Il valore d’uso di D.A.F. de Sade
(Lettera aperta ai miei attuali compagni)

 

 

 

Se credo bene rivolgermi in questa lettera ai miei compagni, non è che gli argomenti che contiene li riguardino. Anzi, sembrerà loro probabilmente che simili argomenti non riguardino in particolare chichessia. Ma in questo caso ho bisogno di prendere almeno qualcuno a testimone per constatare una defezione così completa. Ci sono forse dichiarazioni che in mancanza di meglio hanno ridicolmente bisogno di un coro all’antica, perché suppongono, malgrado tutto come effetto un minimo di stupore, di malinteso o di ripugnanza. Ma non ci si rivolge a un coro per convincerlo o per allinearlo ma tutt’al più per non subire senza rivolta il verdetto di un fato che condanna il dichiarante al più triste isolamento.

Questo isolamento, per ciò che mi riguarda è d’altronde parzialmente volontario, in quanto non accetterei di uscirne che a condizioni difficilmente realizzabili.

Perfino il fatto di scrivere, che solo permette di concepire dei rapporti umani un po’ meno convenzionali, un po’ meno subdoli di quelli delle cosiddette amicizie intime — perfino questo fatto di scrivere non può lasciarmi una speranza apprezzabile. Dubito della possibilità di raggiungere le rare persone alle quali questa lettera è senza dubbio destinata, al di sopra delle teste dei miei attuali compagni. Perché — la mia risoluzione è tanto più intransigente quanto è assurda da difendere — sarebbe stato necessario avere a che fare non con degli individui uguali a quelli che conosco già, ma solamente con uomini (e soprattutto con masse) al confronto decomposti, divenuti amorfi e perfino espulsi con violenza fuori da ogni forma. Ora, è verosimile che tali uomini non esistano ancora (e le masse non esistono certamente).

Tutto ciò che posso sostenere è che non mancheranno di esistere una volta o l’altra, dato che i legami sociali attuali non tarderanno a disfarsi incapaci come sono di protrarre ancora per molto l’asservimento abituale dei caratteri e dei costumi. Le masse saranno decomposte a loro volta quando vedranno scomparire il prestigio della realtà industriale alla quale erano legate, cioè quando il processo di progresso materiale e di trasformazione rapida al quale hanno dovuto partecipare (sia docili che ribelli) arriverà a un ristagno sgradevole e senza uscita.

La mia risoluzione è dunque indifendibile solamente perché elimina — non senza rancore — ogni soddisfazione immediata.

Al di fuori di affermazioni che non potrebbero acquistare un senso che per effetto di conseguenze molto generali, si dà il caso d’altronde che sia ormai tempo per me di soddisfare — con poca spesa — una parte di questo rancore: è possibile sbarazzare almeno il terreno ristretto, su cui la discussione si trova fin da ora impegnata, dal vecchiume intellettuale che abitualmente lo ingombra. È evidente, infatti, che se degli uomini incapaci di istrionismo succedono a quelli di oggi, essi non potranno meglio rappresentare la paccottiglia fraseologica che era in auge prima di loro, che ricordando la sorte riservata da un certo numero di scrittori alla memoria di D.A.F. de Sade (d’altronde apparirà forse molto presto, nel senso più generale, che il fatto di ricorrere senza ragione a uno sproloquio letterario o poetico, l’incapacità di esprimersi in modo semplice e categorico, non soltanto rivelano una volgare impotenza, ma tradiscono sempre una ipocrisia pretenziosa).

Ben inteso, io non faccio allusione così alle varie persone che gli scritti di Sade scandalizzano, ma soltanto agli apologisti più aperti. È sembrato conveniente oggi mettere questi scritti (e con essi il personaggio dell’autore) al di sopra di tutto (o quasi) ciò che è possibile opporre loro: ma è escluso che si possa far loro il più piccolo posto, tanto nella vita privata che nella vita sociale, tanto nella teoria che nella pratica. Il comportamento degli ammiratori riguardo a Sade assomiglia a quello dei sudditi primitivi nei riguardi del re che adorano esecrandolo e che coprono di onori paralizzandolo strettamente. Nel caso più favorevole, l’autore di Justine è effettivamente trattato come un corpo estraneo qualsiasi, vale a dire che egli non è oggetto di un trasporto di esaltazione che nella misura in cui questo trasporto ne facilita l’escrezione (l’esclusione perentoria).

