Non so se da molto durasse il sopore della stanchezza, quando la mia anima risalì nei miei sensi col tumulto d'una moltitudine percossa da un allarme improvviso. Mi ritrovai levato su i gomiti, pieno d'una pulsazione fragorosa, con gli occhi spalancati nel buio, inconsapevole del tempo, del luogo e della sorte, come colui che si sveglia per morire nella casa che crolla. Secondo la consuetudine, la finestra era aperta; e indovinai l'approssimarsi dell'alba dal colore del cielo stellato. La frescura mi placò. Mi ricoricai supino, vigilando.
In nessuna riva la malinconia del mondo fluttua come su questa dell'estremo Occidente, al principio d'ogni nuovo giorno. Il gallo della Landa ha il canto roco e lugubre, come se si ricordasse di discendere da quello ch'era consacrato a una divinità concepita dalla Notte senza il soccorso d'alcun altro iddio. L'uomo, che quel canto risveglia, si sente ombra, prima di riprendere il peso del suo corpo per ritrascinarlo alla sua pena.
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Di nuovo la stanchezza mi vinse.
Come la gran luce mattutina mi riscosse, sùbito mi ricordai d'aver promesso un saluto alla madre del mio amico. M'affrettai per non perdere l'ora, e portai meco un mazzo di violette.
S'era levato il vento di ponente in un cielo intrepido, pieno di fecondità, di migrazioni e di ritorni.
«Forse non parte» pensavo, rivedendo la sua bocca amara, riudendo il suo riso stridulo. «Non parte più.»
Ma un altro spirito, ricordandosi dello schianto di dolore che aveva lacerato le fibre dello strumento, mi diceva: «Parte. Se ne va. È vinto».
E io avevo velato dentro di me l'enigma di quell'antica e novella faccia dai larghi piani fortemente connessi come in una testa di Re pastore intagliata nel basalte. Attendevo da non so quale orizzonte non so qual messaggio, per disvelarlo e rimirarlo senza paura.
Entrai sotto la tettoia squallida. Il treno era fermo su le rotaie, nero, stupido e massiccio. Sopra un lungo banco erano accumulate certe gabbie di canna piene di polli tramortiti. Il viso d'ogni creatura umana pareva portare un marchio di servitù e d'onta. Il gallo della Landa aveva cantato per costoro.
Camminavo lungo le vetture in cerca del mio amico e di me, quando lo scopersi ripiegato contro la spalla della madre, cereo, come intorpidito da un narcotico, là, con le gambe flosce, con un po' del bianco degli occhi apparente fra le palpebre mal chiuse. Un gesto della vecchia signora prevenne l'importunità d'ogni mia parola, d'ogni mio atto. Ella si chinò con influita cautela verso me, evitando di riscuotere il figlio; e mi bisbigliò:
- Stanotte s'è uccisa.
Questo mi fu raccontato da Desiderio Moriar.
Come il racconto parve giunto alla fine ed egli taceva fisso al banco di sabbia mediano (pallida lacca senza asfodeli e senza vestigi, che apparteneva al mondo di giù) io gli domandai:
- Poteste vederla sul letto di morte?
- La vidi - rispose.
- Aveva il viso intatto?
Accennò di sì, chinando il capo; e le sue mani tremavano un poco, su le sue ginocchia.
Osai aggiungere, a bassa voce:
- E com'era il suo viso allora?
Egli fece la notte in sé, coprendosi la vista con le palme; e restò silenzioso.
Il riflusso aveva lasciata scoperta l'immensa spiaggia; e l'acqua bassa non respirava più, ma immota rispecchiava il cielo immoto. I canali, i banchi, le dune, le lunghe lingue sottili, i capi protesi, le macchie basse, tutte le interne linee secondavano quella dell'orizzonte oceanico, per obbedire a un ritmo di perfezione sublime non consentito agli uomini se non nella sola ora che segue il transito.
In un silenzio eguale alla nudità perfetta, la bellezza dell'Occidente stava supina.
Nella Landa, giugno 1913.