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Fu una giornata strana, una giornata inconsueta fin dal principio, e non solo per il caldo, quel caldo secco, africano, così insolito ormai a metà settembre.

Mia cognata mi chiamò di buon'ora. Voleva sapere se avevo un minuto libero per lei, e anche raccontarmi, tra l'altro, che a Pablo andava benissimo con la sua nuova ragazza, la chiamò così, la sua ragazza, quella specie di musa scialba che aveva tirato fuori da non so quale cenacolo intellettuale di provincia, molto giovane, giovanissima.

L'agenzia non andava troppo bene, sapevo che Susana mi ci aveva messo per amicizia, e non perché ci fosse realmente bisogno di gente. A sentire lei, Milagros aveva più bisogno del mio tempo di quanto io ne avessi dei suoi soldi, ma nonostante tutto, le risposi che ero molto occupata, che non potevo farmi carico di un altro libro, e quello mi fece stare male tutto il giorno.

Detesto comportarmi arbitrariamente, ma non posso evitarlo.

La mattinata si complicò. Non riuscii a trovare una dattilografa disponibile, la composizione non consegnò in tempo le patinate dell'annuncio pubblicitario dei tedeschi e uno dei nostri clienti più fedeli annullò un ordine di una certa importanza.

Passai tutta la mattina attaccata al telefono per niente.

Il lavoro andava male.

A mezzogiorno ricevetti una telefonata dalla scuola di Inés. La tutrice voleva vedermi perché il comportamento di mia figlia la preoccupava, sembrava che la sua condotta fosse eccessivamente antisociale, rispetto alla norma per una bambina di quattro anni.

Pablo aveva attaccato la segreteria telefonica.

Avevo pensato di invitarlo a mangiare con la scusa di discutere della repentina incapacità a socializzare della nostra comune erede, per vedere fino a che punto avevo perso il mio potere su di lui, ma non osai lasciargli alcun messaggio.

 

Chelo mi chiamò nel primo pomeriggio.

Stava peggio di me, con una di quelle depressioni umide che le scatenano le secrezioni, lacrime, muco, bava, la lingua torpida, suoni inintellegibili, sordidi suoni viscerali che emergono non si sa come dalla linea telefonica, la vittima gode, assapora il suo ultimo pianto sulla pietra sacrificale, l'acciaio, pronto a esercitare la giustizia, l'ingiustizia suprema, sopra il suo collo fragile.

Questa volta mi raccontò qualcosa sulla commissione dei concorsi, quasi si potevano chiamare i «suoi» concorsi, dopo tutti quegli anni.

Le riattaccai il telefono in faccia.

Non la sopporto, non sopporto i suoi attacchi isterici.

Non sono una persona sensibile, apparentemente. Mi sono abituata a vivere con questa ombra su di me.

 

Riesco ancora a ricordare tutto perfettamente.

Quando tornai da scuola, Marcelo era a letto, e Pablo seduto ai suoi piedi.

Aveva ventisette anni ed era appena uscito il suo primo libro di poesie, dopo il clamoroso successo ottenuto con l'edizione critica del Cántico espiritual, ma questo non mi impressionava ancora.

Era alto, grande, e aveva già qualche capello bianco.

Io lo conoscevo da sempre, e lo amavo in modo vago e confortevole, senza speranze.

Un cantautore di moda stava per dare a Madrid un concerto a lungo atteso, un vero avvenimento per la castigata opposizione democratica. Pablo ripeteva che doveva andarci.

Mio fratello insisteva che non aveva la forza di muoversi, soffriva orribilmente per i postumi di una sbronza.

Allora mi feci avanti, era già una specie di riflesso condizionato.

Improvvisai un'espressione ansiosa, strinsi i pugni cercai di farmi brillare gli occhi e ripetei come un pappagallo che mi sarebbe piaciuto tantissimo, davvero, mi sarebbe piaciuto tantissimo andarci.

Era un tentativo che non aveva mai dato nessun risultato.

Ma questa volta Pablo mi esaminò con attenzione e chiese il parere di mio fratello. Marcelo, con una faccia che con mia grande meraviglia, esprimeva più diffidenza che altro, meditò un momento, gli ricordò la mia età e poi gli disse che facesse come voleva.

Pablo mi guardò di nuovo. Io ero tranquilla perché sapevo che mi avrebbe rifiutato.

Non lo fece.

Si alzò, mi prese per un braccio e cominciò a mettermi fretta. Se non uscivamo immediatamente saremmo arrivati tardi, e non c'era alcuna garanzia che il concerto durasse più di dieci minuti. Se ci perdevamo l'inizio, saremmo riusciti appena ad ascoltare le sirene delle macchine della polizia.

Io facevo resistenza. Non avevo fatto in tempo a cambiarmi, avevo addosso l'uniforme della scuola, e soltanto la maglia era nuova, della mia taglia. Ero già la più alta di tutte le mie sorelle. La gonna l'avevo ereditata da Isabel e mi stava molto corta, un palmo sopra il ginocchio. La blusa era di Amelia, altra eredità, i bottoni minacciavano sempre di schizzare via. All'inizio della scuola mia madre si era mostrata meno disposta che mai a spendere soldi; in fondo quello era il mio ultimo anno. I calzettoni erano mezzo sciupati, l'elastico si era allentato e non potevo fare un passo senza che mi scendessero giù alla caviglia. Le scarpe erano spaventose, con una suola di gomma alta due dita. E tutto, eccetto il montgomery verde, proprietà in origine di uno dei miei fratelli maschi, era di uno spaventoso colore marrone.

Quando una nasce settima di nove figli, soprattutto se gli ultimi due sono gemelli, non rinnova mai nemmeno l'uniforme.

Fu inutile. Non era disposto ad aspettare nemmeno un minuto, benché avessimo tempo in abbondanza.

«Sei molto carina anche così.» Quando stavamo per uscire, Marcelo mi chiamò, e mi disse che era meglio che Pablo se ne andasse per primo e che, nel frattempo, io inventassi qualcosa per Amelia, che andavo a studiare a casa di Chelo, o una storia del genere.

Non capii la ragione di quell'avviso, ma Pablo sembrò intenderla, si fermò a guardarlo e gli disse qualcosa di ancora più strano.

«Dai, Marcelo, per chi mi prendi!» Mio fratello rise, e non disse altro.

Lui uscì per primo. Quando scesi, mi stava aspettando sul portone.

Il montgomery era leggermente più lungo della gonna, e l'orlo ruvido mi sfiorava le cosce mentre camminavo. Mancava poco a Natale. Faceva freddo.

Mi allacciai il primo bottone e alzai il cappuccio. Mi guardai con la coda dell'occhio nel piccolo specchio incassato nella vetrina di legno di un vecchio negozio di alimentari, e decisi che il cappuccio non mi donava. Mi resi conto che non si vedeva nemmeno l'orlo dell'uniforme.

Sotto il giaccone verde avrei potuto essere senza vestiti.

Pablo aveva una 1500 di seconda mano, abbastanza scassata, ma pur sempre una macchina. Mi sentivo eccitatissima, era la prima volta che uscivo con lui, la prima volta che uscivo di sera e la prima volta che uscivo con un ragazzo che avesse la macchina.

Il tragitto fu lungo. La strada della Castellana era gremita di macchine piene di bambini e di provviste, famiglie intere che andavano a passare il fine settimana in montagna.

Lui parlava di continuo, apertamente maligno e pettegolo, mi raccontava aneddoti, storie inverosimili, esagerando, il genere di conversazione con cui in passato era solito disarmare mia madre ogni volta che arrivava a casa nostra e trovava Marcelo in castigo, senza potere uscire.

Allora pensai che mi trattava come una bambina. Lo sorpresi un paio di volte a guardarmi le gambe e non fui capace di trarne alcuna conclusione.

Quando parcheggiammo, abbastanza lontano dal padiglione, si voltò verso di me e mi dette una serie di istruzioni.

Non dovevo separarmi da lui per nessun motivo. Se arrivava la polizia, non dovevo innervosirmi. Se facevano a botte, non dovevo mettermi né a strillare né a piangere. Se bisognava scappare, gli avrei dato la mano e saremmo usciti di corsa, senza aprire bocca. Aveva promesso a Marcelo di riportarmi a casa sana e salva.

Drammatizzava deliberatamente, per eccitarmi con la prospettiva del rischio e della fuga.

Mi chiese se sarei stata capace di comportarmi come una brava bambina obbediente.

Gli risposi di sì, molto seriamente, gli avevo creduto fino all'ultima parola.

Si piegò verso di me e mi baciò due volte, prima lievemente, al centro della guancia sinistra, poi sul bordo della mandibola, quasi sull'orecchio.

Aveva approfittato del mio rapimento di ragazzina in pericolo per mettermi una mano sulla coscia. Aveva già una strana abilità nel palpare le donne con eleganza.