La vita e l’opera di D.A.F. de Sade non avrebbero dunque altro valore d’uso che il valore d’uso volgare degli escrementi, nei quali non si ama molto spesso che il piacere rapido (e violento) di evacuarli e di non vederli più.

Così sono portato a indicare come in una visione del tutto inconciliabile con questo modo di impiego, il sadismo, che non è soltanto una concezione totalmente altra rispetto a quella che esisteva prima di Sade, appare positivamente da una parte come un’irruzione delle forze escrementizie (violazione eccessiva del pudore, algolagnia positiva, escrezione violenta dell’oggetto sessuale proiettato lontano o suppliziato al momento dell’eiaculazione, interesse libidinoso per lo stato cadaverico, il vomito, la defecazione…) — d’altra parte come una limitazione corrispondente e come un asservimento stretto di tutto ciò che si oppone a questa irruzione. È in queste condizioni concrete solamente che la triste necessità sociale, la dignità umana, la patria e la famiglia, i sentimenti poetici appaiono senza alcuna maschera e senza alcun gioco di ombra o di luce; è infine impossibile vederci altro che delle forze subordinate: tanti schiavi che lavorano vilmente a preparare belle eruzioni tonitruanti, le sole capaci di rispondere a bisogni che tormentano le budella della maggior parte degli uomini.

Ma dato che Sade ha esposto la sua concezione della vita terrestre nella forma più oltraggiosa (dato anche che non è possibile esporre immediatamente una simile concezione altro che in forma terrificante e inammissibile) non è forse sorprendente che si sia creduto di potersi tenere fuori della sua portata. I letterati hanno apparentemente le migliori ragioni di non confermare una apologia brillante, verbale e gratuita con una pratica. Potrebbero perfino sostenere che Sade ha preso cura per primo di ambientare il campo da lui descritto al di fuori e al di sopra di ogni realtà. Potrebbero facilmente affermare che il valore folgorante e soffocante che ha voluto dare all’esistenza umana è inconcepibile fuori della finzione; che solo la poesia, immune da ogni applicazione pratica permette di disporre in una certa misura della folgorazione e del soffocamento che cercava di provocare così impudicamente il marchese di Sade.

È giusto riconoscere che, anche praticato nella forma implicita che ha conservato fin qui, un simile deviamento resta di natura tale da squalificare i suoi autori (per lo meno rispetto a quelli — avessero pure in orrore il sadismo — che rifiutano di interessarsi, per cattive quanto per buone ragioni, a delle semplici prestidigitazioni verbali).

Resta sfortunatamente il fatto che questo deviamento ha potuto per tanto tempo essere praticato, senza denuncia, al riparo di una fraseologia abbastanza povera, semplicemente perché ha luogo nella direzione in cui sembra che tutto sfugga… È certamente quasi inutile adesso enunciare delle massime conseguenti perché non possono essere riprese che a vantaggio di qualche iniziativa comoda e — anche sotto apparenze apocalittiche — integralmente letteraria: cioè alla condizione di essere utili a delle ambizioni commisurate all’impotenza dell’uomo attuale. La più piccola speranza impegna effettivamente la distruzione (la sparizione) di una società che ha lasciato così ridicolmente la vita a colui che la concepisce.

Il tempo mi sembra nondimeno venuto di giocare — sotto gli occhi indifferenti dei miei compagni — su un futuro che non ha, è vero, dalla sua che una sciagurata esistenza d’ordine allucinatorio. Per lo meno l’atto di disposizione che io credo possibile fare intellettualmente per oggi di ciò che esisterà realmente più tardi è il solo legame che unisca le proposizioni preliminari che seguono a una volontà rimasta malata di agitazione.

Per adesso un enunciato abrupto e non seguito da spiegazioni mi sembra rispondere quanto è possibile al disorientamento intellettuale di coloro che potrebbero avere occasione di prenderne conoscenza. E (benché io sia in grado di realizzarle fin d’ora in larga misura) rimando a più tardi le esposizioni ardue e interminabili, analoghe a quelle di qualsiasi altra teoria elaborata. Enuncio dunque immediatamente le proposizioni che permettono d’introdurre fra gli altri, i valori stabiliti dal marchese di Sade, non evidentemente nel dominio dell’impertinenza gratuita ma direttamente nella Borsa stessa dove in qualche modo si scrive giorno per giorno il credito che degli individui e anche delle collettività possono concedere alla propria vita.

