Su questo cammino, sarebbe vano agitarsi e cercare di attirare quelli che hanno delle velleità, come passare il tempo, ridere o diventare individualmente bizzarri. Bisogna avanzare senza guardare indietro e senza tener conto di quelli che non hanno la forza di dimenticare la realtà immediata.

La vita umana è stremata di servire da testa e da ragione all’universo. Nella misura in cui diventa questa testa e questa ragione, nella misura in cui diventa necessaria all’universo, essa accetta una schiavitù. Se non è libera, l’esistenza diventa vuota o neutra e, se è libera, è un gioco. La Terra, finché non generava che cataclismi, alberi o uccelli, era un universo libero: il fascino della libertà si è offuscato quando la Terra ha prodotto un essere che esige la necessità come una legge al di sopra dell’universo. L’uomo è tuttavia rimasto libero di non rispondere più ad alcuna necessità, libero di assomigliare a tutto ciò che non è lui nell’universo. Può allontanare il pensiero che è lui o Dio che impedisce al resto delle cose di essere assurdo.

L’uomo è sfuggito alla sua testa come il condannato alla prigione. Ha trovato al di là di se stesso non Dio che è la proibizione del crimine, ma un essere che ignora la proibizione. Al di là di ciò che io sono, io incontro un essere che mi fa ridere perché è senza testa, che mi riempie di angoscia perché è fatto di innocenza e di crimine: tiene un’arma di ferro nella mano sinistra, delle fiamme simili a un sacro cuore nella mano destra. Riunisce in una stessa eruzione la Nascita e la Morte. Non è un uomo. Non è neppure un dio. Non è me, ma è più di me: il suo ventre è il dedalo nel quale lui stesso si è perduto, mi perdo con lui e nel quale io mi ritrovo essendo lui, cioè mostro.

 

Ciò che io penso e che rappresento, non l’ho pensato né rappresentato solo. Io scrivo in una piccola casa fredda di un villaggio di pescatori, un cane abbaia nella notte. La mia camera è vicina alla cucina dove André Masson si agita felicemente e canta: nel momento in cui io scrivo così, egli ha messo su un fonografo il disco dell’ouverture del «Don Giovanni»: più di ogni altra cosa l’ouverture del «Don Giovanni» lega ciò che mi è toccato di esistenza a una sfida che mi apre al rapimento fuori di sé. In questo istante stesso, io guardo questo essere acefalo, l’intruso che due ossessioni ugualmente travolgenti compongono, divenire la «Tomba di Don Giovanni». Quando qualche giorno fa ero con André Masson in questa cucina, seduto, con un bicchiere di vino in mano, allorché lui, immaginandosi la sua morte e la morte dei suoi, gli occhi fissi, soffrendo, gridava quasi che bisognava che la morte divenisse una morte affettuosa e appassionata, gridando il suo odio per un mondo che fa pesare fin sulla morte la sua zampa di impiegato, io non potevo già più dubitare che la sorte e il tumulto infinito della vita umana non siano aperti a coloro che non potevano più esistere come occhi scoppiati ma come veggenti trasportati da un sogno sconvolgente che non può appartenergli.

 

Tossa, 29 aprile 1936.