Questo mi fu raccontato ieri, prima di sera, sul pontone piatto che la bassa marea lasciava in secco a poco a poco, mentre udivamo intorno bruire la vita nascosta delle sabbie e a quando a quando il chiù rammaricarsi nelle macchie litorali fiorite di ginestrelle e di giunchi marini, mi fu raccontato da Desiderio Moriar, squisitissimo artista ignudo di opere e di fama; il quale con me sa come nel vivere, ancor più che nel leggere, nulla valga quanto l'abito dell'attenzione.
Ma egli ha una voce che somiglia a una di quelle giornate torbide di marzo, tutte sprazzi argentini, ventate subitanee, rovesci d'acqua e di gragnuola, pause piene di melodia, dove le cose non nate sembrano aver più potenza che le cose già venute in luce. E questa sua voce passa per una bocca avida e scontenta come d'un bimbo ghiotto che con un soldo falso e gobbo s'indugi davanti alla vetrina del pasticciere. E su certe parole i suoi occhi bruni si muovono tra il battito dei cigli con una inquietudine che sembra accendere una stilla di sangue nell'angolo delle palpebre verso il naso, come quel tòcco vivo di cinabro che si vede in certi ritratti manierati; oppure talvolta pare che ritraggano a sé lo sguardo e galleggino su non so che acqua di sogno come due gusci lisci di nocciuola.
Né, veduto di fronte, egli è lo stesso uomo che si mostra di profilo: a una sensualità avventurosa, insofferente di costrizione ma intesa a scegliere pur nella sua subitezza, egli sembra volgendosi opporre l'abnegata volontà di chi senza fallo scopre il medesimo orrore vuoto sotto i più facili e i più difficili capricci della vita. Le sue belle mani, a volta a volta nervose come quelle del grande violinista tra archetto e tastatura o disossate e morbide come quelle del famoso sarto in punto di provare il vestito alla dama, con un gesto brusco fanno di tratto in tratto scrocchiare le dita parendo saggiare il tono dello scheletro celato. Allora certe rapide onde sensitive, palesandoglisi al pomello della gota, alla tempia, al mento, mi ricordano la pelle troppo fina dei cavalli di sangue e qualche volta anche il muso comico dei conigli.
Or che mirabile strumento animato per rilevar con un gesto, con un accento, con una pausa, con un cenno, con uno sguardo i valori delle cose visibili e invisibili!
Egli diceva iersera, per quel misto di fanciullaggine e di magìa: «La notte non è onnipresente e perpetua? Se chiudo il pugno, sotto il pieno meriggio, ecco, faccio la notte nel cavo della mia mano». Così, narrando, egli mi faceva sentire di continuo quella meravigliosa oscurità su cui si disegnano le forme e gli eventi, quella divina ombra che riempie la piega d'una gonna o la fessura d'un cuore.
Disperando d'imitare pur lontanamente l'arte sua viva, nel riferire taluno de' suoi racconti io mi studio d'imaginarmi che il caso sia seguìto a me medesimo.
Ero in una di quelle giornate di tedio, che si dice sieno state inventate per le nature ambigue dal precettore di Nerone, quando la virtù attiva della vita si ritrae dai cerchi dell'anima come l'acqua dalle gore d'una gualchiera o d'un mulino lasciando a secco i fossi ingombri di rottami e di lordumi intorno ai congegni inerti.
Par di fiutare in ogni pensiero un odore di melma in fermento. Il corpo stesso è come sguainato e stroncato: cerca di sostenersi, di appoggiarsi, di trovar requie in qualche attitudine durevole; ma somiglia quei vecchi crocifissi mancanti della croce, che nelle botteghe degli antiquarii sembran rinchiodati a supplizio in qualunque luogo e contro qualunque arnese si ritrovino.