 

Appropriazione ed escrezione

 

1. La suddivisione dei fatti sociali in religiosi (proibizioni, obbligazioni e realizzazione dell’azione sacra) da una parte e in fatti profani (organizzazione civile, politica, giuridica, industriale e commerciale) dall’altra, benché non si applichi facilmente alle società primitive e si presti in generale a varie confusioni, può servire tuttavia di base alla determinazione di due impulsi umani polarizzati, e cioè l’ESCREZIONE e l’appropriazione. In altri termini, in un’epoca in cui l’organizzazione religiosa di un determinato paese si sviluppa essa rappresenta la via più largamente aperta agli impulsi escremenziali collettivi (impulsi orgiastici) in opposizione con le istituzioni politiche, giuridiche ed economiche.

2. L’attività sessuale, pervertita o no, l’attitudine di un sesso davanti all’altro, la defecazione, la minzione, la morte e il culto dei cadaveri (principalmente in quanto decomposizione fetida dei corpi), i differenti tabù, l’antropofagia rituale, i sacrifici di animali-dei, l’omofagia, il riso di esclusione, i singhiozzi (che hanno in generale la morte per oggetto), l’estasi religiosa, l’atteggiamento identico verso la merda, gli dei e i cadaveri, il terrore così spesso accompagnato da defecazione involontaria, l’abitudine di rendere le donne contemporaneamente brillanti e lubriche con belletti, pietre preziose e ninnoli risplendenti, il gioco, il dispendio senza freno e certi usi fantastici della moneta ecc… presentano insieme un carattere comune nel senso che l’oggetto dell’attività (escrementi, parti vergognose, cadaveri ecc…) si trova ogni volta trattato come un corpo estraneo (das ganz Anderes) tale cioè che può essere sia espulso in seguito a una rottura brutale che riassorbito nel desiderio di mettersi interamente il corpo e lo spirito in uno stato di espulsione (di proiezione) più o meno violento. La nozione di corpo estraneo (eterogeneo) permette di fissare l’identità elementare soggettiva degli escrementi (sperma, mestrui, urine, materie fecali) e di tutto ciò che ha potuto essere considerato come sacro, divino o meraviglioso: un cadavere semiputrefatto che erra durante la notte in un lenzuolo luminoso può essere il segno caratteristico di questa unità1.

3. Il processo di appropriazione semplice è dato normalmente all’interno del processo di escrezione composta, in quanto è necessario alla produzione di un ritmo alterno, per esempio nel passaggio seguente di Sade:

Verneuil fa cacare, mangia lo stronzo e vuole che si mangi il suo. Quella alla quale fa mangiare la sua merda, vomita, egli ingoia ciò che essa rende.

La forma elementare dell’appropriazione è la consumazione orale, considerata come comunione (partecipazione, identificazione, incorporazione o assimilazione). La consumazione è sacramentale (sacrificale) o no secondo che si accusi o si distrugga convenzionalmente il carattere eterogeneo degli alimenti. Nel secondo caso, l’identificazione ha luogo fin dalla preparazione degli alimenti che devono essere presentati sotto un aspetto di evidente omogeneità basata su strette convenzioni. La manducazione propriamente detta interviene allora nel processo come un fenomeno complesso nel senso che il fatto stesso di ingurgitare si presenta come una rottura parziale dell’equilibrio fisiologico e s’accompagna, fra l’altro, a una brusca liberazione di grandi quantità di saliva. Tuttavia l’elemento di appropriazione, di forma controllata e razionale, domina in pratica, nel senso che i casi in cui la manducazione ha per scopo principale il tumulto fisiologico (ingordigia o ubriachezza seguite da vomiti) sono incontestabilmente eccezionali. Il processo di appropriazione si caratterizza così per una omogeneità (equilibrio statico) dell’autore dell’appropriazione e degli oggetti come risultato finale mentre l’escrezione si presenta come il risultato di una eterogeneità e può svilupparsi nel senso di un’eterogeneità sempre più grande liberando impulsi dall’ambivalenza sempre più spiccata. È quest’ultimo il caso, per esempio, della consumazione sacrificale nella forma elementare dell’orgia, che non ha altro scopo che di incorporare degli elementi irriducibilmente eterogenei alla persona, in quanto tali elementi possono provocare un accrescimento di forza (più esattamente un accrescimento di mana).

