12

 

«Acqua!»

La strega, che veniva verso di me con un gancio incandescente riscaldato su un fornello, si fermò di colpo, al centro del tappeto.

Ripresi a pensare, per assicurare a me stessa che era stato un miraggio, che non era possibile avere tanta fortuna, ma la voce di Encarna risuonò nuovamente da dietro la porta, tra i colpi nervosi delle nocche sul legno.

«Acqua!» Il suono di una sirena invase la strada.

La strega lasciò il gancio sopra il fornello, ormai spento, prese un impermeabile che era su una sedia, se lo gettò addosso in fretta e furia e scappò da una porticina nascosta in un armadio, che conoscevo anche io.

Encarna gridò per la terza e ultima volta.

«Acqua!» L'alicantino, che probabilmente non capiva cosa stesse succedendo, rimase seduto sul divano, il ragazzino finalmente di nuovo tra le braccia, mentre tutti gli altri sfilavano veloci dietro l'arpia.

Io piangevo, senza riuscire a crederci, una retata, una benedetta retata, la polizia, benedetta, mi aveva salvato la pelle, tutta la vita a incurvare le spalle e a camminare in punta di piedi quando passavo accanto a qualsiasi tipo di uniforme, anche se era un vigile urbano, e ora, quegli angeli avevano avuto la benedetta idea di fare una retata proprio in quella strada, proprio quella notte, proprio a quell'ora, e io avevo salvato la pelle, l'avevo salvata, che siano benedetti, mi ripetevo, che sia benedetta la polizia di Madrid, benedetta in eterno.

Eravamo rimasti soli, i tre occupanti iniziali del divano e io.

I due uomini mi guardavano in attesa, la ragazzina stava piangendo, rannicchiata, qualcuno le aveva strappato i vestiti, sembrava paralizzata, lei capiva, ma non sembrava in grado di muoversi.

«E una retata», mormorai.

L'alicantino si alzò in piedi, prese per mano il suo amico e uscì correndo dalla porta che dava sul corridoio. Lei fece per seguirli, ma la fermai.

«No, non uscire da lì», ero esausta, riuscivo appena a muovere le labbra. Mi si avvicinò e sganciò la catena dal chiodo. All'inizio, sentii appena un qualche sollievo, ero già tutta tumefatta, staccai a fatica le mani dagli anelli metallici, mi bruciavano. Poi, mi lasciai scivolare contro la parete, lentamente, fino a rimanere seduta per terra. «Guarda, il terzo pannello di legno di questo armadio è una porta. Spingila forte e vedrai una scala stretta. Sali fino in cima e arriverai alla terrazza sul tetto. Nasconditi, aspetta che gli sbirri spariscano e scendi dalla scaletta antincendio. Ti troverai in un vicolo che dà su questa stessa strada. Corri...» Vieni con me!», mi aveva afferrato la mano, e mi guardava con una bella espressione di infinita gratitudine.

«No, io rimango qui, sono pulita, a me non possono fare niente», ero così stanca, «ma tu devi andartene subito, corri.» Scomparve alla mia sinistra, e rimasi sola.

A qualcuno stavano dando una bella ripassata, a giudicare dai rumori e dalle urla che arrivavano fino alle mie orecchie, a tratti.

Poi una figura spalancò la porta socchiusa.

Gus, con i pugni ancora stretti e le nocche macchiate di sangue, entrò per primo.

Dietro, di lui veniva Pablo, le mani immacolate, come sempre.

 

Non mi aveva mai picchiato.

Mai, in,tutta la vita, mi aveva picchiato, e non lo avevo mai nemmeno visto piangere.

Ma infilò due dita sotto il collare, mi sollevò, mi appoggiò alla parete e mi colpì la faccia con la mano destra, prima il palmo, poi il dorso, mentre due lacrime enormi gli scivolavano sulle guance.

«Sparisci.» Gus, eunuco contemporaneo, reso ormai completamente impotente dall'eroina, era accanto a me, e sbuffava ansimante.

Non si mosse.

Pablo lo guardò in faccia.

«Ho detto: sparisci.» Gli restituì lo sguardo, improvvisò un gesto di disprezzo, si voltò e si allontanò a malincuore.

Rimanemmo soli.

