La mutilazione sacrificale
e l’orecchio reciso di Vincent Van Gogh

 

 

 

Gli Annales médico-psychologiques6 riportano i fatti seguenti a proposito di «Gastone F…, di anni 30, disegnatore di ricami, entrato nel manicomio S. Anna, il 25 gennaio 1924…».

«Il mattino dell’undici dicembre passeggiava, sul viale di Ménilmontant quando, arrivato all’altezza del Père-Lachaise, si mise a fissare il sole e ricevendo dai suoi raggi l’ordine categorico di strapparsi un dito, senza esitare, senza provare alcun dolore, prese fra i denti il suo indice sinistro, sezionò successivamente la pelle, i tendini flessori ed estensori, i legamenti articolari al livello della articolazione falango-falangina, torse con la mano destra l’estremità del suo indice così lacerato e lo strappò completamente. Tentò di sfuggire agli agenti, che tuttavia riuscirono a impadronirsi di lui e lo condussero all’ospedale…».

Il giovane automutilatore, oltre al mestiere di disegnatore di ricami, esercitava nelle ore di tempo libero quello di pittore. Senza molte informazioni sulle tendenze rappresentate dalla sua pittura, sappiamo tuttavia che aveva letto dei saggi di critica d’arte di Mirbeau. D’altra parte la sua inquietudine si indirizzava a soggetti come la mistica indù o la filosofia di Federico Nietzsche.

«Nei giorni che precedettero l’automutilazione, prese parecchi bicchieri di rhum o di cognac». Egli si domanda ancora se non sia stato influenzato dalla biografia di Van Gogh nella quale aveva letto che il pittore preso da un accesso di follia, si era tagliato un orecchio e l’aveva inviato a una prostituta in una casa di tolleranza. È passeggiando l’11 dicembre sul viale di Ménilmontant, che «scorse il sole, si suggestionò, fissò il sole per ipnotizzarsi immaginando che la sua risposta era sì». Credette così di ricevere un assenso. «Figurandosi: fai qualche cosa, esci da questo stato», come se lo divinasse per trasmissione di pensiero. «Non mi sembrava enorme, aggiunse, dopo avere avuto l’idea del suicidio, strapparmi un dito. Io mi dicevo: ‘posso sempre farlo’».

Non credo sia utile insistere sul fatto che Gaston F… ha conosciuto l’esempio di Van Gogh. Quando una decisione interviene con la violenza necessaria all’estirpazione di un dito, sfugge del tutto alle suggestioni letterarie che hanno potuto precederla e l’ordine al quale i denti hanno dovuto così bruscamente obbedire deve apparire come un bisogno al quale nessuno potrebbe resistere. La coincidenza dei gesti dei due pittori ritrova d’altra parte tutta la sua strana libertà a partire dal momento in cui la stessa forza esteriore, scelta indipendentemente da ambo le parti, interviene nella messa in azione dei denti o del rasoio: nessuna biografia di Van Gogh poteva spingere il mutilatore del Père-Lachaise, nel compiere un sacrificio di cui nessuno avrebbe potuto sopportare la vista senza gridare, a ricorrere assurdamente ai raggi accecanti del sole…

È relativamente facile stabilire fino a che punto la vita di Van Gogh è dominata dai rapporti sconvolgenti da lui intrattenuti con il sole, tuttavia questa questione non era ancora stata sollevata. Le pitture di sole dell’Uomo dall’orecchio tagliato sono abbastanza conosciute, abbastanza insolite per avere sconcertato: esse non divengono intellegibili che dal momento in cui sono osservate come la espressione stessa della persona (o se si vuole della malattia) del pittore7.