 

Quando arrivammo alla porta, cominciò il rito dei saluti, dei baci e dei rallegramenti. Mi sentivo ridicola tra tanta gente, con il mio montgomery verde e i calzettoni arrotolati alla caviglia. Pablo sembrava assorto nel proprio successo mondano, così gli lasciai andare il braccio e cercai di tirarmi indietro. Ma nonostante le apparenze mi stava marcando da vicino. Mi afferrò il polso e mi obbligò a rimanere accanto a lui. Poi, sempre senza guardarmi, mi prese per mano, ma non me la dette come fanno di solito i fidanzati, con le dita intrecciate, la prese e la strinse tra l'indice e il pollice, come coi bambini piccoli sulle strisce pedonali.

Non mi avrebbe mai dato la mano in altro modo.

Un uomo di una certa età dall'aria sorniona, uno scrittore consacrato che spiccava tra la folla per la sua espressione svogliata, come se in realtà di quell'avvenimento gli importasse molto poco, fu l'unico a notare la mia presenza. Mi fissò a lungo, sorridendo. Quando gli passammo accanto, allargò il sorriso e si voltò verso di noi, parlando a voce bassissima.

«Bravo Pablito...!» L'interessato scoppiò in una risata.

«Gli sei piaciuta. Lo sai chi è?» Sì. Lo sapevo.

La gente cominciava a mettersi in fila e a entrare e anche noi ci accodammo. Poco dopo cominciò la confusione. Alla porta i buttafuori del servizio d'ordine bloccarono l'ingresso e cominciarono a gridare che lì senza biglietto non entrava nessuno. Quelli che avevano creato il conflitto, un gruppo di quindici o venti adolescenti, risposero che non avevano nessuna intenzione di spostarsi. Così rimanemmo fermi per un bel pezzo, finché qualcuno non cominciò a spingere dal fondo della fila.

La prima carica mi spostò in avanti. Ora ero proprio dietro Pablo, appiccicata a Pablo, la sua nuca mi sfiorava il naso.

In fondo gridarono di nuovo, come per prendere la rincorsa, e scatenarono una seconda valanga. I sei bottoni del mio montgomery gli si piantarono nella schiena.

Gli chiesi se gli avevo fatto male. Mi rispose di sì, un po'. Mi sbottonai il montgomery. Faceva caldo con tutta quella folla. Da dietro continuavano a spingere. L'aria diventò pesante, c'era odore di gente. Pablo mi prese per i polsi e mi obbligò ad abbracciarlo. Doveva sentire il mio corpo contro il suo, e il mio respiro sopra la nuca. Io stavo bene. Sapevo che quella situazione mi prestava una specie di impunità. Non osai baciarlo, ma cominciai a strusciarmi contro di lui. Lo facevo per me, per avere qualcosa da ricordare di quella sera, ero certa che lui non si rendeva conto di niente. Mi muovevo molto lentamente, stringendomi e allontanandomi da lui, piantandogli i seni nella schiena e mordendo pezzettini minuscoli del suo maglione bordò finché la lana, ruvida, non mi fece stridere i denti Il tumulto cessò bruscamente come era iniziato. Faceva di nuovo freddo. Mi staccai da Pablo, il più in fretta possibile.

E lui cominciò a comportarsi in modo piuttosto strano.

Guardò l'orologio, rimase un paio di minuti a fissarlo poi uscì dalla coda e cominciò a camminare nell'altro senso, con grande decisione.

«Andiamo.» Obbedii, senza capire molto bene cosa era successo.

«Fumi spinelli?» Il tono della sua voce era cambiato, non lo riconoscevo più. Rimasi in silenzio perché non sapevo che dire «Rispondi.» Sì, li fumavo ma non lo ammisi. Non mi fidavo più di lui. Feci segno di no con la testa, serissima Senza smettere di camminare, tirò fuori una pallina di roba da una tasca, la riscaldò e mi passò una sigaretta.

Non osai chiedergli cosa voleva che facessi. Feci come mi disse: leccai la carta, l'aprii e vuotai il tabacco nel palmo della mano.

Si fermò un momento per prenderlo e arrotolare lo spinello.

Lo accese, gli dette due tirate e me lo porse.

Rimasi lì impalata e di nuovo feci cenno di no con la testa.

«Perdio, Lulù, ti stai comportando come una stupida!» Lui, Chelo e mio padre erano le uniche persone che continuavano a chiamarmi così. Marcelo di solito mi chiamava anatroccolo, perché ero, e continuo a essere, molto maldestra.

Presi lo spinello, tirai un paio di boccate e glielo restituii.

Continuammo a camminare, e a fumare. Dopo un po' mi azzardai a chiedere: «Perché non siamo entrati?» Lui mi sorrise. «Ma ti piace davvero quello lì?»

«No...» ero sincera soltanto in parte. In realtà a quei tempi non sapevo nemmeno che cantasse in catalano.

«Non piace nemmeno a me. Per cui... che senso aveva entrare?»

«Dove andiamo?» Non mi rispose. Ci infilammo in una viuzza. A pochi passi da noi c'era una tenda rossa con delle lettere dorate.

Pablo aprì la porta. Prima di entrare notai le due piante smorte di alloro che fiancheggiavano l'entrata, e la luce giallastra che mandava la lampada avvitata al muro. Dentro era buio.

«Fai attenzione, anatroccolo! Ci sono degli scalini.» Nonostante tutto fui lì lì per cadere. Pablo tirò da parte un pesante tendaggio di pelle ed entrammo in un bar.

Rimasi paralizzata dalla vergogna. La maggior parte degli uomini aveva la cravatta. L'età media delle donne non doveva scendere di molto sotto i trent'anni. I minuscoli tavolini attorno ai quali erano seduti, quasi tutti a coppie, avevano tovaglie sui toni del rosso. La luce era scarsa e la musica molto bassa.

I capelli mi erano sfuggiti dalla coda di cavallo e mi ricadevano sul viso. La consapevolezza di portare l'uniforme mi torturava. Mi guardavano tutti.

Questa volta era vero. Mi stavano guardando tutti.

Ci sedemmo al bancone. Lo sgabello era alto e rotondo, molto piccolo. La gonna si tese sopra le mie cosce. Sembrava ancora più corta. Incrociai le gambe e fu ancora peggio, ma non osai muovermi più.

Pablo parlava con il cameriere, che mi guardava con la coda dell'occhio.

«Cosa vuoi?» Ci pensai un po' su, in realtà non lo sapevo.

«Non mi dirai che sei anche astemia...» Il cameriere si mise a ridere e io mi sentii male. Cercai di rendere la voce più profonda e chiesi un gin-tonic.

Pablo si rivolse al cameriere, sorridendo.

«Si chiama Lulù...»

«Oh! Le si addice Lulù...»

«In realtà mi chiamo Maria Luisa.»

Non so perché mi sentii in dovere di dare spiegazioni.

«Lulù, saluta il signore.»

Pablo riusciva a stento a parlare, rideva rumorosamente, io non capivo nulla.

«Ho fame.» Non mi venne in mente niente di meglio.

Avevo fame.

Mi misero davanti un piattino di patatine fritte e cominciai a divorarle.

«Le signorine beneducate non mangiano così in fretta.» Si mostrava di nuovo amabile e allegro, ma la voce continuava a suonare diversa. Mi trattava con una mescolanza sconcertante di fermezza e di cortesia, lui, che non era mai stato fermo con me, né tanto meno cortese.

«Ma io ho fame.»

«E poi le signorine beneducate lasciano sempre qualcosa nel piatto.»

«Sì..» Beveva gin liscio. Vuotò il bicchiere e ne chiese un altro.

Io avevo finito il mio e feci cenno di imitarlo.

«Tu per oggi basta.» Prima che avessi il tempo di aprire bocca e cominciare a protestare, lo ripeté con fermezza: «Non bevi altro».

Quando ce ne andammo, il cameriere mi salutò molto cerimoniosamente.

«Sei una bambina incantevole, Lulù.» Pablo rise di nuovo. Io ero stufa di sorrisini enigmatici, stufa di essere trattata come un agnellino bianco con un fiocco rosa al collo, stufa di non controllare la situazione.

Non che non fossi capace di immaginare possibili sviluppi, è che li scartavo in partenza perché mi sembravano inverosimili, inverosimile che lui volesse davvero perdere tempo con me, non capivo perché insistesse di fatto a perdere tempo con me, perché lo stesse perdendo.

 

Fuori faceva molto freddo. Mi passò un braccio sulle spalle, un segno che non volli interpretare, sconfitta dallo sconcerto, e camminammo in silenzio fino alla macchina.

Mentre apriva la portiera feci di nuovo una domanda, quella fu una notte piena di domande.

«Mi porti a casa?»

«Vuoi che ti porti a casa?» In realtà sì lo volevo, volevo mettermi a letto e dormire.

«No.»

«Benissimo.» Dentro, si fermò a guardarmi ancora un istante. Poi, con un movimento perfettamente sincronizzato, mi mise la mano sinistra tra le cosce e la lingua in bocca e io allargai le gambe e aprii la bocca e cercai di rispondergli come potevo, come sapevo, cioè non molto bene.