Allora mi picchiò di nuovo, sempre con la mano destra, prima il palmo, poi il dorso, sbattendomi con violenza la testa da una parte all'altra, io lo lasciavo fare, gli ero grata per quei colpi che mi facevano a pezzi, e distruggevano il maleficio,sfigurando il viso di quella donna vecchia, estranea, che mi aveva sorpreso appena qualche ora prima dall'altra parte dello specchio, per quei colpi che mi rigeneravano la pelle, che tornava a nascere, morbida e liscia, a ogni schiaffo, me li sono meritati, pensavo, me li sono proprio meritati.

Poi, con gli occhi ancora umidi, mi allontanò un istante da sé, per guardarmi, percorse il mio corpo con gli occhi, e mi abbracciò, le sue braccia mi strinsero forte, le sue dita seguirono,i solchi sulle mie spalle, la sua lingua leccò il sangue che colava dalle mie labbra, il sangue che i suoi stessi colpi avevano fatto scorrere.

«Puoi camminare?» Mossi la testa per dire di no.

Mi prese in braccio, mi portò fino a un tavolo, mi ci fece sedere sopra, mi tolse gli stivali e mi prese il piede destro tra le mani sfregando la pianta, stringendolo poi tra le dita.

«Hai dei piedi orribili, troppo grandi...» Mossi la testa per dire di sì.

Mi prese le mani, e girò i palmi verso l'alto, lasciando allo scoperto la carne rossa, brillante, scintille di sangue tra rigoli anneriti di pelle lacerata, morta.

«Le tue mani mi sono sempre piaciute.» I suoi occhi erano pieni di furia, e di compassione. «Che sfortuna...»

«Perdonami», il suo sguardo rimase fisso sui miei palmi scorticati. «Scusa...» Alla fine sollevò il viso verso di me, si tolse il cappotto, me lo mise con molta attenzione e mi sostenne per la vita mentre scendevo dal tavolo.

«Andiamo.» Mi precedette, nel corridoio, in direzione della porta. Io cercavo di seguirlo, ma mi sentivo troppo debole per potergli star dietro.

Encarna affacciò la testa un istante, la mosse, accennando un gesto misto di meraviglia e di disapprovazione, e sparì di nuovo nella stanza della televisione.

«Aiutami», lui era arrivato quasi alla porta d'ingresso, e mi guardava.

«Aiutami, per favore, non ce la faccio a continuare...» Tornò sui suoi passi, mi prese un braccio e se lo gettò intorno al collo, mi sostenne per la vita e arrivammo tutti e due alla porta, cominciammo a scendere la scala, molto lentamente, lui mi reggeva a ogni scalino, io a poco a poco recuperavo il controllo delle gambe, e prendevo sempre più coscienza del mio fallimento, e della sua sofferenza, che lui interpretava come il suo fallimento, e mi sentivo infinitamente stupida, il fantasma del rifiuto calava sopra le mie spoglie, e la sua inconsistente minaccia era mille volte più dolorosa dei colpi di quella donna, avevo paura, e sentivo schifo, e stanchezza, ma soprattutto paura, scendevamo in silenzio, ormai non osavo più guardarlo, le sue parole riecheggiarono bruscamente alle mie orecchie, non ci sarebbe stata tregua, non ancora.