Anche la stagione secondava tale miseria; ché pioveva e non pioveva, nella Landa. Una nuvola bucherata spruzzolava un tratto di sabbione con gocciole grosse e rade che, per esser quasi tiepide, parevan cadute da uno schiumatoio. Ma di là dalla banda annaffiata s'intravedeva la sabbia secca, e più in là un'altra spruzzaglia, e più in là un'altra lista di alido; cosicché anche la terra pareva in malessere come quelle donne incinte che si sentono la pelle a chiazze fredda e calda, qualcosa d'informe dentro sobbalzando in una profondità indefinita.
Stavo per lasciare dietro di me, al cancello d'un giardino, una di quelle dolci e noiose creature che, all'incontro della giovenile visione di Dante, si ostinano di tener senza fine su le braccia il loro amore esanime «involto in un drappo sanguigno leggiermente» per non potersi mai risolvere a seppellirlo, e si sforzano di farci mangiare «per ingegno» il loro caro cuore che pur non arde. Vide cor meum.
Udivo il suono della lamentazione consueta come quel ronzio che il chinino lascia nell'orecchio del malato di febbri dopo l'accesso. E non istavo né dentro né fuori; ché la pietra della soglia era tra noi, cosparsa di pòlline giallo. E vedevo quella farina selvaggia attaccarsi alla pittura recente del cancello nuovo, riempiere gli interstizii, involgere una bolla di gomma che in una traversa di quel legno di pino non interamente morto si gonfiava a quel modo che la vescica s'alza nel palmo d'una mano avanti d'incallire.
Un vasetto di coccio sospeso a un tronco scorticato aveva ricevuto d'un tratto tanta ragia, al primo muovere del succhio, che ne traboccava in lunghi filamenti d'apparenza quasi zuccherina, sicché metteva voglia di darla a masticare per impiastrarne la lingua molesta e invescare contro al palato le parole importune. Sotto la mollezza d'una nuvola latticinosa e irresoluta gli uccelli qua e là stonavano come gli alunni svogliati d'una scuola corale. E tutta la vita m'aveva l'aria di una di quelle sciocche allegorie che un tempo il maestro di retorica proponeva su la lunga panca dell'esame. L'avevo così mal composta che, per punizione, ero costretto a portare il foglio appiccato con due spilli dietro la schiena.
Allora, scendendo verso il Quartiere d'inverno per i sentieri della foresta, pensai con invidia a quei rari pastori landesi, ultimi discendenti de' vecchi fantastici che su gli alti trampoli varcavano stagni e pantani del deserto arenoso e co' gran passi potevan eguagliare il galoppo d'un cavallo de' Pirenei.
Ne avevo conosciuto uno nella macchia, pochi giorni innanzi. Ridotta la misura delle pertiche leggendarie a due modesti mozziconi. messi ad armacollo l'ombrello verdognolo e il sacchetto brunastro, calcato su gli orecchi il berretto di lana in forma di fungo, costui passava tutto il santo giorno immobile contro il sostegno del bastone, lavorando di calzette coi ferri, immune di pensieri come il suo cane, indifferente alla fuga del tempo come dev'essere l'ampolla dell'oriuolo da polvere, con la sua lingua riposta per anni nel silenzio della sua saliva come la sardina conservata nell'olio della scatola.
Lungi dagli occhi amati o non più amati, la luce pare diversa.
Per entrare nella nostra camera, il cielo aspetta che le lampade sieno spente.
Tra le raschiature fresche dei pini (in distanza i fusti avevan l'aria di portare inchiodate quelle pelli rossigne di capretti che soglion pendere agli usci dei macellai) scorgevo la città variopinta dell'Etisìa covata da un tepore umidiccio di stufa alquanto disgustoso come quello che si respira in certi bagni turchi trasportati in Occidente, ove gli uomini grassi s'affannano a sudare leggendo il giornale della loro fede spiegato su la pancia grondante.
Le ville parevano leggiadramente costruite di carton pesto e di latta traforata da un architettorello girondino con pizzo al mento e svolazzo alla cravatta, che si fosse ingegnato di conciliare nell'arte sua ospitale l'inspirazione della Riviera ligure a quella del Lago dei Quattro Cantoni, entrambe consolatrici. Ogni facciata portava inscritto in lettere di stil novo il suo bravo nome fornito dalla mitologia, dalla botanica, dai fasti civici o dalla buaggine sentimentale. Ogni interno doveva avere il suo vaso di fiori artificiali sotto la campana di cristallo, la sua grossa conchiglia bitorzoluta, la sua figurina di Giovanna d'Arco in armatura di piombaggine, e la sua pendola col cuccù per chiamare la felicità o la morte.