«Sei bagnata...» La sua voce, parole sorprese e compiaciute allo stesso tempo, suonava molto lontana.

La sua lingua era calda, e sapeva di gin.

Gli leccò tutto il viso, il mento, la gola e il collo, e allora decisi di non pensare più, decisi per la prima volta di non pensare, lui avrebbe pensato per me.

Cercai di abbandonarmi, di gettare indietro la testa, ma non me lo permise. Mi chiese di aprire gli occhi.

Si girò verso di me e infilò la gamba sinistra tra le mie, spingendo verso l'alto, obbligandomi a muovermi contro i suoi pantaloni di cotone.

Sentivo caldo, sentivo che il mio sesso si gonfiava, si gonfiava sempre di più, era come se si chiudesse da solo, nel suo stesso gonfiore, e diventava rosso, sempre più rosso, e poi violaceo e la pelle era lucida, appiccicosa, il mio sesso si ingrossava di fronte a qualcosa che non era piacere, che non aveva niente a che fare con il piacere facile, il vecchio piacere familiare, questo non assomigliava a quel piacere, era piuttosto una sensazione snervante, insopportabile, nuova, perfino molesta, alla quale però non era possibile rinunciare.

Mi sbottonò la camicetta ma non mi tolse il reggiseno. Si limitò a tirarlo verso il basso, incastrandomelo sotto i seni, che accarezzò con delle mani che mi sembrarono enormi.

Mi morse un capezzolo, solamente uno, solamente una volta, strinse i denti fino a farmi male, poi le sue mani mi abbandonarono, anche se la pressione della coscia si faceva sempre più intensa.

Sentii il rumore inequivocabile di una cerniera.

Mi prese la mano destra, la mise intorno al suo cazzo e la scosse due o tre volte.

Quella notte anche il suo cazzo mi sembrò enorme, magnifico, unico, sovrumano.

Continuai da sola. Di colpo mi sentii sicura. Questa era una delle poche cose che sapevo fare: seghe. L'estate precedente, al cinema, avevo fatto abbastanza pratica con il mio fidanzato, un bravo ragazzo della mia età che mi aveva lasciato completamente fredda.

Cercai di concentrarmi, di farlo bene, ma lui mi corresse subito.

«Perché muovi la mano così in fretta? Se continui così, vengo subito.» Non capii il suo ammonimento.

Io credevo che si dovesse muovere la mano molto velocemente.

Credevo che lui volesse venire e che poi saremmo andati a casa. Credevo che fosse normale così, ma, per qualche strana ispirazione, non lo dissi.

La sua mano mi afferrò il polso per imprimere un ritmo nuovo alla mia mano, un ritmo lento e stanco, la condusse verso il basso, ora gli sto toccando le palle, e di nuovo in alto, ora ho solo la pelle tra le dita, molto lentamente. Continuammo così per un bel pezzo. Io mi guardavo la mano, affascinata, lui guardava me, sorrideva.

Erano scomparse le ansie, la violenza iniziale. Ora sembrava tutto molto dolce, molto lento. Il mio sesso rimaneva gonfio, si apriva e si chiudeva.

«Ho sempre avuto molta fiducia in te.» La sua voce era tenera.

Quel pezzo di carne rossa e scivolosa era diventato la stella della serata. Lui ormai non mi toccava, non mi faceva niente. Si era spostato impercettibilmente, per non disturbarmi, fino a recuperare la posizione iniziale. Ora occupava di nuovo il sedile del guidatore, il corpo arcuato in avanti, le braccia penzoloni indietro.

Mi avvicinò la bocca all'orecchio.

«Hai...?» Non terminò la frase, rimase muto, pensoso, come se stesse scegliendo le parole. «Hai mai preso in bocca il cazzo a qualcuno?» Smisi di muovere la mano, alzai la testa e lo guardai negli occhi.

«No.» Stavolta non mentivo, e lui se ne rese conto.

Non disse niente, continuava a sorridere. Allungò la mano e girò la chiave della messa in moto. Il motore si accese.

I vetri erano appannati. Fuori la temperatura doveva essere gelida, una cortina di vapore si alzava dal cofano.

Tornò ad appoggiarsi contro il sedile, mi guardava, e io mi rendevo conto che il mondo mi stava cadendo addosso, mi stava cadendo addosso.

«Mi fa schifo.»

«Capisco.» Mise un piede sull'acceleratore e lo schiacciò due o tre volte.

Mi morsi la lingua. Mi mordo sempre la lingua per una frazione di secondo prirna di prendere una decisione importante.

Abbassai la testa, chiusi gli occhi, aprii la bocca, e decisi che, dopo tutto, non c'era niente di male nell'assicurarsene prima.

«Non ti metterai mica a fare pipì?» Questo lo divertì molto, quasi tutte le mie parole, quasi tutte le mie azioni, lo divertirono molto quella sera.

«No, se non vuoi.» Mi feci molto seria.

«Non voglio.»

«Lo so già, stupida, stavo solo scherzando.» Il suo sorriso non mi tranquillizzò troppo, ma ormai non potevo tirarmi indietro, e così chinai di nuovo la testa, chiusi di nuovo gli occhi, aprii di nuovo la bocca e tirai fuori la lingua. Era meglio cominciare con la punta della lingua, prima, l'idea di leccarlo mi sembrava più tollerabile.

Pablo si arcuò di più, si stirò come un gatto e mi mise una mano sopra la testa.

Lo impugnai con la mano sinistra e cominciai dalla base, appoggiai la lingua contro la pelle e la mantenni ferma un momento. Poi cominciai a salire, molto lentamente. La maggior parte della mia lingua continuava a rimanere dentro la bocca, di modo che, salendo, ci passavo su con il naso, poi con la lingua e infine col labbro inferiore, che seguiva la scia della mia stessa saliva. Quando arrivai al bordo, ritornai verso il basso, alla base, per ricominciare a salire molto lentamente.

Pablo sospirava. I peli mi facevano il solletico al mento.

La seconda volta osai arrivare alla punta.

Aveva un sapore dolce.

Tutti i cazzi che ho sentito in vita mia avevano un sapore dolce, il che non vuol dire esattamente che avessero un buon sapore. Era duro e caldo, appiccicoso naturalmente, ma tutto sommato risultava sorprendentemente meno ripugnante di quanto avessi immaginato all'inizio, e pian piano mi sentii meglio, più sicura, l'idea che lui era alla mia mercé, che mi sarebbe bastato chiudere la bocca e stringere un istante i denti per farla finita con lui era confortante.

Percorrevo la sua fessura con la punta della lingua, scendevo lungo quella che sembrava una specie di cucitura invisibile fino al grosso bordo e mi fermavo proprio sotto di esso, per seguirne il contorno. Facevo tutto molto lentamente -in situazioni come questa non è mai stato necessario dirmi le cose due volte -, e stavo cominciando a pensare che non era affatto male.

Oggettivamente non ricavavo alcun piacere da quell'attività, se non forse quello del contatto con una carne nuova, che la mia lingua percepiva molto più nitidamente di quanto avessero mai percepito le mie mani.

No, non ricavavo alcun piacere da quell'attività e tuttavia ero sempre più eccitata. Da qualche parte nella mia testa, abbastanza lontano da non infastidirmi, abbastanza vicino perché lo notassi, palpitavano la mia minore età, ancora sei anni ai ventuno (la maggiore età era allora ai ventun anni, ma per me era lo stesso, in pratica non avrei votato nessuno), il dramma dello stagno, quando svenni nell'acqua e Pablo mi salvò la vita, ricordi delle estati della mia infanzia, lui e mio fratello che mettevano le mani addosso a due ragazze sull'altalena del giardino mentre io li spiavo, e le parole di mia madre che diceva alle sue amiche: Pablo è di famiglia, è quasi come un figlio per me...

Marcelo, a casa, doveva pensare che stavamo ancora facendo gli scemi con un accendino. Io cercavo di non dimenticare che ero dentro una macchina, in mezzo alla strada, a succhiare il cazzo a un amico di famiglia e sentivo ondate di un piacere intenso. Mi riconoscevo, disonorata, era delizioso, ricordavo i soliti ammonimenti - i ragazzi si divertono e basta con quel genere di ragazze, non le sposano -, ed ero cosciente anche della relazione peculiare che si era stabilita tra di noi. Dopo i baci e le dimostrazioni strettamente necessarie a conquistarmi, lui osservava una passività quasi totale. Seduto, ben diritto e vestito, lasciava fare.

Io, buttata sopra il sedile, mezza nuda, rattrappita e scomoda, accettavo senza difficoltà quello stato di cose.

Mia madre ripeteva sempre che con lui mi avrebbe lasciato andare in capo al mondo, e in effetti mi sembrava di esserci vicina.