4. L’uomo non si appropria soltanto degli alimenti ma anche di diversi prodotti della sua attività, vestiti, mobili, abitazioni e strumenti di produzione. Egli si appropria infine della terra divisa in appezzamenti. Tali appropriazioni hanno luogo per mezzo di una omogeneità (identità) più o meno convenzionale stabilita fra il possessore e l’oggetto posseduto. Si tratta ora di una omogeneità personale, che in un’epoca primitiva non poteva essere distrutta che solennemente, con l’aiuto di un rito escretore, ora di una omogeneità generale, come quella che l’architetto stabilisce fra una città e i suoi abitanti.

A questo proposito, la produzione può essere considerata come la fase escretoria di un processo di appropriazione e lo stesso la vendita.

5. L’omogeneità di aspetto realizzata nelle città fra gli uomini e ciò che li circonda non è che una forma sussidiaria di una omogeneità molto più conseguente, che l’uomo ha stabilito attraverso il mondo esterno sostituendo dappertutto agli oggetti esteriori, a priori inconcepibili, delle serie classificate di concezioni o di idee. L’identificazione di tutti gli elementi di cui il mondo è composto è stata perseguita con una ostinazione costante, in modo che le concezioni scientifiche allo stesso modo delle concezioni volgari del mondo sembrano essere arrivate volontariamente a una rappresentazione così differente da ciò che poteva essere immaginato a priori quanto la piazza pubblica di una capitale lo è da un paesaggio d’alta montagna.

Quest’ultima appropriazione, opera della filosofia quanto della scienza o del senso comune, ha comportato delle fasi di rivolta e di scandalo, ma ha sempre avuto per scopo la istituzione dell’omogeneità del mondo e non può arrivare a una fase terminale nel senso dell’escrezione che dal momento in cui gli scarti irriducibili dell’operazione si troveranno determinati.

 

Filosofia, religione e poesia in rapporto all’eterologia

 

6. L’interesse della filosofia risulta dal fatto che a differenza della scienza o del senso comune deve considerare positivamente i residui dell’appropriazione intellettuale. Tuttavia essa non considera per lo più questi residui che sotto forme astratte della totalità (nulla, infinito, assoluto) alle quali è incapace di dare da sé un contenuto positivo: può dunque procedere liberamente a speculazioni che hanno più o meno per scopo di identificare sufficientemente in fin dei conti un mondo senza fine al mondo finito, un mondo sconosciuto (noumenico) al mondo conosciuto (fenomenico).

Solo l’elaborazione intellettuale di forma religiosa può nei suoi periodi di sviluppo autonomo dare il residuo del pensiero appropriativo come oggetto definitivamente eterogeneo (sacro) della speculazione. Ma bisogna tenere ben conto del fatto che le religioni operano all’interno del dominio sacro una scissione profonda, dividendolo in mondo superiore (celeste e divino) e in mondo inferiore (demoniaco, mondo della corruzione); ora una tale scissione porta necessariamente all’omogeneità progressiva di tutto il dominio superiore (solo il dominio inferiore resistendo a ogni sforzo di appropriazione). Dio perde rapidamente e quasi del tutto gli elementi terrificanti e i tratti desunti dal cadavere in decomposizione per divenire, all’ultimo termine della degradazione, il semplice segno (paterno) della omogeneità universale.

7. Praticamente, per religione bisogna intendere, non realmente ciò che corrisponde al bisogno di proiezione (espulsione o escrezione) illimitata della natura umana, ma l’insieme di proibizioni, di obbligazioni e di licenze parziali che canalizzano e regolarizzano socialmente questa proiezione. La religione differisce dunque da una eterologia2 teorica e pratica (benché l’una e l’altra riguardino ugualmente i fatti sacri o escremenziali) non soltanto perché la prima esclude il rigore scientifico proprio della seconda (che appare in maniera generale tanto differente dalla religione quanto la chimica lo è dall’alchimia) ma anche perché tradisce nelle condizioni normali i bisogni che aveva avuto per scopo non soltanto di regolare ma di soddisfare.