Cumuli di ciarpe e di coperte, sollevati di tratto in tratto da uno schianto di tosse, riposavano su lunghe sedie di vimini, di là dai vetri nettissimi che come quelli degli aquarii parevano chiusi sopra un mondo remoto. Su la via bianca una fila interminabile di bruchi, discesa chi sa di dove, camminava verso l'eternità con la contrattura lieve e spaventevole delle sue miriadi d'anelli. Qualcuno dei loro nidi lanuginosi in cima a qualche ramo dava imagine d'una mano malata avvolta di filacce. Un pianoforte lassù, che aveva ereditato l'anima di un organetto di Barberìa suo parente, sonava uno di quei pezzi che portano un numero su ogni nota per condurre ciascun dito al suo tasto; e non so quale avo romantico risvegliandosi in qualche parte di me si mostrava curioso di sapere se la copertina s'ornasse d'una gondola nera o d'un salice piangente o d'un'arpa ossianica in litografia e se il titolo fosse: «Il sospiro dell'Esule» oppure «Il giovine schiavo» oppure «Ultimo giorno di Maria Stuarda».
Un pensiero atroce e puerile mi passò pel cervello: «Se ora getto un grido, tutti i malati si precipitano alle finestre, e mi restano là con i loro visi eguali e bucati come i sugheri che pendono dalla sciabica stesa ad asciugare dopo la pésca.»
In una finestra senza cortine, dietro il vetro si levò un che di simile a un gesto bianco che scacciasse un moscone o che mi chiamasse. Certo, non altro che un sottil vetro mi separava dalla morte, e quella mano ignota stava per romperlo.
Mi ricordai che un mio cugino a Nizza ebbe la ventura d'essere meravigliosamente amato per tutto un pomeriggio, fino alla sera, da una canonichessa di Cracovia, che poi spirò nella notte.
Ma la porta della mia donna eletta e perduta era chiusa; e nel piccolo giardino una serva in cuffia e in zoccoli insaponava un can barbone color castagno che pareva stingere sotto la schiuma come fosse di cioccolata, mentre l'acqua sporca colava giù per la viottola nella strada, verso me, simile a una mano deforme che palpasse in terra e s'allungasse e s'allargasse cercando qualcosa che io avessi perduta.
Non sapevo che.
M'aspettavo che qualcuno di dietro mi dicesse con zelo: «Signore, guardi, si volti; ha perduto la tal cosa.» Ma nessuno fiatò; né quella mano colante si levò a restituirmi la cosa: seguitò a palpare più lontano, fino al rigagnolo, disturbando un conciliabolo di bruchi radunati sotto una specie di canavaccio che poteva somigliare tanto a una spoglia di serpe quanto alle cellette d'un favo votato e disseccato.
Un carrozzino a forma di cesta intanto mi veniva incontro su tre ruote, sospinto da un uomo baffuto e brizzolato che compieva quell'officio con la dignità propria dei reduci dalle patrie battaglie e dei salvatori di professione addetti agli annegamenti e agli incendii. Una vecchia signora v'era distesa, che nel suo aspetto di moribonda serbava non so che luccichìo di furore in due pupille ostili all'Universo, sporgenti in sommo di due borse grinze che ricordavano la ferocia del polpo legato al suo triste sacco e non si sapeva per qual mai accidente mancassero degli otto tentoni guerniti di ventose. A due passi da me il carrozzino s'arrestò così inaspettatamente che sobbalzai.