Quando stavo iniziando a chiedermi se mi ero ormai abbastanza familiarizzata col suo cazzo da mettermelo in bocca, lui decise di nuovo anche per me. La mano che riposava sopra la mia testa Si diresse bruscamente verso il basso. Mi prese di sorpresa e ne inghiottii un bel pezzo.

Ritirai istintivamente le labbra, ma la sua mano continuò, impassibile, a spingermi verso il basso. Ripetemmo il gioco cinque o sei volte.

Era divertente, cercare di resistere.

Avevo la bocca piena. Sentivo i piccoli rigonfiamenti delle vene, le impercettibili asperità della pelle rugosa, che saliva e scendeva obbedendo agli impulsi della mia mano, sapeva di dolce e di sudore, la punta mi colpiva il palato cercai di inghiottirlo tutto, di mettermelo tutto in bocca e dovetti contenere un paio di conati.

Pablo mi tolse l'elastico, fece scivolare la mano sotto i capelli e, un po' sopra la nuca, la richiuse, afferrando una ciocca molto vicino alla radice. La tirava verso il basso e poi verso di sé, guidandomi ancora una volta. Le sue nocche mi si conficcavano nella testa. Mi faceva male, ma non feci niente per evitarlo. Mi piaceva.

Ora si muoveva anche lui, leggermente, entrava e usciva dalla mia bocca.

«Ho sempre saputo che eri una bambina sporcacciona, Lulù», parlava lentamente, masticando le parole, come se fosse ubriaco, «ho pensato molto a te, negli ultimi tempi, ma non avrei mai pensato che fosse così facile...» Il mio sesso accusò immediatamente il colpo, avrebbe finito per esplodere in mille pezzi se continuava a ingrossare a quel ritmo.

Continuavo a tenere gli occhi chiusi ed ero completamente concentrata su quello che stavo facendo, mi ero talmente piegata in avanti da ritrovarmi praticamente sdraiata di fianco sul sedile, con le gambe ripiegate, la manovella del finestrino contro la coscia, mentre cercavo di far seguire con precisione alla mia mano il movimento della bocca, sfidando apertamente la mia naturale goffaggine, con un tale impegno che mi ci volle qualche tempo prima di accorgermi del profondo cambiamento di situazione.

Ci stavamo muovendo.

All'inizio pensai che fosse soltanto un'impressione soggettiva, quella notte erano successe molte cose, ma, all'improvviso, la macchina si riempì di luce, io aprii gli occhi e guardai verso l'alto, erano là, tutti i lampioni della Castellana, a restituirmi lo sguardo.

Stupore, prima. Come poteva muovere il cambio senza che io me ne rendessi conto? Ma in realtà sotto di me non c'era nessun cambio, mi ci volle un po' di tempo prima di ricordare che in quella macchina il cambio era attaccato al volante.

Terrore, poi. Panico.

Feci un salto come fossi spinta da una molla invisibile.

Quando alla fine riuscii ad accomodarmi sul sedile di destra, mi resi conto che ero mezza nuda. Mi coprii alla meglio, con il maglione e con le mani, offrendo uno spettacolo sicuramente patetico.

Pablo schiacciò bruscamente il freno. Ci fermammo nella corsia centrale, tra i fischi stridenti di un autobus che ci schivò sterzando a destra.

Quando ci passò accanto riuscii a distinguere il guidatore, che gesticolava con un dito alla tempia.

La mia opinione non era molto diversa dalla sua.

«Ma che fai?» Ero molto spaventata. «Potevamo ammazzarci.»

«Faccio quello che fai tu.»

«Non ti puoi fermare così, in mezzo alla strada...»

«Anche tu non potevi, e ti sei fermata.» All'improvviso mi resi conto che ormai non sembrava più un adulto. Aveva perso tutta la sua disinvoltura per trasformarsi in un adolescente contrariato, stizzito. Il suo piano era fallito ed era commovente contemplarlo ora, con i pantaloni aperti e il viso serio, mentre guardava con espressione offesa un punto fisso, in lontananza. Per la prima volta in vita mia, per la prima e l'ultima nella mia vita con lui, sentii di essere una donna, una donna adulta. Era una sensazione piacevole, ma non me la potevo godere. Pablo era furioso.

Cercai di recuperare la calma per valutare correttamente la situazione. Mi voltai verso il finestrino e controllai i guidatori che mi sfilavano accanto, erano solamente busti, corpi tagliati poco sotto l'ascella.

Ero incerta.

«Ti riporto a casa. Scusa, sono ubriaco.» All'improvviso sentii una terribile voglia di piangere.

Il miraggio era svanito. La sua voce era seria e tranquilla, la voce di un adulto che chiede perdono senza sincerità, scusa, sono ubriaco, una formula di cortesia per una bambina che, dopo tutto, non è stata all'altezza delle aspettative, mi guardò un momento, sorridendomi, e il suo era un sorriso formale, amabile, sprovvisto di qualsiasi complicità, il sorriso di un adulto condiscendente, di un vecchissimo amico di famiglia, sinceramente dispiaciuto per essersi lasciato andare.

Rimpicciolii di colpo, mi facevo sempre più piccola, sempre più piccola, e piangevo, non riuscivo a frenare le lacrime.

Ora andavamo abbastanza veloci, la mia casa non era molto lontana, dopo tutto, la mia casa non è lontana, ero paralizzata, non riuscivo a pensare ma dovevo farlo, dovevo pensare in fretta, il tempo mi sfuggiva, mi scorreva tra le dita, e quello era importante, era importante.

Mi voltai a guardarlo. Non so quando, si era tirato su la cerniera senza che io me ne accorgessi.

Mi gettai su di lui, lasciai cadere tutto il mio corpo a sinistra e cominciai a frugargli nei pantaloni, ma ero molto nervosa, piangevo, e le mani mi si imbrogliavano continuamente.

Riuscii ad aprirgli la cintura e mi colpii da sola la guancia con uno degli estremi. Continuavo a piangere, piangevo di rabbia perché non riuscivo a fare le cose in fretta. Gli slacciai il bottone, gli abbassai la cerniera e lo tirai fuori, era piccolo, niente a che vedere con l'acuminato splendore di appena qualche istante prima, e me lo misi in bocca, ora mi ci entrava perfettamente, e cominciai a fare tutto quello che sapevo, e anche di più, volevo ingraziarmelo a ogni costo, ma non cresceva, quel maledetto non cresceva e così, piccolo e molle, era tutto più difficile.

Lo tenevo in bocca, lo tiravo fuori, poi lo rimettevo dentro e lo succhiavo, e all'improvviso pensai che ora mi piaceva, poi respinsi l'idea, non era questo, in realtà non mi piaceva, era solo che doveva crescere, doveva crescere a qualunque costo, di tanto in tanto lo tiravo fuori di bocca e lo leccavo come avevo fatto all'inizio, lo percorrevo tutto con la lingua, lo coprivo di saliva, dalla punta alla base e di nuovo alla punta, e me lo rimettevo in bocca, lo scuotevo energicamente tra le labbra, lo inghiottivo e muovevo la lingua dentro la bocca, solamente la lingua, come se succhiassi il sangue di una ferita inesistente, e poi, da fuori, mentre lo tenevo stretto in mano, mi tuffavo oltre la base, e continuavo a penetrare nell'esiguo spazio tra la stoffa e la carne, fino a riempirmi la bocca di peli, per ricominciare da capo.

La prima cosa che notai fu che avevamo cominciato ad andare molto più piano, e che ci spostavamo continuamente da un lato all'altro della strada, cambiando di corsia. Poi sentii la sua mano sopra la testa, di nuovo. Solo alla fine mi resi conto che era di nuovo eccitato, che lo avevo eccitato io, ancora una volta.

Ci fermammo. Un semaforo. Non osai alzare la testa nemmeno un istante, ma socchiusi gli occhi per cercare di calcolare dove eravamo. Un ponte di metallo attraversava la strada, in direzione perpendicolare alla nostra.

Sono di Madrid. Conosco la Castellana a memoria.

In quel momento il fantastico Babbo Natale al neon dei grandi magazzini Corte inglés ci doveva salutare con la mano.

Me lo misi in bocca e cominciai a muovermici sopra, dall'alto in basso, meccanicamente, per poter pensare. Dovevamo fare ancora un bel pezzo, in tutti i modi. Quella era la strada obbligata per andare a casa mia, e anche per andare a casa sua.

Da allora cercai di calcolare ogni metro che percorrevamo, e la strada ormai non era la strada, non c'era gente e se c'era non importava, era soltanto una distanza, la distanza era I unica cosa importante ora.

La prima riprova fu il rumore della fontana, stavo già cominciando a pensare che non sarei mai arrivata a sentirlo, Ci muovevamo così lentamente che quella immensa mole grigia fini per sembrarmi eterna.

Ci lasciammo alle spalle il rumore dell'acqua e proseguimmo.

Primo sussulto di gioia. Aveva tralasciato a destra la via più corta. Continuavamo diritto.