La maggior parte sono posteriori alla mutilazione (notte di Natale 1888). Tuttavia l’ossessione appare già dal periodo di Parigi (1886-1888) con due disegni (La Faille8, 1374, 1375). Il periodo d’Arles è rappresentato dai tre Seminatori (La Faille, 422, giugno 1888; 450 e 451, agosto 1888); ma non si trova ancora in questi tre quadri altro che il crepuscolo della sera. Il sole non appare «in tutta la sua gloria» che nel 1889 durante il soggiorno del pittore al manicomio di Saint-Rémy, cioè dopo la mutilazione (cfr. La Faille, 617, giugno 1889; 628, settembre 1889 e 710, 713, 720, 729, 736, 737, senza data precisa). La corrispondenza di questo periodo permette d’altra parte di mostrare che l’ossessione raggiungeva qui il suo punto culminante. È allora che in una lettera a suo fratello Van Gogh impiega l’espressione di «sole in tutta la sua gloria» ed è probabile che si esercitasse a fissare dalla sua finestra questa sfera abbagliante (ciò che un tempo certi alienisti hanno ritenuto un segno di follia incurabile). Dopo la partenza da Saint-Rémy (gennaio 1890) e fino al suicidio (luglio 1890) il sole di gloria sparisce quasi del tutto dalle tele.

Ma per capire l’importanza e lo sviluppo dell’ossessione di Van Gogh, è necessario avvicinare dei soli, i girasoli, il cui largo disco aureolato di corti petali richiama alla mente il disco del sole che d’altra parte lo stesso fiore non cessa di fissare, seguendolo dall’inizio alla fine del giorno. Questo fiore è ben conosciuto sotto il nome stesso di sole e nella storia della pittura è legato al nome di Vincent Van Gogh, il quale scriveva che aveva un po’ il girasole (come si dice che Berna ha l’orso, o Roma la lupa). Fin dal periodo parigino, egli aveva raffigurato un sole alto sul suo stelo, isolato in un minuscolo giardino; se la maggior parte dei vasi di soli sono stati dipinti ad Arles, durante il mese di agosto 1888, almeno due di questi quadri sono del periodo parigino e noi sappiamo daltra parte che al momento della crisi del dicembre 1888, Gauguin, che abitava con lui, aveva terminato un ritratto del pittore che stava dipingendo un quadro di girasoli. È probabile che egli stesse lavorando allora a una variante di uno dei quadri di agosto (eseguendo a memoria come faceva spesso, sullesempio di Gauguin). Questa stretta associazione fra lossessione di un fiore solare e il tormento più esasperato prende un valore tanto più espressivo in quanto la predilezione esaltata del pittore sfocia a volte nella raffigurazione del fiore appassito e morto (La Faille, 452, 453, e fig. I, p. 10) quando nessuno, sembra, ha mai dipinto fiori appassiti, quando lo stesso Van Gogh raffigurava tutti gli altri fiori freschi.

Questo doppio legame che unisce il sole-astro, i soli-fiori e Van Gogh è d’altra parte riducibile a un tema psicologico normale nel quale l’astro si oppone al fiore appassito come il termine ideale al termine reale dell’io. È ciò che appare abbastanza regolarmente, sembra, nelle diverse varianti del tema.

Parlando in una lettera a suo fratello di un quadro che amava, il pittore esprimeva il desiderio che fosse collocato fra due vasi di girasoli come un pendolo fra due candelabri. È possibile considerare come una sconvolgente incarnazione del candelabro di girasoli il pittore stesso, che fissava al suo cappello una corona di candele accese e usciva di notte per Arles (gennaio o febbraio 1889) sotto questa aureola, con il pretesto, diceva, di andare a dipingere un paesaggio notturno. La fragilità stessa di questo miracoloso cappello di fiamme esprime senza dubbio a quale impulso di dislocazione obbediva Van Gogh ogni volta che era suggestionato da una fonte di luce. Per esempio allorquando ritraeva un candeliere sulla poltrona vuota di Gauguin…

Una lettera del pittore a suo fratello, datata dicembre 1888 (Brieven aan zijn Breder, n. 563) segnala per la prima volta la poltrona di Gauguin rossa e verde, effetto notturno, muro e pavimento pure rossi e verdi, sulla sedia due romanzi e una candela. Van Gogh aggiunge in una seconda lettera del 17 gennaio 1890 (Brieven aan zijn Breder, n. 571): io vorrei che de Haan vedesse il mio studio di una candela accesa e due romanzi (uno giallo, l’altro rosa, appoggiati su una poltrona vuota, precisamente la poltrona di Gauguin) tela di 30 in rosso e verde. Sto lavorando ancora al pendant, la mia sedia vuota, una sedia di legno bianco con una pipa e un cartoccio di tabacco (Si tratta del quadro riprodotto in La Faille con il n. 498). Nei due studi come in altri ho cercato un effetto di luce con del colore chiaro.