Una riga di bruchi attraversava la strada; e il degno spingitore - chi sa per qual movimento di pietà, di ribrezzo o di superstizione - cercava un modo ingegnoso d'evitare la strage. Com'egli di dietro pontava su l'orlo della cesta perché la ruota davanti si sollevasse, la vecchia sentendosi sballottare ritrovò tutti i suoi spiriti per schizzare contro il gaglioffo l'acredine dei suoi due polpi senza tentoni. La ruota ricadde e tagliò il lungo budello villoso e molle. Le altre due ruote e le due scarpe seguaci compirono il tagliamento.
Per disgusto volgendomi, vidi dietro una palizzata un ragazzo che rideva da due minuti occhi porcini affondati in una faccia enorme e lustra sul punto di scoppiare come se dalla nuca forata qualcuno seguitasse ad insaccarvi sugna e carne pesta.
La carogna brulicante d'un can bastardo in un immondezzaio non è spettacolo quasi ricreativo al confronto di certe apparizioni della bruttezza umana vestita di panni?
Una gran folata di vento mi passò sul capo: uno di quei fiati subitanei che sembrano venire dal miracoloso confine d'un'altra vita non conoscibile se non talora indistintamente per certi baleni del ricordo o bagliori dell'ansia, quando lo spirito, forse memore, forse presago, si dibatte invano per sottrarsi alle abitudini, alle manìe, alle bugìe, alle smorfie, alle paure, alle infezioni senza numero ond'è composta la nostra vita.
Il pòlline pareva fumigare dai rami scossi e dorare di sé la nuvola dilacerata che mi lasciò scorgere d'un tratto il più angelico tra i visi dell'aria per mezzo a due lembi simili a due bende di lino spolverate da quell'oro silvano.
E, prima di udire la nota inesperta di un usignuolo novizio, sentii che il pino al passaggio del soffio si gonfiava di musica, dal pedale alla vetta, come uno strumento a fiato.
E bastò quella nota gracile perché tutto si mutasse.
Allora m'affrettai verso la città, pensando che forse la musica era per interpretare l'enigma di tutte quelle figure introdotte in me da non so che senso crudele aggiunto alla vista normale.
Un giovine sonatore di cembalo, escito dalla Schola Cantorum, educato alla grazia e alla forza degli antichi cembalisti italiani, mi aveva scritto con fiera gentilezza che nel suo concerto di quel giorno avrebbe sonato per me solo.
Ottima cautela, del resto, perché, entrando nel Casino, m'accorsi come la più gran parte dei porci paesani - more biblico - non fosse stata attratta dalle margherite.
Gli uditori erano scarsissimi nella vasta sala tutta senza risparmio dipinta in quello stile turchesco che ha la virtù d'infiammare la fantasia dei sottuffiziali nei parlatorii dei bordelli. Non mancava se non il profumo delle famose pastiglie dette del Serraglio. L'Euterpe locale, donna ossuta e brusca, posta a guida d'ogni raro uditore verso la sua seggiola, cacciando di tratto in tratto la mano nella tasca del grembiule faceva sperare che fosse per prendere una di quelle pillole odorifere e per abbruciarla nel polito scodellino delle mance; ma ogni volta il gesto era seguito dalla delusione.
S'udì scrosciare un nuovo rovescio su la vetrata del soffitto; ed ecco, lo spirito agile dell'acqua parve penetrar nell'ombra squallida, con non so che di fragranza terrestre di gioia.
Le pareti s'apersero; la gran carcassa di ferro, di legname, di stucco e di vernice fu portata via da un sol colpo di vento, quasi fosse un mucchietto d'aghi di pino su la spiaggia battuta dall'Atlantico.
Chiare fonti repentine scoppiarono da ogni parte come in quel luogo quieto del barco ove l'ospite con un sorriso misterioso conduce gli invitati senza sospetto e non visto volge la chiave nascosta nella faretra d'un Cupìdo per muovere i giochi e i tradimenti dell'acqua.
Su dall'erba rasa, di tra i cespugli simmetrici, di tra i bossi tonduti, dalle mammelle delle naiadi, dalle conche dei tritoni, dai dorsi dei delfini, dalle gole delle rane di bronzo acquattate presso i sedili o alla soglia delle grotte, dalle modanature dei balaustri lungh'esse le terrazze e le scale, dalle cupole dei tempietti e dalle arcate dei passeggiatoi, da ogni parte i getti spicciano sprizzano bàlzano schioccano perseguono percuotono formidabili come nell'imboscata le spade gli stocchi le picche.