Qualche minuto dopo guardai di nuovo con la coda dell'occhio per assicurarmi che fossimo arrivati a Colon. Conferma.

Non andavamo a casa mia. Sorpresa. Non andavamo nemmeno a casa sua.

Dove mi portava? Acqua. Ci lasciammo alle spalle la vecchia signora della fontana e proseguimmo. Quella storia cominciava ad assomigliare alla barzelletta dell'ignorante che sa guidare soltanto in linea retta.

Passammo di nuovo accanto a un'altra fontana, acqua, ma quella sarebbe stata l'ultima.

Girammo a sinistra, svoltammo un paio di volte e il muso della macchina, oplà! picchiò un colpo. Quella volta per poco non lo inghiotto sul serio.

Il motore si fermò, ma non osai imitarlo. Pablo mi prese per il mento, mi sostenne mentre mi raddrizzavo, mi abbracciò e mi baciò.

Quando ci separammo, si spostò un momento indietro e mi guardò. Non disse nulla, la mia interpretazione fu che tentava di indovinare se avevo paura.

«Questa non è casa mia.» Cercavo di sembrare brillante.

«No», rise, «ma sei già stata qui.» Quando scendemmo vidi che aveva parcheggiato la macchina in diagonale sopra il marciapiede. E sempre stato molto abile in queste cose.

La casa, un edificio grigio e buio, con più o meno un secolo alle spalle, non mi diceva niente. Il portale, un bel portale in stile modernista, si chiudeva su un enorme portone di legno a due battenti, con vetrate a piombo di diversi colori. Il pomello, un grande pomello dorato che terminava in una testa di delfino, mi risultava invece vagamente familiare.

Lui mi fece strada. Si fermò davanti a una porta con una targa dorata in mezzo e allora ricordai.

Stavamo entrando nel laboratorio di sua madre, l'atelier come lo chiamava lei, una modista di una certa fama, che disegnava già quattro o cinque collezioni all'anno, e ripeteva sempre come un pappagallino la filastrocca della tensione della creazione, della responsabilità sociale del creatore e dell'impatto del pret-à-porter sullo stile della vita urbana contemporanea, un'autentica imbecille. Mia madre era stata sua cliente in passato, prima che si montasse la testa. Io a volte la accompagnavo alle prove, e mi sedevo su un enorme seggiolone con una pila di grosse riviste francesi, splendide modelle con enormi orecchini e cappelli vistosi, mi incantavo a guardarle.

Lui mi fece strada. Passando accanto a uno dei divani del corridoio prese con la punta delle dita, senza fermarsi, due grossi cuscini quadrati. In fondo si apriva una grande porta a due battenti, la sala delle prove. Accese la luce, tirò i cuscini per terra, mi fece un gesto vago con la mano per indicarmi di entrare, e sparì.

Il seggiolone era ancora lì, allo stesso posto, avrei giurato che era lo stesso, con una tappezzeria diversa.

«Lulù...» Non ricordavo gli specchi, però, le pareti erano coperte di specchi, specchi che si guardavano in altri specchi che a loro volta riflettevano altri specchi e in mezzo a tutti c'ero io, io con il mio spaventoso maglione marrone e la gonna a pieghe, io di fronte, io di spalle, di profilo, di scorcio...

«Lulù!» Ora gridava, da non so dove.

«Cosa...»

«Vuoi bere qualcosa?»

«No, grazie.»... io, un agnellino bianco con un fiocco rosa al collo, come l'etichetta del detersivo a cui facevano, e fanno ancora pubblicità in televisione.

Pablo tornò con un bicchiere in mano e si sedette sul seggiolone, a guardarmi.

Io ero arrossita ma non si vedeva, non si vede mai, sono troppo scura, e continuavo a rimanere lì impalata in mezzo alla sala, non mi ero mossa perché non sapevo cosa dovevo fare, né dove andare.

«Non ho mai visto delle scarpe così orrende in vita mia.» Non abbassai lo sguardo perché le conoscevo a memoria ed erano davvero orrende.

«Non vi lasciano portare i tacchi in collegio?» No, evidentemente no, che sciocchezza, non potevo portare scarpe col tacco in un collegio di monache, nemmeno in sesta, benché ti lasciassero uscire a fumare durante la ricreazione.

«No, non è permesso», gli risposi, «in nessun modo.»

«Toglile» Le sue parole suonavano come fossero ordini, questo mi piacque, e obbedii. «Vieni qui.» Si dette una pacca sulle cosce.

Mi avvicinai e mi sedetti in braccio a lui, infilando le gambe tra il suo corpo e i braccioli del seggiolone. Prima, istintivamente, non sono mai riuscita a capire perché, ma non importa, sollevai all'indietro la gonna, che gli ricoprì le ginocchia, mentre le mie cosce, sotto, appoggiavano direttamente sulla stoffa dei suoi pantaloni.

Quel gesto lo sorprese molto.

«Dove hai imparato a farlo?» Il suo viso rifletteva di nuovo una specie di compiaciuta meraviglia.

«Cosa?» Non capivo, non mi sembrava di avere fatto niente di speciale.

«Alzarti la gonna prima di sederti sulle ginocchia di un uomo. Non è un gesto naturale.» Forse aveva ragione, non era un gesto naturale, ma in quel momento non capivo bene di cosa mi stesse parlando.

«Non lo so, non capisco.»

«E lo stesso.» Non importava. Era contento. Sorrideva.

Mi baciò sulle labbra, lievemente. «Ora togliti il maglione e comportati bene, non parlare, non ridere. Voglio fare una telefonata.» Mi tolsi prima la manica sinistra, poi sfilai il collo: quando stavo finendo con il braccio destro rimasi raggelata «Marcelo? Ciao, sono io.» Dall'altra parte doveva esserci mio fratello, non ci sono molti Marcelo in giro. «Niente, benissimo.» Mi strappò il maglione di mano, si strinse il telefono tra il mento e il collo e cominciò a sbottonarmi la camicetta, solo due bottoni infilati nell'asola sbagliata, io non mi muovevo.

Non respiravo più, ero bloccata, completamente paralizzata.

«No, non era male, davvero, non lo tiene nessuno, lo sai, ma la gente si è divertita, ha strillato, ha pianto ed è tornata a casa contenta.» Adottava un tono epico, come i cronisti della televisione quando trasmettono una partita della nazionale. «Insomma, ti sei perso una giornata di gloria per il socialismo spagnolo, compagno, un'altra giornata di gloria, andiamo forte...» Potevo sentire le risate di mio fratello, dall'altra parte del telefono, anche Pablo rideva, nemmeno io sono capace di mentire meglio.

Mi infilò una mano dietro e mi slacciò il reggiseno, un Belcor enorme, modello inevitabile, anni settanta, color carne, quadratini in rilievo e tre fiorellini di stoffa in mezzo, la cui contemplazione gli aveva provocato muti ed esagerati spasmi di orrore. Tappò la cornetta con la mano, mi passò un dito sotto la spallina e mi sussurrò all'orecchio: «Questa è la perfida strategia di tua madre perché arriviate tutte vergini al matrimonio, o cosa?» Mi tolse la camicetta e il reggiseno, spostando continuamente il telefono.

«Ah! Lulù... Lulù è stata la mia buona azione di oggi...» Mi guardava e sorrideva, era bellissimo, più bello che mai, incantato dal suo ruolo di coscienzioso e compiaciuto corruttore di minorenni. «Un'altra compagna, caro mio, l'ho trasformata in un'altra compagna, senza corso, né Gorki, né niente. Si è divertita un casino, sul serio», parlava lentamente, guardandomi e sottolineando le parole, parlava contemporaneamente per Marcelo e per me, e mi passava il bicchiere sui capezzoli, lasciando una scia umida, gratuita, perché avevo i seni a punta fin da quando aveva cominciato, anche se il ghiaccio provocava una sensazione contraddittoria e piacevole, «non te lo puoi nemmeno immaginare, ha alzato il pugno, ha strillato come un'isterica, in macchina ha cantato l'Internazionale tutto il tempo, insomma, il repertorio completo, lo sai», mi guardò, «e non ho mai visto muovere la bocca con tanto entusiasmo, era in estasi...», sorrideva e io gli restituivo il sorriso, ormai non avevo più paura, avevo voglia di ridere, anche se non potevo farlo.

Cercai di accelerare le cose e mi slacciai la fibbia del primo laccetto della gonna, ma Pablo fece cenno di no con la testa e mi fece capire che dovevo riallacciarla di nuovo.

«Sai, abbiamo incontrato tanta gente, siamo andati a bere da quelle parti, e ora ha una sbronza che non si regge.» Mi mise la mano libera sotto la gonna e cominciò ad accarezzare il lato inferiore delle cosce con la punta delle dita.

