nella sua palpitazione accelerata si sente già la fosforescenza notturna. L'increspamento luccica qua e là d'una luce interiore, come una palpebra che batta e lasci sfuggire uno sguardo misterioso. La luna nuova è come un pugnello di solfo che bruci. A quando a quando la nuvola nera del fumaiuolo la nasconde, oppure sembra trarla come una favilla fugace nella sua voluta. La vita non è un'astrazione di aspetti e di eventi, ma è una specie di sensualità diffusa, una conoscenza offerta a tutti i sensi, una sostanza buona da fiutare, da palpare, da mangiare. Guardo il sommergibile allontanarsi. Un gruppo d'uomini è sul guscio, una massa grigia indistinta, come un'escrescenza sul dosso d'un cetaceo. La prua acuta penetra la notte e scompare. Il lungo fuso verdastro s'immergerà laggiù, proseguendo le sue rotte parallele alla linea che congiunge la Secca di Muggia e la Punta Sdobba. E per quegli uomini la vita somiglierà a un'agonia energica. Le loro facce saranno come i quadranti bianchi dei manometri. Le loro arterie saranno come i tubi dipinti di rosso nella camera di manovra.

All'alba il semaforo di Grado vede il Jalea immergersi, oltrepassato il gavitello che segna l'origine della rete, e proseguire veloce a levante, verso la Secca di Muggia. Nessuno più lo vedrà nel golfo. Lo scafo è già un sepolcro. Gli uomini sono già seppelliti nel mare. Uno d'essi, vestito d'una tunica azzurra, tien la mano poggiata alla ruota d'ottone che governa la pompa d'assetto, ov'è scritto: Dal mare al mare.

Vietri sale nella torretta. Di qua e di là dal cristallo pendono le due rivoltelle da segnali. L'acqua è più pallida dell'alba. Le voci salgono nel silenzio come le bolle in quel pallore. L'occhio non distingue se non il portello di prua, i due maniglioni laterali, qualche medusa fuggevole. Il sudore stilla dalla fronte del marinaio. Ma la clessidra del Tempo ha già cessato di gocciolare.

V'è nel mondo una specie di silenzio che galleggia sul rumore come l'olio su l'acqua.

Uno sciacquìo intermesso sale dalle intercapedini. La ruota del timone orizzontale si riflette nello specchio del piccolo lavabo che le sta di fronte. In quell'apparenza v'è qualcosa di lontano, qualcosa che aumenta la lontananza all'infinito.

Il comandante è fisso al periscopio, con la fronte contro la tabella di mira. Gli sta a sinistra la tabella che indica l'altezza delle soprastrutture di ciascuna nave nemica. Egli ha una veste di color marino. La sua faccia rasa è bruna; ma stranamente smorti sono i suoi piedi nei sandali di cuoio allacciati. Laggiù, a prua, i due siluri con le loro eliche e i loro timoni aspettano nei tubi di lancio. Le due teste di bronzo, cariche di tritòlo, aspettano nella camera stagna. S'ode la voce del comandante, la voce che ancóra è nella sua gola col suo soffio: «Accosta sempre a diritta. Quanto?» Un uomo dalla barba rossa è seduto vicino alla ruota del timone verticale. Risponde: «Centoquarantasei». È fisso, con tutti i lineamenti immobili, con le fulve ciglia senza battito, più vivo della vita e più morto della morte, simile a un ritratto magnetico….

Così il mio ricordo si converte in sogno, mentre coricato su i fiori funerei della barena, supino, attendo che si riparta.

Mi sovviene d'uno dei più lugubri orrori sorto dalla mia carne, mentre un giorno coi miei compagni, presso le chiuse di Sagrado, mangiavo allo scoperto, in un luogo battuto dal fuoco austriaco. Ciascuno di noi poteva essere sorpreso dalla morte col boccone in bocca, con la vivanda tra le mascelle mal masticata. Imagine d'animalità orrenda. Il pasto interrotto dal rantolo. Il sussulto del tristo sacco ripieno. Avevo già veduto un soldato riverso nella mota gialla della trincea, col rancio nel gozzo, col resto della gamella sparso nel sangue fumante. Un filaccico di lesso gli esciva dall'angolo delle labbra livide. La morte gli pigliava a un tempo il corpo e il cibo. Quegli che stava ingoiando, ecco, era ingoiato. La morte gli toglieva ogni bellezza, all'atto bestiale della nutrizione aggiungendo più di bestialità, fissando al limitare dell'eterno quel che è ignobile. Il compagno che gli chiuse le palpebre, gli nettò anche da quei rimasugli la bocca e il mento. La misericordia vinse la ripugnanza. Sempre vedrò quel gesto pietoso e atroce, quelle due dita ficcate tra i denti lordi del cadavere.