8. La poesia sembra sulle prime conservare un grande valore come metodo di proiezione mentale (in quanto permette di accedere a un mondo interamente eterogeneo). Ma è anche troppo facile vedere che essa non è affatto meno declassata dalla religione. La poesia è stata sempre in balia dei grandi sistemi storici di appropriazione. E nella misura in cui potrebbe svilupparsi in una maniera autonoma, questa autonomia la impegnerebbe sulla via di una concezione poetica totale del mondo, conducendola obbligatoriamente a una qualche omogeneità estetica. L’irrealtà pratica degli elementi eterogenei che essa mette a fuoco è effettivamente una condizione indispensabile alla durata dell’eterogeneità: dal momento che questa irrealtà si costituisce immediatamente come una realtà superiore avente per missione di eliminare (o di degradare) la realtà inferiore volgare, la poesia è ridotta al ruolo di misura delle cose e, in compenso, la peggiore volgarità prende un valore escremenziale sempre più forte.

 

Teoria eterologica della conoscenza

 

9. Quando si dice che l’eterologia considera scientificamente le questioni dell’eterogeneità, non si vuol dire con ciò che l’eterologia è, nel senso abituale di una simile formula, la scienza dell’eterogeneo. L’eterogeneo è infatti posto risolutamente fuori della portata della conoscenza scientifica che per definizione non è applicabile che agli elementi omogenei. Prima di tutto, l’eterologia si oppone a qualsiasi specie di rappresentazione omogenea del mondo, cioè a qualsiasi sistema filosofico. Tali rappresentazioni hanno sempre per scopo di privare quanto è possibile l’universo in cui viviamo di ogni fonte di eccitazione e di sviluppare una specie umana servile atta unicamente alla fabbricazione, alla consumazione razionale e alla conservazione dei prodotti. Ma il processo intellettuale si limita automaticamente producendo da sé i suoi scarti e liberando così l’elemento eterogeneo escremenziale in una maniera disordinata. L’eterologia si limita a riprendere coscientemente e risolutamente questo processo terminale che, fin qui, era considerato come l’aborto e la vergogna del pensiero umano.

È in tal modo che procede al rovesciamento completo del processo filosofico che da strumento di appropriazione che era passa al servizio dell’escrezione e introduce la rivendicazione delle soddisfazioni violente implicate dalla esistenza sociale.

10. Sotto l’eterologia come scienza cadono solo i processi di limitazione da una parte, e lo studio delle reazioni di antagonismo (espulsione) e di amore (riassorbimento) violentemente alternate, ottenute ponendo l’elemento eterogeneo, dall’altra. Questo elemento stesso resta indefinibile e non può essere fissato che per mezzo di negazioni. La caratteristica specifica delle materie fecali o dello spettro come pure del tempo e dello spazio illimitati non può essere oggetto che di una serie di negazioni come assenza di ogni comune misura possibile, irrazionalità, ecc… Bisogna anche aggiungere che non esiste nessun mezzo per fare entrare tali elementi nel dominio oggettivo umano immediato, nel senso che l’oggettivazione pura e semplice del loro carattere specifico porterebbe all’incorporazione in un sistema intellettuale omogeneo, cioè a un annullamento ipocrita del carattere escremenziale.

L’oggettività degli elementi eterogenei non ha dunque che un interesse puramente teorico poiché non è possibile ottenerla che a condizione di considerare gli scarti sotto la forma totale dell’infinito ottenuta per negazione (in altri termini l’eterogeneità oggettiva ha il difetto di non poter essere considerata che sotto una forma astratta, mentre solo l’eterogeneità soggettiva degli elementi particolari è praticamente concreta).

11. Solo i dati della scienza, cioè i risultati dell’appropriazione, conservano un carattere oggettivo immediato e apprezzabile, l’oggettività immediata definendosi per le possibilità di appropriazione intellettuale. Se si definiscono degli oggetti esteriori reali è necessario introdurre allo stesso tempo la possibilità di un rapporto di appropriazione scientifica. E se tale rapporto è impossibile, l’elemento considerato resta praticamente irreale e non può essere oggettività che astrattamente. Ogni ulteriore domanda rappresenta la persistenza di un bisogno dominante di appropriazione, l’ostinazione malsana della volontà che cerca di rappresentarsi malgrado tutto (per pura viltà) un mondo omogeneo e servile.