«Non mi rompere le palle, Marcelo! E io che ne so...» Mi infilò il dito indice sotto l'elastico e cominciò a muoverlo dall'alto in basso, molto lentamente, percorrendo con la nocca la linea dell'inguine. «Ma che dici? Io non l'ho portata a bere, siarno andati a prendere un bicchierino, e basta, e lei si è ubriacata da sola, ormai è grande, no? Ma che credevi? Non avevo certo intenzione di passare tutta la sera a badare alla piccola, anche se è la tua cara sorellina. Se l'è svignata un paio di volte, ha bevuto dal mio bicchiere e da quello degli altri, che ne so io..., era molto eccitata, le andava giù bene, e appena è arrivata qui è rimasta fulminata, non si reggeva in piedi. Ora dorme, l'abbiamo messa a letto e ho pensato che poteva restare qui, se non ti dispiace, non mi va di portarla a casa, ora.» La punta del suo dito continuava a sfregare lentamente la fessura del mio sesso, e con l'altra mano, senza lasciare il telefono mi attirò a sé, dovetti appoggiare le mani sullo schienale del seggiolone per mantenere l'equilibrio.

«Che? No, siamo a Moretto... e non mi rompere le palle, Marcelo. Che te ne importa? Non vedo perché qualcuno dovrebbe accorgersene. Lei non ha detto che andava a studiare a casa di un'amica? Beh, si ferma a dormire dalla sua amica ed ecco fatto. Insomma, il matrimonio era a Huesca, no? Non credo che tua madre abbia le antenne così lunghe... No, non so dove è la sua scuola, ma me lo dirà lei, mi sembra di ricordare che ha la lingua... No, Marcelo, te lo giuro, non le ho fatto niente, niente, e nemmeno ho intenzione di farglielo.»

Si spostò finché i miei seni non gli furono proprio all'altezza del viso.

Supponevo che volesse succhiarli, o morderli, come prima, in macchina, ma non fece niente del genere. Mise la faccia nel solco e la sfregò sulla mia pelle, sentivo le sue guance, la bocca, chiusa, e il naso, enorme, si muoveva su di me, stringendosi contro la mia carne, nascondendosi in lei come se fosse quello di un cieco e monco, o di un neonato che dispone solamente del tatto, l'ingannevole tatto del viso, per riconoscere il petto di sua madre, e quando ricominciò a parlare notai finalmente una lieve ombra di alterazione nella voce.

«No, non potevo tornare a casa, Merceditas sta studiando. Domani ha un esame e non volevo darle fastidio. E poi...» mi regalò uno sguardo complice «e poi sono con una ragazza.... Sì, sì la conosci, ma mi sta facendo cenno con la testa... non vuole che tu sappia chi è...» Sul suo viso si disegnò un'espressione di stanchezza. «Tua sorella? Senti, ma non sai pensare ad altro che a tua sorella? Tua sorella sta smaltendo la sbronza due stanze più in là. La sento russare. Non si rende conto di nulla.» Marcelo dovette dire qualcosa di comico, perché lui rise.

«Ma non fare il delicato. Che cazzo importa a Lulù che io metta le corna alla mia fidanzata? Perché dovrebbe sentirsi ferita? Anche se lei crede di essere innamorata di me, non è altro che una bambina. Gli uomini non vanno a letto con le bambine piccole, succede solo nei romanzi, e lei se ne renderà conto, immagino, non è scema.»

Arrossii ancora di più, la faccia mi bruciava.

«E poi..., quanti anni ha? Se ci vede, è meglio per lei, ormai è abbastanza grande da ammazzarsi di seghe.» Sul momento non reagii. «Sì? Non mi dire...» Aprì la bocca e afferrò saldamente uno dei miei capezzoli, tirando di tanto in tanto la carne tra i denti. Poi, all'improvviso, si separò da me, si gettò all'indietro e rimase fermo a guardarmi, con gli occhi spalancati e la bocca socchiusa, passandosi la lingua sul bordo dei denti. Il suo dito cambiò posizione. Uscì dall'elastico e si posò sul centro del mio sesso. Il suo movimento si fece inequivocabile. Ormai non mi sfiorava, né mi accarezzava. Mi stava masturbando da sopra le mutandine.

«Ma.... che cazzo è un flauto dolce?» Mi sentii morire di vergogna. Non avrei mai creduto che Marcelo fosse capace di fare una cosa del genere, ma la fece.

Glielo raccontò. Gli raccontò tutto. Pablo mi fissava con un'espressione incredula. Io mi sentivo male. Tenevo gli occhi fissi sulla mia gonna.

«Che pena questo paese, che vergogna!» Era diventata una giaculatoria, Marcelo e lui lo ripetevano a ogni piè sospinto, per qualsiasi cosa. «Un flauto dolce... Povera Lulù, che bestia!» Mi sentivo divisa tra due sensazioni molto diverse. Morta di vergogna, incapace di guardare Pablo negli occhi, e al tempo stesso sul punto di venire, di venire con le mani ferme, perché era bravissimo, nonostante la stoffa, o forse proprio grazie alla stoffa, il suo dito premeva con la giusta intensità, non mi faceva male, né mi irritava la pelle, come il contatto rozzo, esasperante ma sgradevole, di tutti gli altri.

«Come lo hai scoperto? Te lo ha raccontato lei...! Certo, di chi era il flauto? Di Guillermito! Brava Lulù! Lenta ma sicura.»

Senza smettere di toccarmi, mi prese per il mento e mi sollevò il viso.

«Guardami.» Un sussurro quasi impercettibile.

Lo guardai. Stava sorridendo, mi sorrideva. Abbassai di nuovo gli occhi.

«Non mi stupisce che te l'abbia fatto diventare duro, sai, me lo stai facendo rizzare tu a me per telefono... Sì, è divertente, è una nuova esperienza, dopo tanti anni. E tu che hai fatto? Se ci fossi stato io al posto tuo, ti giuro che me la sarei scopata senza pensarci... Già, sono sempre stato un fratello peggiore di te, o migliore, chi lo sa. In fondo, povera Lulù» (risatine) «non ti preoccupare, ce la porto io a scuola domattina, ti telefono. ciao.»

«Un flauto dolce...» Aveva riappeso. Stava parlando con me.

«Guardami», e il suo dito si fermò.

Non osavo guardarlo, né fare niente, benché tra le gambe sentissi la sua mancanza.

Mi prese per le spalle e mi scosse.

«Cazzo! Lulù, guardami o ti giuro che ti rivesto immediatamente e ti porto a casa.»

La stessa minaccia, lo stesso risultato.

Alzai di nuovo la testa e lo guardai. Uscivo da una vasca piena di acqua tiepida, né calda né fredda, e non avevo niente con cui asciugarmi...

Gli brillavano gli occhi. Aveva un'aria quasi animale. Mi stava facendo male alle braccia.

«Da che parte te lo sei infilato dentro, dal bocchino o dal fondo?»

«Di cima.» Le parole mi uscirono di bocca spontaneamente.

«E ti è piaciuto?»

«Sì, mi è piaciuto, anche se era troppo sottile, non lo sentivo molto, in realtà, solo il bocchino, il resto non si sentiva; e poi Amelia mi sorprese subito, quasi non ebbi il tempo di rendermene conto, davvero, Pablo, te lo giuro...» Cominciai a vederlo annebbiato. Avevo due lacrime enormi negli occhi. Cambiò tono, lasciò cadere le braccia, e mi parlò, mi disse quasi le stesse cose che mi aveva detto Marcelo quella notte, quando andai a raccontarglielo, atterrita, perché la sua stanza era l'unico posto al mondo dove potevo andare.

«Perdonami, non volevo spaventarti, in realtà non c'è niente di cui spaventarsi. Coraggio, non è successo nulla. E che è buffo, un flauto dolce, il flauto di Guillermito, mi ricordo ancora, quando nacquero i gemelli, li odiavi, avevi smesso di essere la più piccola e li odiavi, ora ti sei vendicata di lui sul suo flauto, ho riso soltanto per questo, davvero.

Le altre non hanno tanta immaginazione, si contentano di un dito. Sei una ragazza grande, una ragazza sana, eserciti un diritto e... e... non mi ricordo, le femministe hanno una frase per casi come questo, ma ora non ricordo, in tutti i modi è uguale, va bene, è logico... Lo fanno tutti, anche se le donne non lo ammettono.» Mi asciugò le lacrime con la punta delle dita. «Se smetti di piangere, ti comporti bene e mi racconti tutto, ti comprerò da qualche parte un vibratore vero, solo per te.»

«Non ho mai avuto niente solo per me.»

«Lo so, ma io te lo regalerò perché tu pensi a me quando lo usi. Mi rendo conto che non è un'idea molto originale, però mi piace.» L'ultima osservazione dovette farla per se stesso, perché non la capii. Quanto al resto, pensavo quasi sempre a lui quando mi masturbavo, anche se, ovviamente, non glielo potevo dire. «D'accordo?» Annuii, senza sapere esattamente su che cosa fossimo d'accordo. Non mi ero mai sentita così confusa in tutta la mia vita.

«Alzati in piedi.» Mi alzai.