Questi due quadri sono tanto più significativi perché sono dell’epoca stessa della mutilazione. Basta osservarli per vedere che non rappresentano semplicemente una poltrona e una sedia, ma piuttosto le persone virili dei due pittori.

In mancanza di dati sufficienti, è difficile interpretare questi elementi con una perfetta certezza; tuttavia non si può non essere toccati da un contrasto che va tutto a vantaggio di Gauguin: una pipa spenta (un focolare spento e soffocante) si oppone a una bugia accesa, un miserabile cartoccio di tabacco (prodotto disseccato e calcinato) a due romanzi ricoperti di carta dal colore vivace. Questa differenza è tanto più carica di elementi oscuri in quanto corrisponde all’epoca in cui i sentimenti di odio di Van Gogh per il suo amico si esasperano al punto di provocare una rottura definitiva: ma la collera contro Gauguin non è che una tra le forme più acute della lacerazione interiore il cui tema si ritrova generalmente nell’attività mentale di Van Gogh. Gauguin ha giocato di fronte all’amico, il ruolo di un ideale che assume le aspirazioni più esaltate dell’io fino alle conseguenze più dementi: l’umiliazione odiosa e disperata con la sua contropartita sconcertante, l’identificazione stretta di ciò che umilia con ciò che è umiliato. L’ideale stesso porta in sé qualcosa delle tare di cui è l’antitesi esasperata: la bugia non aderisce solidamente alla poltrona sulla quale la sua situazione è precaria e quasi urtante; il sole nella sua gloria si oppone certo al girasole appassito, ma per morto che sia questo girasole è pure un sole, e il sole stesso ha qualcosa di deleterio e di malato: ha il colore dello zolfo, la couleur du soufre, come il pittore scrive per due volte in francese.

Questa equivalenza di elementi opposti caratterizza ancora nella Poltrona di Gauguin la ripresa del tema in un nuovo sistema di rapporti: di fronte al beccuccio del gas la disgraziata candela svolge la parte umiliante che la pipa svolge di fronte alla candela; il becco del gas piegato a gomito, non fa che elevare un po’ più in alto una rottura che non è, in fondo, che il segno dell’eterogeneità irriducibile degli elementi lacerati (e scatenati) della persona di Vincent Van Gogh.

I rapporti fra questo pittore (che si identifica successivamente con delle fragili candele, con dei girasoli ora freschi ora appassiti) e un ideale di cui il sole è la forma più sfolgorante, apparirebbero così analoghi a quelli che gli uomini intrattenevano un tempo con gli dei, almeno finché questi li riempivano ancora di stupore; la mutilazione interverrebbe normalmente in questi rapporti come un sacrificio e rappresenterebbe l’intenzione di somigliare perfettamente a un termine ideale, caratterizzato abbastanza in generale, nella mitologia, come dio solare, per mezzo della lacerazione e del distacco di proprie parti.

Il tema si avvicina in questo modo alla mutilazione di Gastone F… e il suo significato può essere messo in rilievo con l’aiuto di un terzo esempio nel quale un uomo di fuoco comanda a una donna di strapparsi le orecchie per offrirgliele: «Una donna di 34 anni sedotta e resa incinta dal suo amante aveva dato alla luce un bimbo che morì qualche giorno dopo la sua nascita. Questa infelice da quel giorno era stata presa dalla mania di persecuzione con agitazione e allucinazioni religiose. Fu ricoverata in un manicomio. Un mattino, una infermiera la trova intenta a strapparsi l’occhio destro: il globo oculare sinistro era scomparso e l’orbita vuota lasciava vedere dei brandelli di congiuntiva e di tessuto cellulare, così come degli ammassi adiposi; a destra esisteva un esoftalmo molto pronunciato. Interrogata sul motivo del suo atto, la demente dichiarò di avere udito la voce di Dio e poco tempo dopo di aver visto un uomo di fuoco: «Dammi le tue orecchie, spaccati la testa», le diceva il fantasma. Dopo essersi battuta la testa contro i muri, essa tenta di strapparsi le orecchie poi decide di estirparsi gli occhi. Il dolore è forte fin dai primi tentativi che fa; ma la voce la esorta a vincere la sofferenza e l’infelice non abbandona il suo progetto. Essa sostiene di avere allora perduto conoscenza e non può spiegare come sia riuscita a strapparsi completamente il suo occhio sinistro»9.