Dame e galanti strillano ridono corrono si schivano si salvano.
Ma in ogni rifugio, in ogni nascondiglio è l'insidia della fresca persecutrice; ecco uno schizzo obliquo nella nuca, nell'orecchio, tra le spalle; ecco una polla bassa che suona sotto il verdugale come un batacchio in una campana sorda; ecco uno stroscio rude che rapisce una parrucca, l'immola, la sparpaglia, ne fa quasi un fiocco della sua spuma.
Amarilli fuggendo inciampica in un cespo di rose, cadendo bocconi le sfoglia e si punge. La malizia degli zampilli l'assale, come uno stormo di gnomi trasparenti e saccheggia la sua leggiadria inerme. Una piuma, un velo, un nastro, un nodo d'amore, un neo di taffettà, un pettine di scaglia, una scarpetta di tela d'oro, ogni spoglia leggera danza in cima d'ogni zampillo come tal uovo forato e votato; e anche una foglia verde, un petalo bianco, una spina bruna.
«Aita! Aita!» Il cavalier Palamede non s'indugia, non si volge, non ode; se la dà a gambe con gran tintinnio di ciondoli, con la coda di traverso, con le calze appiccicate alle insigni polpe, con in mano il fodero floscio dello spadino smarrito.
Tutti e tutte fuggono strillando, soffiando, lungo le spalliere di càrpini, verso la gradinata di marmo carnicino, come un branco misto di paperi e di cigni cacciato fuor dal suo laghetto da uno spavento improvviso.
Già si credono in salvo e si scrollano le fuggitive, quando le piccole sfingi di marmo carnicino, ben pettinate e savie come damigelle di compagnia, riposanti su due branche dagli ugnòli inoffensivi, prendono a soffiar dalle bocche senza enigma larghi ventagli d'acqua che s'incrociano per tutta la scala.
Ricomincia la fuga venusta; e la scala sembra che si prolunghi come quella di Giacobbe, verso il cielo soave d'occidente ove le spole delle rondini tessono il velo violetto della Malinconia.
Ed ecco la prima collana di perle si rompe sgranellandosi: gli acini ruzzolano giù per i gradini lisci e rosei che l'acqua discende in minuscole cascate.
Si rompe la seconda (di sette fili?); si rompe la terza (di ventun filo?) e un'altra, e un'altra ancora, senza novero.
Le perle si moltiplicano, simulano una grandine mite, scorrono per ogni verso, rilucono, risonano, rimbalzano, si mescolano ai rivoli, ora sembrano le bolle preziose dell'acqua, ora le gocciole della bellezza grondante.
E, come cessano le sfingi di soffiare, i pavoni appollaiati nei càrpini si levano con uno strido; vengono su la strada come attratti dal becchime inatteso; inseguono i grani trascinando sul marmo umido i loro chiusi flabelli.
Ed ecco, chi sa donde, uno stuolo soffice di gatti d'Angola, e bianchì come la panna e grigi come il fumo, dagli occhi rossi, dagli occhi cilestri.
Ed ecco, chi sa donde, uno stuolo di bertucce nere e lustre come il giaietto, dalle manine pallide e grinzose, con un campanello d'oro alla coda.
E i mici e le monne inseguono le perle sonore, le fermano, le afferrano, se le mandano e rimandano, scherzando, ruzzando, rissando, con atti con gesti con cenni di grazia sempre facile e nuova.
E lassù le collane si spezzano, si sfilano, si sgranellano ancóra, quasi che per prodigio lassù il riso carnale della Giovinezza si cangi in quei disciolti monili trascorrenti e irrecuperabili. (Nel rosaio, laggiù, Amarilli ha perduto i sensi? o ha reso l'anima?)
Erano le sonate di Domenico Scarlatti.