Ci baciammo a lungo, strusciandoci l'uno contro l'altra.

Mi arrotolò la gonna e la infilò nella cintura, lasciandomi scoperto il ventre. Gli specchi mi restituirono una strana immagine di me stessa.

«Siediti e aspettami, ora vengo.» Si diresse verso la porta e allora, nonostante il mio stordimento, mi resi conto che dovevo dire qualcosa di importante.

Lo chiamai e si voltò verso di me, appoggiando la spalla nell'angolo tra il muro e la porta.

«Non sono mai andata a letto con nessuno, prima...»

«Non andremo in nessun letto, scema, per lo meno per ora. Scoperemo, e basta.»

«Voglio dire che sono vergine.» Mi guardò un momento, sorridendo, e scomparve.

Mi sedetti ad aspettarlo. Cercai di analizzare come mi sentivo. Ero calda, in fregola nel senso classico del termine.

In fregola. Sorrisi.

Mi ero presa centinaia di schiaffi senza capire perché, dopo avere pronunciato questa parola, una delle espressioni più abituali del mio vocabolario. In fregola, suonava così antico... Lo dissi pianissimo, studiando il movimento delle labbra nello specchio.

«Pablo mi ha messo in fregola.» Era divertente. Lo dissi di nuovo, e poi ancora, mentre mi rendevo conto che ero bella, molto bella, nonostante i brufoletti sulla fronte.

Pablo mi aveva messo in fregola.

Lui era lì, con un vassoio pieno di cose, che mi guardava muovere le labbra, forse mi aveva addirittura sentito, ma non disse niente, attraversò la stanza e si sedette davanti a me, con le gambe incrociate come un indiano. Pensai che stesse per leccarmi, in ultima analisi me lo doveva, ma non lo fece.

Mi tolse le mutandine, mi attirò bruscamente a sé, obbligandomi ad appoggiare il culo sul bordo del divano, e mi aprì ancora di più, incastrandomi le gambe sopra i braccioli del seggiolone.

«Su, comincia, sto aspettando.»

«Che vuoi sapere?»

«Tutto, voglio sapere tutto, di chi fu l'idea, come ti scoprì Amelia, cosa raccontasti a tuo fratello, tutto, forza.» Prese una spugna dal vassoio, la immerse in una grossa tazza piena di acqua tiepida e cominciò a sfregarla contro una saponetta, finché non diventò bianca.

Io avevo già cominciato a parlare, parlavo come un automa, mentre lo guardavo e mi chiedevo cosa sarebbe successo dopo, cosa stava per succedere.

«Beh.... non so. A me lo disse Chelo, ma sembra che l'idea fosse di Susana.»

«Chi è Susana? Una alta, castana, coi capelli molto lunghi?»

«No, quella è Chelo.»

«Ah, allora... come è Susana?» Immerse la spugna nella tazza finché non si riempì di schiuma.

«E bassa, molto minuta, anche lei castana ma più sul biondo, devi averla vista per casa.»

«Mmm, continua.» Non riuscivo a credere ai miei occhi. Aveva allungato la mano e mi stava insaponando con la spugna. Mi lavava come fossi una bambina piccola. La cosa mi disorientò completamente.

«Ma... che fai?»

«Non sono affari tuoi, continua.»

«No, la fica è mia, e quello che ci fai sono affari miei.»

La mia voce suonò ridicola anche alle mie orecchie, e lui non rispose. Continuai a parlare. «Beh, Susana lo fa spesso, a quanto pare, infilarsi dentro della roba cioè, e allora raccontò a Chelo che la cosa migliore, quella che le piaceva di più, era il flauto, così decidemmo di provare, anche se a dire il vero a me sembrava una porcheria, da un certo punto di vista, ma lo feci lo stesso a Chelo alla fine no, si tira sempre indietro, insomma, è tutto, il resto lo sai già, non c'è altro da raccontare.» Mise un asciugamano per terra, proprio sotto di me.

Mi era impossibile non guardarmi nello specchio, con i peli bianchi, fantasmagoricamente canuta.

«Come ti scoprì Amelia?»

«Beh, siccome dormiamo nella stessa camera, lei io e Patricia...»

«Patricia, lei e io...», mi corresse.

«Patricia, lei e io», ripetei.

«Molto bene, continua.»

«Credevo di essere sola in casa, sola per una volta nella vita, be', Marcelo c'era, e anche José e Vicente, ma guardavano la televisione, e visto che stavano trasmettendo una partita, allora pensai...» Tirò fuori un rasoio da barbiere dal taschino della camicia. «Che vuoi fare con quello?» Mi guardò in faccia con la sua migliore espressione della serie non succede niente, benché per ogni evenienza mi bloccasse con decisione le cosce.

«E per te», rispose. «Ti voglio radere la fica.»

«Non se ne parla neanche!» Mi gettai in avanti con tutte le forze, cercavo di alzarmi, ma non potevo. Lui era molto più forte di me.

«Sì.» Sembrava tranquillo come sempre. «Ora te la rado e tu te lo lascerai fare. Devi soltanto startene buona.

Non è doloroso. Continua a parlare.»

«Ma... perché?»

«Perché sei molto scura, troppo pelosa per avere quindici anni. Non hai la fica di una bambina. E a me piacciono le bambine con la fica da bambina, soprattutto quando sto per corromperle. Non ti innervosire e lasciami fare. In ultima analisi non è certo più disonorante che infilarsi dentro il flauto della scuola, il flauto dolce, o come si chiama...» Cercai una scusa, una scusa qualsiasi.

«Ma poi a casa se ne accorgeranno e non appena Amelia mi vedrà lo andrà a raccontare alla mamma, e la mamma...»

«Perché Amelia dovrebbe accorgersene? Non credo che la notte facciate delle cose.»

«No.»

Ero diventata così isterica che non ebbi nemmeno il tempo di offendermi per quanto aveva appena detto.

«Ma lei e Patricia mi vedono quando mi vesto e quando mi spoglio, e i peli si notano in trasparenza»

Questo mi tranquillizzò, credetti di essere stata brillante.

«Ah, sì, ma di questo non ti devi preoccupare, ti lascerò il pube praticamente uguale, voglio raderti solo le labbra.»

«Che labbra?»

«Queste labbra.» Vi fece scivolare sopra due dita. Io avevo pensato che avrebbe fatto esattamente il contrario, e mi sembrò che il cambiamento fosse in peggio, ma ormai avevo deciso di non pensare, per l'ennesima volta, non pensare, al passo a cui andavamo il cervello mi si sarebbe fuso quella sera stessa.

«Aprile tu con la mano, per favore...» Lo feci, e continuai a parlare. «Che facesti quando Amelia ti vide?» Sentii il contatto della lama, fredda, e delle sue dita, che mi tiravano la pelle, mentre ricominciavo a parlare, a sputare parole come una mitragliatrice.

«Be', non so... Appena me ne resi conto, lei era già lì davanti, e urlava il mio nome. Uscì correndo dalla stanza, con l'ombrello, sbattendo la porta...» La lama scivolava delicatamente, sopra quelle cose di cui avevo appena appreso il nome, labbra, come le altre. Non sentivo dolore, era piuttosto come una strana carezza, ma non riuscivo a togliermi dalla testa l'idea che potesse scappargli la mano. Riuscivo appena a vedergli il viso, i capelli, neri, la testa china su di me. «... e io uscii di corsa dietro di lei. Non andò in tinello, meno male, andò direttamente alla porta d'ingresso, con l'ombrello, doveva essere venuta semplicemente a cercarlo.

Allora pensai che non avevo altri che Marcelo, e andai a raccontarglielo, avevo ancora il flauto in mano...» Il rasoio si spostò verso l'esterno, mi stava sfiorando la coscia. «Lui era nella sua stanza, aveva un mucchio di carte sopra il tavolo e non so cosa ne facesse, si mise a ridere, rise un sacco, e mi disse di stare tranquilla, che ci avrebbe pensato lui í a tappare la bocca ad Amelia, che per quello che aveva tutto l'interesse a non fare la spia, e mi parlò come hai fatto tu prima...» Pensavo che non mi ascoltasse, che mi facesse chiacchierare a ruota libera, come quando mi operarono di appendicite, per tenermi occupata con qualcosa, invece mi chiese cosa mi aveva detto esattamente Marcelo.

«Ma, le solite cose, che era normale, che tutti si facevano le seghe e che non succedeva niente.»

«Mmm...» La sua voce si fece più profonda. «E non ti toccò?» Ricordai quanto aveva detto prima per telefono («Io al posto tuo me la sarei scopata senza pensarci su») e rabbrividì.

«No...» Doveva avere dato per finito il labbro destro perché sentii il brivido gelato della lama sul sinistro.

«Non ti ha mai toccato?»

«No. Ma che credevi?» Le sue insinuazioni mi sembravano fantascienza.

«Non so, visto che vi volete tanto bene...»

«Tu tocchi tua sorella?»