Quest’ultimo esempio è particolarmente espressivo perché la sostituzione, in mancanza di un utensile tagliente, degli occhi alle orecchie permette di arrivare, a partire da mutilazioni di parti poco essenziali (come un dito o un orecchio), fino alla enucleazione edipica, cioè fino alla forma più orrenda del sacrificio.

Ma come è possibile che gesti incontestabilmente legati all’alienazione, anche se in nessun caso proponibili come sintomi di una malattia mentale determinata,10 possano essere indicati spontaneamente come l’espressione adeguata di una vera funzione sociale, di una istituzione così definita, così generalmente umana come il sacrificio? Tuttavia l’interpretazione non è contestabile in quanto associazione immediata, interamente sprovvista di qualsiasi elaborazione scientifica. Anche anticamente dei pazzi hanno potuto designare così le loro mutilazioni: Areteo11 parla di malati che ha visto lacerarsi le membra per spirito religioso e per farne omaggio agli dei che chiedevano loro questo sacrificio. Ma il sorprendente è che ai nostri giorni, quando l’usanza del sacrificio è in piena decadenza, il significato della parola, nella misura in cui esprime ancora un impulso rivelato da un’esperienza interiore12, è ancora strettamente legato alla nozione di spirito di sacrificio, di cui l’automutilazione degli alienati non è che l’esempio più assurdo e più terribile.

È vero che questa parte demente del dominio sacrificale, la sola che ci sia rimasta immediatamente accessibile per la sua appartenenza alla nostra propria psicologia patologica, non può essere semplicemente contrapposta alla parte dei sacrifici religiosi di uomini e di animali: l’opposizione esiste all’interno della stessa pratica religiosa che presenta di fronte ai sacrifici classici le forme più svariate e più folli dell’autolesionismo.

A questo riguardo, sono le orgie sanguinose delle sette musulmane13 che appaiono attualmente con le forme più drammatiche e più significative: i partecipanti portati collettivamente al colmo della frenesia religiosa cadono tanto nell’orribile sacrificio omofago quanto nella mutilazione indiretta o no, battendosi gli uni con gli altri il cranio a colpi di mazza o di scure, gettandosi contro le lame di spada o strappandosi gli occhi. Quale che sia il ruolo giocato dall’abilità acquisita, per esempio nell’enucleazione, la necessità di gettarsi o di gettare qualche cosa di se stesso fuori di sé resta il principio di un meccanismo psicologico o fisiologico che può in certi casi non avere altro termine che la morte. Le feste dei fanatici non fanno d’altra parte che riprendere in forma attenuata, a volte nei medesimi paesi, quelle dell’iniziazione dei galli, preti di Cibele che, presi da eccesso di furore, deliravano per tre giorni eseguendo salti e danze violente, agitavano armi e coppe, si colpivano gli uni con gli altri senza pietà e arrivavano nel corso di un’incredibile esaltazione, a sacrificare la loro virilità servendosi di un rasoio, di una conchiglia o di una silice14.