«Ely mi ha chiamato una sera, sembrava preoccupato, voleva parlarmi di te e l'ho invitato a cena.» I suoi occhi rimanevano fissi sui muri della scala, pieni di crepe, come se le pareti sudice e scrostate fossero portatrici di preziosi messaggi segreti, di importanza vitale, che soltanto lui poteva decifrare. «'Sappiamo tutti e due che Lulù non è esattamente una signora', mi ha detto, 'ma va con della gente che non mi piace affatto, ho paura per lei', e allora ho deciso di intervenire di nuovo nella tua vita, nonostante tutto e nonostante non mi riguardi, e così ho fatto, ho parlato con Gus, anche lui ti aveva visto con tipi poco raccomandabili e aveva bisogno di grana, ha sempre bisogno di grana, così gliel'ho data, te l'ho messo dietro e a poco a poco sono venuto a sapere tutto... fermati, ci riposiamo un po'», feci cenno di no con la testa, non volevo fermarmi, volevo continuare, continuare fino in fondo, farla finita una volta per tutte, e allungai il piede gonfio, nudo, verso lo scalino successivo, «be', come vuoi, insomma sono venuto a sapere tutto e mi sono spaventato, anch'io, per questo sono qui, c'era anche l'Encarna sulla lista paga, è stata lei ad avvisarmi, non volle dirmi il giorno, né l'ora, ma stasera, quando te ne sei andata da casa in quel modo, così di fretta, ho capito che sicuramente saresti venuta qui e mi sono messo in contatto con Gus, avevamo tutto già mezzo progettato, all'inizio pensavo che non te l'avrei mai detto, ma ora credo di avere bisogno di farlo, lui ha messo la macchina e le pistole, lo aveva già detto a qualcuno e non gli è stato difficile trovarne altri due o tre che hanno fatto da richiamo, gridando dalla strada, io ho dovuto soltanto comprare la sirena, l'ho trovata a pochissimo, me l'ha presa quello zingaro che vende scarpe a Vara del Rey, lo conosci, anche la polizia avevamo previsto, ma non è da escludere che alla fine arrestino davvero quei quattro ladruncoli, e allora dovrò pagare loro la cauzione e un avvocato decente, non ho intenzione di lasciarli nei pasticci, poveretti...» In quel momento intuii che mi stava guardando, mi guardava fisso, implacabile, ma io non potevo staccare gli occhi da terra, oscillavo tra la rabbia e la gratitudine, tra la disperazione e la pace, tra la superbia, miracolosamente recuperata per un istante, e la sottomissione ultima, definitiva, lo amavo, ma questo lo sapevo già, lo sapevo fin dal principio, lo avevo sempre amato.

«Guardami, Lulù. Troverò un modo perché tu possa sdebitarti, non ti preoccupare.» Tutto il resto lo ricordo come un confuso amalgama di dettagli sconnessi, il ritmo di un incubo, camminavo scalza per strada, la venditrice di semi di girasole all'angolo ci guardò con espressione annoiata, una nausea potente mi spinse in avanti, lui mi sostenne, la mano sulla fronte, vomitai in un'aiuola, il cappotto si aprì, lasciando allo scoperto la mia carne macerata, gli occhi di un vecchio che si faceva il letto coi giornali su una panchina brillarono per un attimo, la nausea continuò a tormentarmi, lui non parlava, io, sdraiata sul sedile di dietro, cercavo di capire dove mi portava, dove andavamo, di nuovo, dopo tanti anni, e lottavo con disperazione contro il tragico sospetto che cresceva a passi da gigante dentro la mia testa intontita, acquistando le proporzioni delle certezze odiose, delle verità sudice, delle cose vere a cui non si vuole credere, lottavo contro di esso, cercavo di trovare una spiegazione diversa, tranquillizzante, ai vertiginosi avvenimenti di quella notte, mi sforzavo di trovare un senso alla vera origine dei segni impressi sulla mia pelle, all'insistenza di Remi, all'assenza di Manolo, all'impassibilità di Encarna, alla puntualità della falsa retata, al sangue che tingeva di rosso i pugni di Gus, e alle sue lacrime, alle lacrime che avevo visto nei suoi occhi, le lacrime che gli avevano sfigurato la voce, una voce così diversa da quella che mi aveva cacciato di casa quella stessa sera, lottavo contro quella certezza mascherata da sospetto e non trovavo nessuna alternativa, non c'erano alternative, lui era stato lì, aveva mosso i fili a distanza, ma quello era troppo duro, insopportabilmente duro per le deboli forze di una bambina piccola, sono una bambina piccola, conclusi, ci penserò domani, domani, stanotte no, domani sarà tutto molto più chiaro...

Mercedes ci aspettava seduta su un divano, tormentando nervosamente i manici della vecchia valigetta che le aveva regalato mia madre quando si era laureata.

Poveretta, pensai, ricorriamo sempre a lei nelle stesse sgradevoli occasioni.

Quando ci vide entrare mi scrutò il viso con ansia, poi fissò Pablo, poi di nuovo me.

«Mi aspettavo di peggio», disse.

Allora lui mi tolse il cappotto.

Le mani di mia cognata cominciarono a tremare, gli occhi le si riempirono di lacrime, non avevo mai capito perché una donna così fragile, così delicata, così paurosa, avesse scelto quella professione cruenta.

«Dio mio!», di nuovo ci guardò a turno. «Ma... questo cos'è?»

«Niente», Pablo le si avvicinò e le mise una mano sulla spalla, come per tranquillizzarla. «I segni del morbillo.»