12. È inutile cercare di negare che qui, molto più che nelle difficoltà (meno imbarazzanti delle facilità) incontrate nell’analisi dei processi di escrezione e di appropriazione, si trova il punto debole — praticamente — di queste concezioni, perché bisogna tenere largamente conto della ostinazione inconscia portata nelle defezioni e nelle scappatoie. Sarà anche troppo facile trovare nella natura oggettiva un gran numero di fenomeni che rispondono grossolanamente allo schema umano dell’escrezione e dell’appropriazione, per giungere ancora una volta alla nozione della unità dell’essere, per esempio sotto una forma dialettica. Si possono raggiungere più generalmente, dopo gli animali, le piante la materia la natura e l’essere, senza incontrare ostacoli veramente consistenti. Tuttavia, è già possibile indicare che man mano che ci si allontana dall’uomo, l’opposizione perde la sua importanza fino a non essere più che una forma aggiunta che evidentemente non si sarebbe potuta scoprire nei fatti considerati, se non la si fosse presa a prestito da un ordine di fatti differenti. Il solo mezzo di resistere a questa diluizione sta nella parte pratica della eterologia che conduce a un’azione risolutamente avversa a questa regressione verso una natura omogenea.

Dal momento che lo sforzo di comprensione razionale sfocia nella contraddizione, la pratica della scatologia intellettuale impone la deiezione degli elementi inassimilabili, confermando così volgarmente che uno scoppio di risa è il solo sbocco immaginabile, definitivamente terminale, e non il mezzo, della speculazione filosofica. In seguito bisogna indicare che una reazione così insignificante come uno scoppio di risa viene dal carattere estremamente vago e lontano del dominio intellettuale, e che basta passare da una speculazione riguardante dei fatti astratti a una pratica il cui meccanismo non sia diverso ma che raggiunga immediatamente l’eterogeneità concreta, per arrivare ai trasporti estatici e all’orgasmo.

 

Principi di eterologia pratica

 

13. L’escrezione non è soltanto un medio termine fra due appropriazioni, come la putrefazione non è soltanto un medio termine fra il grano e la spiga. L’incapacità di considerare in quest’ultimo caso la putrefazione come fine in sé è il risultato non precisamente del punto di vista umano ma del punto di vista specificamente intellettuale (in quanto questo punto di vista è praticamente subordinato a un processo di appropriazione). Il punto di vista umano, indipendentemente dalle dichiarazioni ufficiali, cioè come risulta, fra l’altro, dall’analisi dei sogni, rappresenta al contrario l’appropriazione come il mezzo dell’escrezione. In ultima analisi è chiaro che un operaio lavora per procurarsi la soddisfazione violenta del coito (cioè che accumula per spendere). Per contro la concezione secondo la quale questo operaio deve coitare per sovvenire alle future necessità del lavoro è legata alla identificazione inconscia dell’operaio e dello schiavo.

Infatti nella misura in cui le varie funzioni sono distribuite fra le categorie sociali, l’appropriazione nella sua forma più opprimente incombe storicamente agli schiavi: è così che i servi dovevano un tempo accumulare i prodotti al servizio dei cavalieri e dei chierici, questi ultimi non partecipando al lavoro di appropriazione che per l’edizione di una morale che regolarizzava a loro profitto la circolazione dei prodotti. Ma da quando si comincia a prendersela con il maledetto sfruttamento dell’uomo sull’uomo, è tempo di lasciare agli sfruttatori questa abominevole morale appropriativa che ha loro permesso per lungo tempo orge di ricchezza. Nella misura in cui l’uomo non pensa più a schiacciare i suoi compagni sotto il giogo della morale, acquista la possibilità di legare apertamente non solo la sua intelligenza e la sua virtù, ma la sua ragion d’essere alla violenza e alla incongruità dei suoi organi escretori, come alla facoltà che ha di essere eccitato fino all’angoscia dagli elementi eterogenei, a cominciare volgarmente dalla dissolutezza.

14. La necessità — prima di poter passare alla rivendicazione radicale e alla pratica violenta di una libertà morale conseguente — di abolire ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non è la sola ragione che lega lo sviluppo pratico dell’eterologia al rovesciamento dell’ordine stabilito.