Il rito della circoncisione che, nella maggior parte dei casi, non dà luogo a simili scene di delirio, rappresenta una forma meno eccezionale di ablazione religiosa di una parte del corpo e benché il paziente non agisca lui stesso, può essere considerato come una specie di automutilazione collettiva. Si sa che è più o meno praticato nelle diverse parti del mondo, dagli Israeliti, dai Maomettani e da un gran numero di popoli indigeni dell’Africa, dell’Oceania e d’America15. A volte si accompagna, per esempio presso i Beciuani dell’Africa Australe16, a vere e proprie torture che possono causare la morte. Ben inteso, una pratica così poco razionalmente spiegabile ha dato luogo a numerose interpretazioni: la più conosciuta, quella che attribuisce un’intenzione igienica ai selvaggi che l’hanno adottata è da molto tempo abbandonata; per contro quella che rappresenta questa mutilazione come un sacrificio, anche se una generalizzazione è discutibile, è incontestabilmente basata su qualche esempio positivo17.

D’altra parte, qualunque sia la natura sacrificale della circoncisione, essa deve essere innanzitutto considerata come un rito di iniziazione e come tale strettamente assimilata alle altre mutilazioni praticate nelle stesse circostanze18. In particolare l’estirpazione di un dente sostituisce la circoncisione in certe parti della Nuova Guinea e dell’Australia19. La rottura dell’omogeneità personale, la proiezione fuori di sé di una parte di se stesso, con il loro carattere insieme violento e doloroso, appaiono così regolarmente legati alle espiazioni, ai lutti o alle licenze che sono apertamente evocate dal cerimoniale di ammissione nella società degli adulti.

Meno diffusa della circoncisione, la pratica dell’ablazione di un dito è ben poco conosciuta, ogni esempio essendo citato rapidamente dai diversi autori che si limitano in generale a indicare con una frase l’occasione abituale della mutilazione20. Si tratta assai frequentemente della morte e delle manifestazioni di disperazione che la seguono; tuttavia in India si trova collegata per la donna alla nascita di un bimbo e la malattia svolge lo stesso ruolo alle isole Tonga. Presso gli Indiani Piedi-Neri, il dito è offerto alla Stella del mattino in un sacrificio di propiziazione. Alle isole Figi, la propiziazione poteva anche essere rivolta a un uomo vivente: quando un suddito aveva offeso gravemente il suo capo, si tagliava il dito mignolo e lo presentava nella fenditura di un bambù per ottenere il suo perdono21. È sorprendente che questa forma di mutilazione si ritrovi in quasi tutte le parti del mondo, in Australia, nella Nuova Guinea, alle isole Tonga e Figi; in America, in Paraguai, in Brasile e sulla costa Nord-Ovest; in Africa presso i Pigmei del lago Ngami, gli Ottentotti, i Boscimani. Anche in Grecia un dito di pietra innalzato su un monticello nella campagna, indicava ancora nel II secolo che l’uso non vi era forse sempre stato ignorato. «Andando da Megalopoli nella Messenia, scrive Pausania, e a sette stadi tutt’al più dalla città, trovate a sinistra della strada, un tempio dedicato a delle dee alle quali si dà il nome di Manie… Io credo che sia un soprannome che si dà alle Eumenidi; perché si assicura che fu là che Oreste diventò furioso dopo l’uccisione di sua madre. Molto vicino al tempio, c’è un monticello di terra che è coperto da una pietra in forma di dito; chiamano questo monticello la tomba del Dattilo (dito); si vuole che Oreste, avendo avuto là un accesso di furore, si mangiasse un dito della mano sinistra; molto vicino esiste un’altra regione chiamata Ace, perché Oreste vi trovò la guarigione dai suoi mali. Vi è stato eretto anche un tempio delle Eumenidi; si dice che queste dee fossero apparse tutte nere a Oreste volendo fargli perdere la ragione e che quando egli si mangiò il dito esse gli apparissero di nuovo, ma tutte bianche e che a questa vista, egli rientrasse in sé»22.