Verso mezzogiorno, il Jalea scende adagio sul fondo, per il pasto dell'equipaggio. I rumori si attenuano. Il motore elettrico è fermo. Sopra la camera del motore elettrico il boccaporto di poppa guarda coi suoi due occhi glauchi. Un salvagente dipinto di rosso v'è sospeso: una massiccia aureola.

Il manometro indica che la tomba d'acciaio è posata a tredici metri di profondità. Gli uomini mangiano, gli uomini masticano, ruminano. Qualcuno è svogliato e sonnolento. Il malvagio calore pesa intorno al capo come un elmo di scafandro. Il fondo è ignoto. Nessuno sa dove sia. Dianzi si navigava col periscopio immerso. Tutto il battello è ora una clessidra che gocciola. Gli attimi sono lenti e veloci. Sembra che si mettano d'improvviso a tintinnire. Ma è il tintinno dei campanelli.

Il Jalea si solleva dal fondo. Il manometro segna. La pompa sposta l'acqua da poppa a prua. L'acqua fa una specie di salmodia sorda circolando nelle intercapedini. Si risale a quattro metri e mezzo. Il cetaceo riacquista il suo occhio girante. L'uomo fulvo è di nuovo seduto al timone verticale. È fisso; non batte ciglio, non ingoia la saliva. È netto, lucido e spaventoso come certe figure dei musei di cera.

Sono le due del pomeriggio. Il mare è deserto e raggiante. Sonnecchiano le piccole città bianche intorno al golfo dove svaria la grana del vento. Un pescatore dorme supino su le tavole fracide del suo vecchio topo, laggiù, nella pace della laguna, alla proda d'una barena fiorita di santònico.

Vietri smonta di guardia al periscopio; e dalla camera di manovra si ritira nella camera dei tubi di lancio a prua. Ode la voce del comandante che ordina l'accostata per invertire la rotta. Un tuono improvviso lo stordisce, uno scroscio biancastro lo percuote. L'acqua gli si precipita addosso, lo fascia sino all'altezza delle spalle. Non ode nessun grido. La gente perduta non mette un grido né un lagno. Egli è tuttavia in piedi, con l'acqua alla gola. Percepisce nettamente lo scoppio degli accumulatori. Si tappa la bocca e il naso per non essere soffocato dal cloro che si sviluppa. Si avvicina alla paratia che lo separa dalla contigua camera degli ufficiali; ma presso la porta stagna trova ancor vivo il tenente di vascello Guido Cavalieri che gli grida: «È inutile andare a poppa. Cerchiamo di salvarci dal portello di prua».

Egli getta lo sguardo e l'anima verso poppa. Non ode nessun grido, nessun gemito. Il comandante Ernesto Giovannini è caduto al suo posto di comando. S'è coricato per dormire il suo sonno eroico tra il lido gradense e l'Istria sua. Portava sempre in cuore la vecchia cittadella della sua gente, l'imagine di Capodistria severa e soave, come la rappresentò per amore nella tavola dell'Ingresso Benedetto Carpaccio. Sempre vedeva nel cielo della sua speranza le code di rondine che fanno corona ghibellina al Palagio del Podestà, e la Cibele romana armata e alzata tra i due merli, e la porta della Muda aperta a un altro Ingresso, e i balaustri della fonte arcuata che sembra debba crescere e decrescere come la marea sotto un ponte di Venezia.

 

«Capodistria, succiso adriaco fiore!»

 

Pochi giorni innanzi, avendo a bordo come pilota il fuoruscito Nazario Sauro nato all'ombra della colonna di Santa Giustina, avvistava dalla torretta del Jalea emerso la città dei cinque Dogi, e la salutava prima d'immergersi; quindi, posato sul fondo di quei paraggi rimasto republicano e veneto come la Piazza Grande, si stendeva a fianco del pilota fraterno, beati entrambi in un medesimo sogno come se fossero per dormire sotto il voltone della scala comunale e per essere risvegliati all'alba dalle campane dell'arengo.

Ora egli dorme un poco più in su, più a tramontana, più a ponente. Col comandante, tutto l'equipaggio s'è coricato silenziosamente nella bara d'acciaio. Se l'acqua penetra per la falla d'una nave d'Italia, non mai vi penetra la paura, comunque lo squarcio sia largo.

Il silenzio è già sepolcrale, ma il sepolcro è ancora sospeso nel gorgo. Ciascuno dei sei viventi ha inciso nel cuore l'attimo in cui lo scafo tocca il fondo.