In quanto si manifestano in un ambiente sociale, gli impulsi, che sono praticamente identificati dall’eterologia con la ragion d’essere dell’uomo, possono essere considerati in un certo senso come antisociali (nella stessa misura in cui gli abusi o anche i piaceri sessuali sono considerati da certuni come uno scialo di forza, si pensi alle grandi distruzioni rituali dei prodotti della Colombia britannica o, presso i popoli civili, al piacere delle folle che assistono di notte ai grandi incendi). Tuttavia gli impulsi che vanno contro gli interessi di una società in stato di ristagno (durante una fase di appropriazione) hanno al contrario la rivoluzione sociale (fase di escrezione) come fine: è così che possono trovare nei movimenti storici, quando l’umanità dispone della propria forza liberamente e senza alcun limite, nello stesso tempo una piena soddisfazione e una utilizzazione nel senso stesso dell’interesse generale cosciente. Qualunque sia d’altra parte la realtà di questo ulteriore interesse, non è meno vero che se si considerano le masse profonde, votate a una vita oscura e impotente, la rivoluzione con la quale queste masse liberano le forze di una violenza che era rimasta lungamente compressa è tanto la ragion d’essere pratica che il mezzo di sviluppo della società.

15. Sia ben chiaro che il termine di escrezione applicato alla Rivoluzione deve dapprima essere inteso nel senso strettamente meccanico, peraltro etimologico, della parola. La prima fase di una rivoluzione è la separazione, cioè un processo che conduce alla posizione di due gruppi di forze di cui ciascuno è caratterizzato dalla necessità in cui si trova di escludere l’altro. La seconda fase è l’espulsione violenta del gruppo che possedeva il potere da parte del gruppo rivoluzionario.

Ma si nota inoltre che ciascun gruppo, per la sua stessa costituzione, conferisce al gruppo opposto un carattere escremenziale quasi esclusivamente negativo ed è solo in ragione di questo negativismo che il carattere sacrificale di una rivoluzione resta profondamente inconscio. L’impulso rivoluzionario delle masse proletarie è peraltro ora implicitamente ora apertamente trattato come sacro ed è per questo che è possibile impiegare la parola Rivoluzione del tutto spoglia del suo contenuto utilitario, senza darle tuttavia un contenuto idealista.

16. La partecipazione — nel senso puramente psicologico così come nel senso attivo della parola — non impegna soltanto i rivoluzionari a una politica particolare, per esempio allo stabilimento del socialismo in tutto il mondo. Essa si presenta altrettanto — e necessariamente come partecipazione morale: immediatamente all’azione distruttrice della rivoluzione (espulsione realizzata rompendo totalmente l’equilibrio dell’edificio sociale), e indirettamente a ogni azione distruttrice equivalente. È il carattere stesso della volontà rivoluzionaria a legare tali azioni non, come l’apocalisse cristiana, alla punizione — ma al piacere o all’utilità degli esseri umani ed è di un’evidenza estrema che ogni distruzione che non è né utile né inevitabile non può che riferirsi a uno sfruttatore e, di conseguenza, alla morale in quanto principio di ogni sfruttamento3.

Ma da qui è facile constatare che la realtà di tale partecipazione è la base stessa della scissione dei partiti socialisti divisi in riformisti e rivoluzionari.

Senza complicità profonda con le forze della natura come la morte nella sua forma violenta, le effusioni di sangue, le catastrofi repentine ivi comprese le orribili grida di dolore che le seguono, le rotture terrificanti di ciò che sembrava immutabile, l’abbassamento fino alla putredine infetta di ciò che era elevato, senza la comprensione sadica di una natura incontestabilmente tonitruante e torrenziale, non possono esserci rivoluzionari, non può esserci che un desolante sentimentalismo utopico.

17. La partecipazione a tutto ciò che, in mezzo agli uomini, si trova di orribile e si presume sacro, può aver luogo in una forma limitata e inconscia, ma questo limite e questa incoscienza non hanno evidentemente che un valore provvisorio e niente può fermare il movimento che trascina degli esseri umani verso una coscienza sempre più cinica del legame erotico che li unisce alla morte, ai cadaveri e agli orribili dolori del corpo. È finalmente tempo che la natura umana cessi di essere sottomessa all’infame repressione degli autocrati della morale che li autorizza allo sfruttamento. Poiché è vero che è proprio dell’uomo gioire della sofferenza altrui, che il godimento erotico non è soltanto la negazione di un’agonia che ha luogo nel medesimo istante ma anche una partecipazione lubrica a questa agonia, è tempo di scegliere fra la condotta dei vili che hanno paura dei loro stessi eccessi di gioia, e la condotta di quelli che pensano che il primo uomo venuto non deve nascondersi come una bestia braccata ma valutare tutti gli istrioni della morale come dei cani.