La strana pratica dell’ablazione del dito sembra essere particolarmente frequente in una regione arcaica come l’Australia che non conosce il sacrificio nel senso classico della parola. E questo fatto è indubbiamente tanto più notevole in quanto è difficile negare l’esistenza dello stesso rito nel periodo neolitico: nelle impronte delle mani ottenute nelle caverne applicando la mano sulla parete e circondandola di pittura, si trovano delle lacune di una o più falangi23. Le analoghe pratiche accertate ai nostri giorni presso i dementi apparirebbero dunque non soltanto come generalmente umane, ma come molto primitive; la demenza non farebbe che togliere gli ostacoli che si oppongono nelle condizioni normali all’adempimento di un impulso così elementare come l’impulso contrario che ci fa mangiare24.

Qualunque sia, in effetti, l’egoismo che presiede all’appropriazione degli alimenti e dei beni, il movimento che spinge un uomo in certi casi a donarsi (in altri termini a distruggersi) non soltanto in parte ma totalmente, cioè fino a che ne segue una morte cruenta, non può essere paragonato, per la sua natura travolgente e terribile, che alle deflagrazioni abbaglianti che del temporale più opprimente fanno un trasporto di gioia. Anche quando, nelle forme rituali del sacrificio comune, una bestia è pavidamente sostituita al sacrificante. Solo una lamentevole vittima interposta «penetra nella zona pericolosa del sacrificio, essa soccombe, come dicono Hubert e Mauss25, ed è là per soccombere. Il sacrificante resta al sicuro». La liberazione da «ogni calcolo egoista», da ogni riserva resta tuttavia al termine di questi tentativi di scappatoia in questo senso, che creature d’incubo come gli dei sono incaricati di adempiere fino alla fine ciò che un uomo qualunque si accontenta di sognare: «il dio che si sacrifica si dona senza ritorno, scrivono Hubert e Mauss26. Il fatto è che, questa volta, ogni intermediario è scomparso. Il dio che è allo stesso tempo il sacrificante non fa che tutt’uno con la vittima e qualche volta perfino con il sacrificatore. Tutti gli elementi diversi che entrano nei sacrifici ordinari rientrano qui gli uni negli altri e si confondono. Solo, una tale confusione non è possibile che per esseri mitici, immaginari, ideali». Hubert e Mauss trascurano qui gli esempi di «sacrificio del dio» che avrebbero potuto trarre dai casi di automutilazione e per i quali soltanto il sacrificio perde il suo carattere di simulazione.

Non vi è, in effetti, alcuna ragione di separare l’orecchio di Arles o l’indice del Père-Lachaise dal celebre fegato di Prometeo. Se si accetta l’interpretazione che identifica l’aquila provvida, l’aetos prometheus dei greci, al dio che ha rubato il fuoco alla ruota del sole, il supplizio del fegato presenta un tema conforme alle diverse leggende di «sacrificio del dio»27. I ruoli sono normalmente divisi fra la persona umana del dio e la sua incarnazione animalesca: ora luomo sacrifica la bestia, ora la bestia luomo, ma si tratta ogni volta di autolesionismo poiché la bestia e luomo non formano che un solo essere. Laquila-dio che si confonde nellimmaginazione antica con il sole, laquila solitaria che unica può fissare gli occhi nel sole contemplandolo «in tutta la sua gloria», lessere icariano che va a cercare il fuoco del cielo non è tuttavia nientaltro che un autolesionista, un Vincent Van Gogh, un Gaston F. Tutto leccesso di ricchezza che attinge dal delirio mitico si limita allincredibile vomito del fegato, senza tregua divorato e senza tregua vomitato dal ventre aperto del dio.