La volontà di vivere tien luogo di respiro. Vietri s'aggrappa alla scaletta per aprire il portello. Ma Ciro Armellino, il capo torpediniere, sopraggiunto, prima di lui riesce ad aprirlo e ad escire. Guido Cavalieri, il sottocapo Tullio di Biagio, un torpediniere, un marinaio salgono ed escono. Vietri, con la bocca chiusa, col naso tappato, aspetta che gli altri sieno scomparsi su per la colonna gorgogliante. Tanto è più tardo il tempo quanto è più rapido il cuore dell'uomo. Se il palpito si accelera, l'attimo si allunga. L'antichissima parola eroica, nata nel Mediterraneo, ecco che ha forza anche sottomare. «O cuore, sopporta.» Colui che è l'ultimo, è il primo. Egli solo è pari all'evento e all'elemento.

Prova sublime, rivelazione magnifica, là dove l'uomo sembra cancellato! Quel punto della profonda e irrespirabile solitudine, io voglio consacrarlo, celebrarlo. Quivi un cuore d'uomo oppone il battito misurato del suo potere a tutte le forze avverse. Tranquillo, accetta la lotta e la conduce. Fin dal principio è attento a non commettere errore alcuno. Deliberato a preservare la sua vita, egli si cura tuttavia degli altri prima che di sé. Ogni suo gesto è fraterno e generoso. Vuol portare il messaggio di sciagura alla riva ma non si antepone ai compagni. Se bene i cinque superstiti sieno di lui più esperti nel nuoto, egli spontaneo li soccorre, li conforta. Poiché la costa istriana è molto erta mentre l'avversa è al livello del mare, egli si crede esser molto più vicino all'Istria che a Grado; ma non esita a dirigersi verso la sua riva, stimando esser meglio giunger morto alla sua gente che darsi vivo al nemico. Ogni suo movimento ha origine in una virtù vera che è la sua sostanza medesima, la sua midolla, l'osso della sua schiena. Vi sono forse gesta di marinai nostri più splendide, quasi baleni d'eroismo, su i ponti delle navi sottili, ai pezzi delle batterie sbarcate. Ma in questa avventura di naufrago si rivela una perfezione di disciplina così alta che può servire d'esempio agli equipaggi più induriti. Nel mezzo del golfo che è nostro, in fondo al mare irto d'insidie, su da uno scafo squarciato, ecco che sorge per i marinai d'Italia un monumento invisibile ma perpetuo. «Sopporta, o cuore.»

Questo dramma sottomarino è d'una brevità e d'una novità non eguagliate da alcun altra delle tragedie navali conosciute. Le persone del dramma sono vestite d'acqua sino al collo. I corpi sono già ingoiati dall'abisso; ma le sei maschere umane respirano ancóra allo stesso livello, nell'aria che comprime la massa irrompente e le impedisce di invadere tutto lo spazio chiuso. La mia imaginazione vede quei sei respiranti teschi decapitati dal filo dell'acqua, e non riesce a rilevare i loro lineamenti né a rischiararli di quel chiarore incognito. Li cerco invano nel tranquillo occhio nero del superstite che forse ne serba l'imagine ma non l'esprime. Non so che avida violenza è nel mio sguardo, come per sforzare quel taciturno a rievocare il momento indicibile, come per comunicare l'acuità dei miei sensi a quel sobrio narratore. Che accadde quando il portello di prua fu aperto e il primo uomo balzò fuori e gli altri lo seguirono risalendo dal profondo verso la luce che a mano a mano cresceva? Vietri fu l'ultimo ad abbandonare lo scafo squarciato. La vita non v'era del tutto spenta. Pochi attimi innanzi, il comandante era stato intraveduto ancora in piedi. Il resto dell'equipaggio non aveva dato grido né segno, ma forse laggiù nella tenebra qualche gola palpitava tuttavia. E v'era tuttavia l'ultimo dolore delle cose, l'aspetto estremo delle cose che non hanno più potere, che non servono più, che non indicano più nulla, che non misurano più nulla: il portavoce, il tubo del periscopio, i cinque tubi della pompa, i tre segnali rossi, la lampadina della bussola, i quadranti degli indicatori, le ruote dei timoni, la bandiera avvolta…. Il manometro grande aveva segnato i metri di profondità? aveva misurato di metro in metro la discesa del sepolcro? V'era là, in quegli ultimi attimi, un odore, un rumore, un silenzio, un'ombra, una figura finale, una faccia della sorte, un'estremità immaginabile che questi giovani occhi videro e che nessun altro mai vide né vedrà mai. La poesia in me trema e si vela.

Ora le cinque teste umane, l'una dopo l'altra, emergono a fiore del mare deserto. Si contano. Una chiazza oleosa li ha preceduti. Ecco Vietri a galla: respira; si netta il viso con una mano; sente nel torace i suoi polmoni e il suo cuore; sente sotto il cranio il suo cervello maschio. Tutto in lui è sano e pronto. Sùbito le sue forze si equilibrano, la sua mente s'aguzza, la sua bontà si offre. E tutto il suo coraggio si quadra nella disciplina.