18. Da queste considerazioni risulta che è ora necessario considerare due fasi distinte nell’emancipazione umana così come l’hanno intrapresa successivamente le diverse spinte rivoluzionarie dal giacobinismo fino al bolscevismo.

Durante la fase rivoluzionaria, fase attuale che non terminerà che con il trionfo mondiale del socialismo, solo la Rivoluzione sociale può servire da sbocco agli impulsi collettivi e nessun’altra attività può essere avanzata a tal fine.

Ma la fase post-rivoluzionaria implica la necessità di una scissione fra l’organizzazione politica ed economica della società da una parte e dall’altra un’organizzazione antireligiosa e asociale avente per scopo la partecipazione orgiastica alle diverse forme della distruzione, cioè la soddisfazione collettiva dei bisogni che corrispondono alla necessità di provocare l’eccitazione violenta che risulta dall’espulsione degli elementi eterogenei.

Una tale organizzazione non può avere altra concezione della morale che quella che ha professato per la prima volta il marchese di Sade.

19. Quando si tratterà dei mezzi per realizzare questa partecipazione orgiastica, una [tale] organizzazione si troverà così prossima alle religioni anteriori alla formazione degli stati autocratici, quanto lontana da religioni come il cristianesimo e il buddismo.

Bisogna dunque ampiamente tener conto in una simile previsione dell’intervento probabile nella cultura comune degli elementi di colore. Nella misura in cui tali elementi parteciperanno all’emancipazione rivoluzionaria, la realizzazione del socialismo darà loro la possibilità di scambi di ogni genere con gli elementi di razza bianca ma in condizioni radicalmente diverse da quelle che sono attualmente concesse ai negri civilizzati d’America. Ora, le collettività di colore, una volta liberate da ogni superstizione come da ogni oppressione, rappresentano in rapporto all’eterologia, non soltanto la possibilità ma la necessità di una organizzazione adeguata. Tutte le formazioni che hanno l’estasi e la frenesia per fine (messa a morte spettacolare di animali, supplizi parziali, danze orgiastiche, ecc.) non avranno nessuna ragione di scomparire il giorno in cui una concezione eterologica della vita umana sarà sostituita alla concezione primitiva; esse possono solamente trasformarsi generalizzandosi sotto l’impulso violento di una dottrina morale di origine bianca, insegnata agli uomini di colore da tutti quei Bianchi che hanno preso coscienza dell’abominevole inibizione che paralizza le collettività della loro razza. È soltanto dalla collusione di una teoria scientifica europea e della pratica negra che possono svilupparsi le istituzioni che serviranno definitivamente da sfogo, senz’altro limite che quello delle forze umane, agli impulsi che esigono oggi la Rivoluzione con il fuoco e con il sangue delle formazioni sociali di tutto il mondo.


1 L’identità di natura, dal punto di vista psicologico, di Dio e dell’escremento non ha niente che possa urtare l’intelligenza di chiunque sia abituato ai problemi posti dalla storia delle religioni. Il cadavere non è molto più ripugnante della merda e lo spettro che ne proietta l’orrore è sacro agli occhi stessi dei teologi moderni. La frase seguente di Frazer riassume pressapoco i dati storici della questione: … Queste differenti categorie di personaggi differiscono molto ai nostri occhi per il carattere e la condizione; degli uni diremmo che sono sacri, degli altri che sono sporchi o impuri. Niente di simile vale per il selvaggio, perché il suo spirito è ancora troppo rozzo per concepire distintamente quale è un essere sacro e quale è un essere impuro.


2 Scienza di ciò che è tutt’altro. Il termine di agiologia sarebbe forse più preciso ma bisognerebbe sottintendere il doppio senso di agios (analogo al doppio senso di sacer) tanto sporco che santo. Ma è soprattutto il termine di scatologia (scienza dei rifiuti) che conserva nelle circostanze attuali (specializzazione del sacro) un valore espressivo incontestabile, come doppione di un termine astratto quale eterologia.


3 Per esempio, la guerra imperialista.