Se si seguissero questi accostamenti l’utilizzazione del meccanismo sacrificale per diversi fini quali la propiziazione o l’espiazione sarebbe considerata come secondaria e non si conserverebbe che il fatto elementare dell’alterazione radicale della persona che può essere indefinitamente associata a qualsiasi altra alterazione che sopraggiunga nella vita collettiva: per esempio la morte di un parente, l’iniziazione, la consumazione del nuovo raccolto… Una tale azione sarebbe caratterizzata dal fatto che avrebbe la potenza di liberare elementi eterogenei e di rompere l’omogeneità abituale della persona: essa s’opporrebbe al suo contrario, all’ingestione comune degli alimenti allo stesso modo di un vomito. Il sacrificio considerato nella sua fase essenziale non sarebbe che un rigetto di ciò che era appropriato a una persona o a un gruppo28. È in ragione del fatto che nel ciclo umano tutto ciò che è rigettato è alterato nel modo più conturbante, che le cose sacre intervengono al termine delloperazione: la vittima afflosciata in una pozza di sangue, il dito, locchio o lorecchio strappato non differiscono sensibilmente dagli alimenti vomitati. La ripugnanza non è che una delle forme dello stupore causato da una eruzione orribile, dallo sgorgo di una forza che può inghiottire. Il sacrificante è libero, libero di lasciarsi andare lui stesso a un tale sgorgo, libero, identificandosi continuamente nella vittima, di vomitare il proprio essere, come ha vomitato un pezzo di se stesso o un toro, cioè libero di gettarsi tutto a un tratto fuori di sé come un gallo o un aïssaouah.

È, tuttavia, permesso di dubitare che perfino i più furiosi di quanti si sono mai feriti e mutilati in mezzo alle grida e ai colpi di tamburo abbiano abusato di questa meravigliosa libertà come ha fatto Vincent Van Gogh: andando a portare l’orecchio che si era tagliato proprio nel luogo che ripugna di più alla buona società. È ammirevole che egli abbia così in una volta testimoniato un amore che non teneva conto di niente, e in qualche modo sputato in faccia a tutti quelli che conservano della vita che hanno ricevuto l’idea elevata, ufficiale, che si conosce.

Forse la pratica del sacrificio sparisce sulla terra perché non ha potuto essere sufficientemente caricata di questo elemento di odio e di disgusto senza il quale appare ai nostri occhi come una servitù. Tuttavia l’orecchio mostruoso inviato nel suo involucro esce bruscamente dal cerchio magico all’interno del quale abortivano stupidamente i riti di liberazione. Ne esce con la lingua di Anassarco di Abdera troncata con i denti e lanciata sanguinante sulla faccia del tiranno Nicocreone, con la lingua di Zenone di Elea sputata in faccia a Demylos… l’uno e l’altro di questi filosofi essendo stati sottoposti a spaventosi supplizi, il primo pestato vivo in un mortaio.


6 H. Claude, A. Borel e G. Robin, Une automutilation révélatrice d’un état schizomaniaque (Annales medico-psychologiques, 1924, I, pp. 331-39). Il dottor Borel mi ha segnalato lui stesso questa osservazione allorché gli indicavo l’associazione che ero stato portato a fare fra la ossessione del sole e l’autolesionismo di Van Gogh. Questa osservazione non è stata dunque il punto di partenza del confronto ma piuttosto la conferma dell’interesse che presentava.


7 Sulla malattia di Van Gogh, cfr. Jaspers, Strindberg und Van Gogh; W. Riese, Ueber den Stilwandel bei Vincent Van Gogh (Zeitschrift für die Gesamte Neurologie und Psychiatrie, 2 maggio 1925); Id., Vincent Van Gogh in der Krankheit, 1926, e V. Doiteau e E. Leroy, La folie de Vincent Van Gogh, 1928. Gli apprezzamenti dei vari autori sono contraddittori e poco concludenti. Non se ne è tenuto conto in questo articolo che esamina un tratto psicologico che non deriva dalla malattia se non il suo carattere sfrenato.


8 J.B. de la Faille, Loeuvre de Vincent Van Gogh, 1928, 4 voll. in-4°.


9 Riortato dap Ideler (Allgemeine Zeitschrift für Psychiatrie, t. 27), citato da Lotthiois, De lautomutilation. Mutilations et suicides étranges, Paris 1909, p. 94, fra 11 altri casi di enucleazione volontaria in inalati. L’opera di Lorthios dà nell’insieme un quadro delle automutilazioni che colpisce per la frequenza dei casi. Molti malati legano la loro mutilazione a un delirio religioso o a sentimenti di colpevolezza.


10 È l’opinione formulata molto chiaramente da Ch. Blondel in Les automutilateurs (Parigi, 1906). Io non credo possibile contravvenirvi.


11 Celebre medico del I secolo della nostra era, autore del De morborum diuturnorum et acutorum causis, signis et curatione. Il vocabolario sacrificale è ancora impiegato spontaneamente da Montaigne che riporta un caso di autolesionismo al capitolo IV degli Essais: mortificato da una avventura nella quale si era mostrato poco brillante, un gentiluomo «si mutilò appena rientrato e inviò alla sua amante le parti che gli avevano disobbedito nei suoi desideri come una vittima sanguinante capace di espiare l’offesa che egli credeva di averle fatto».


12 Non si tratta qui del significato volgare della parola presa in senso figurato ma dei fatti ai quali è restata inconsciamente associata.


13 Cfr. J. Herber, Les Hamadan e Les Djoughiyyin (Hesperis, 1923, pp. 217-236), che dà una bibliografia sull’insieme delle sette: cfr. anche racconto straordinario di una festa di Aïssaouah che finiva con la morte di un uomo in E. Masquerey, Souvenirs et visions d’Afrique.


14 Cfr. C. Vellay, Le culte et les fêtes d’Adonis Thammouz, Parigi, 1905.


15 Anche gli antichi Egiziani praticavano la circoncisione: cfr. la bibliografia e la carta di ripartizione di E. M. Loeb in The blood sacrifice complex, 1923 (Memoirs of the American Anthropological Association, 30).


16 Cfr. J. Brown, Circumcisions rites of the Becwans tribes (Journal of the Royal Institute of Great Britain and Ireland, 1928).


17 Cfr. Hubert e Mauss, Mélanges d’histoire des religions, 1909, pp. 125-126. E.M. Loeb (op. cit.) espone la questione e sostiene l’interpretazione sacrificale seguendo un certo numero di autori che egli cita (ma ad eccezione della bibliografia, il suo lavoro è insufficiente).


18 Cfr. fra l’altro Karsten, The civilisation of South American Indians, Londra, 1926.


19 Sulla associazione fatta spontaneamente nell’angoscia dei fanciulli fra la circoncisione, l’estirpazione di un dente, e la castrazione, cfr. Freud, Totem e Tabù, trad. it., Torino 1969, p. 205, nota 2.


20 Vedere la bibliografia in Loeb, op. cit., pp. 39-40.


21 Cfr. H. Hale, U.S. Exploring expedition, 1846, p. 66.


22 Pausania, Descrizione della Grecia, trad. libro VIII, cap. XXXIV, trad. it. La Grecia descritta da Pausania, Milano 1826, vol. IV, pp. 94-95).


23 Cfr. Luquet, L’art et la religions des hommes fossiles, Parigi, 1926, p. 222, dove la tesi del dito piegato è sostenuta in una maniera poco convincente.


24 Nell’omofagia e nell’esempio di Oreste che si mangia il dito, i due impulsi si producono simultaneamente, ma nei due casi gli alimenti consumati dovrebbero normalmente ripugnare, ciò che cambia completamente il senso dell’appropriazione.


25 Mélanges d’histoire des religions, Paris 1909, p. 125.


26 Op. cit., p. 127. Ben inteso, il quadro d’insieme presentato nel saggio di Hubert e Mauss è sensibilmente differente da quello che si trova tratteggiato qui. Tuttavia è a questo lavoro che si riferisce un tentativo d’interpretazione troppo sommariamente esposto in questo articolo. Devo ricordare che in Totem e Tabù, Freud si riferiva al lavoro più antico di Robertson Smith (Religion of Semites) e dava le obiezioni di Hubert e Mauss come trascurabili.


27 Cfr. S. Reinach, Aetos Prometheus (Culte, mythes et religions, t. III, pp. 68-91). Cito qui Prometeo, malgrado il carattere ipotetico dell’interpretazione perché si presta particolarmente a un singolare raffronto con Van Gogh e Gaston F. Ci sono oltre a Prometeo, numerosissimi esempi di sacrificio del Dio.


28 L’impulso che corrisponde a tali fatti è eminentemente sociale presso i popoli primitivi; mentre è la fame che sembra giocare il ruolo sociale nelle società attuali.