Mi rispose con una risata, ebbi paura che gli tremasse la mano.

«No, ma si dà il caso che mia sorella non mi piaccia...»

«E io invece ti piaccio?» Le mie amiche dicevano che a un ragazzo questo non si deve mai chiedere direttamente, ma io non potei evitarlo. Lui si spostò all'indietro e mi guardò negli occhi.

«Sì, tu mi piaci, mi piaci molto, e sono sicuro che piaci anche a Marcelo, e forse perfino a tuo padre, anche se lui non lo ammetterebbe mai» sorrise. «Sei una bambina speciale, Lulù, rotonda e affamata, ma pur sempre una bambina.

Quasi perfetta. E se mi lasci finire, perfetta del tutto.» Fu in quel momento, nonostante la situazione stravagante, che il mio amore per Pablo cessò di essere una cosa vaga e confortevole, fu allora che cominciai ad avere delle speranze, e a soffrire. Le sue parole «Sei una bambina speciale, quasi perfetta» sarebbero risuonate nelle mie orecchie per anni; avrei vissuto anni, a partire da quel momento, stretta alle sue parole come a una tavola di salvataggio.

Lui si piegò di nuovo sopra di me e insisté a voce bassissima.

«Ad ogni modo credo che una volta o l'altra dovremmo provare a farlo tutti e tre insieme, tuo fratello, tu e io...» Il rasoio si volse di nuovo verso l'esterno, questa volta dalla parte opposta. «Benissimo, Lulù, ho quasi finito. E stato così terribile?»

«No, ma mi pizzica parecchio.»

«Lo so. Domattina ti pizzicherà ancora di più, ma sarai molto più bella.» Si era tirato un istante indietro, per valutare la sua opera, suppongo, prima di nascondersi di nuovo tra le mie gambe. «La bellezza è un mostro, una divinità sanguinaria che deve essere placata con continui sacrifici, come dice mia madre...»

«Tua madre è una stupida.» Mi uscì dal cuore.

«E vero, senza alcun dubbio...» La sua voce non si alterò minimamente. «Ora stai buona un momento, per favore, non ti muovere per nessun motivo. Sto finendo.» Potevo immaginare perfettamente l'espressione del suo viso anche senza vederlo, perché tutto il resto, la sua voce, la sua maniera di parlare, i suoi gesti, la sua infinita sicurezza, mi erano più che familiari.

Stava giocando. Giocava con me, gli è sempre piaciuto farlo. Mi aveva insegnato molti dei giochi che conosceva e mi aveva addestrato a barare. Io avevo imparato in fretta, a carte, specie al mus, eravamo quasi invincibili. Lui ogni volta barava e vinceva.

Prese un asciugamano, ne immerse un angolo in un'altra tazza e lo strizzò sopra il mio pube, che, fedele alla sua parola, era quasi intatto. L'acqua colò giù. Ripeté l'operazione due o tre volte prima di cominciare a strusciarmi per togliere i peli che erano rimasti attaccati.

Mi resi conto che da sola avrei potuto farlo molto meglio, e più in fretta.

«Lascia fare a me.»

«Assolutamente no...» Parlava con grande lentezza, quasi sussurrando, era assorto, completamente assorto, gli occhi fissi sul mio sesso.

Mi baciò due volte, nella parte inferiore della coscia sinistra.

Poi, allungò la mano verso il vassoio e prese un vasetto di cristallo color miele, lo aprì e infilò dentro due dita, l'indice e il medio della mano destra.

Era crema, una crema bianca, grassa e profumata.

Sfiorò con le dita le mie labbra appena rasate, depositando il suo contenuto sopra la pelle. Sentii un altro brivido era gelata. Allora pensai che l'inverno era ancora lungo e che i peli avrebbero tardato a crescere. Non sarebbe stato affatto piacevole. Pablo raccolse molto tranquillamente tutti gli oggetti che erano occorsi nell'operazione, e li rimise sul vassoio, che spinse da parte.

Poi anche lui si spostò alla mia destra, togliendosi dallo specchio che avevo davanti.

Il mio sesso mi sembrò un mucchietto di carne rossa e gonfia. Su entrambi i lati della fessura centrale, si allungavano due lunghe strisce bianche. Quella vista mi ricordò Patricia, neonata, quando la mamma le metteva del balsamo prima di cambiarle i pannolini.

Pablo mi guardava e sorrideva.

«Ti piaci? Sei bellissima...»

«Non me la spalmi?»

«No. Fallo tu.» Allungai la mano aperta, chiedendomi cosa avrei sentito dopo. I miei polpastrelli incontrarono la crema, che era diventata morbida e tiepida, e cominciarono a distribuirla su e giù, muovendosi uniformemente sulla pelle scivolosa, liscia e nuda, calda, come le gambe d'estate, dopo la ceretta, fino a fare scomparire completamente quelle due lunghe macchie bianche.

Poi, mi rifiutai di smettere. La tentazione era troppo forte, e lasciai che le mie dita scivolassero dentro, una volta, due volte, sopra la carne gonfia e appiccicosa. Pablo mi si avvicinò, mi infilò dentro un dito molto delicatamente, lo estrasse e me lo mise in bocca. Mentre lo succhiavo, lo sentii mormorare.

«Che brava bambina...» Era inginocchiato per terra, davanti a me. Mi prese per la vita, mi attirò a sé, bruscamente, e mi fece cadere dal seggiolone.

L'urto fu breve. Mi maneggiava con grande facilità, nonostante che fossi, che sia ancora, molto alta.

Mi obbligò a girarmi, le ginocchia per terra, la guancia appoggiata sul sedile, le mani sulla moquette. Non potevo vederlo, ma ascoltai le sue parole.

«Accarezzati finché non cominci a sentire che vieni, allora dimmelo.» Non avevo mai immaginato che sarebbe stato così, mai, eppure non sentii la mancanza di niente. Mi limitai a seguire i suoi ordini e a scatenare una valanga di sensazioni note, chiedendomi quando dovessi fermarmi, finché il mio corpo cominciò a dividersi in due, e mi decisi a parlare.

«Vengo...» Allora mi penetrò, lentamente ma con decisione, senza fermarsi.

Da quando lo aveva annunciato, da quando mi aveva avvertito «scoperemo e basta», mi ero proposta di sopportare, sopportare qualsiasi cosa, senza aprire bocca, sopportare fino alla fine. Ma mi stava rompendo. Bruciava. Io tremavo e sudavo, sudavo molto. Avevo freddo.

La mia resistenza fu effimera.

Prima che potessi rendermene conto, gli stavo chiedendo di tirarlo fuori, di lasciarmi stare almeno un momento, perché non ce la facevo più a sopportare.

Non mi rispose né mi diede retta. Quando fu arrivato in fondo, rimase immobile, dentro di me.

«Ora non ti fermare, anatroccolo, perché comincio a muovermi e ti farà male.» La sua voce distrusse le mie ultime speranze. Non sarebbe servito a niente protestare, ma non potevo nemmeno rimanere lì ferma, a soffrire. Non sono fatta per sopportare il dolore, per lo meno non in grandi dosi. Non mi piace. Perciò decisi di seguire le sue istruzioni, un'altra volta. Cercai di recuperare il ritmo perduto. Lui mi imprimeva un ritmo diverso, da dietro. Aggrappato ai miei fianchi, entrava e usciva da me a intervalli regolari, attirandomi e respingendomi lungo quella specie di sbarra incandescente che ormai non somigliava per niente all'innocuo giocattolo a molla che mi aveva riempito la bocca un paio di ore prima, e ancora meno, molto meno, al celebre flauto dolce.

Il dolore non svaniva, ma, senza smettere di essere dolore, acquisiva tratti diversi. All'entrata continuava a essere insopportabile, in quel punto mi sentivo squarciare, mi sembrava strano non sentire lacerare la pelle, tesa fino alla trasparenza. Dentro era diverso. Il dolore si diluiva in note più sottili, che si manifestavano con maggiore intensità man mano che mi adattavo a lui, muovendomi con lui, contro di lui, mentre anche le mie manovre cominciavano a dimostrare la loro efficacia.

Il dolore non svanì, rimase lì a pulsare tutto il tempo, fino alla fine, finché il piacere non se ne staccò, crebbe e, finalmente, ebbe la meglio.

Mentre sentivo ormai gli ultimi spasmi, e le mie gambe smettevano di tremare, Pablo crollò sopra di me, emettendo un grido affogato, acuto e roco al tempo stesso, e il mio corpo si riempì di calore.

Rimanemmo così per un bel pezzo, senza muoverci. Lui aveva nascosto la faccia nel mio collo, mi copriva i seni con le mani e respirava profondamente. Io ero felice.

Si separò da me e lo sentii camminare nella stanza.

Quando cercai di muovermi fui completamente invasa dal dolore.

Mi girai faticosamente perché qualcosa di simile ai crampi per la stanchezza, dei crampi spaventosi, mi paralizzava dalla vita in giù.

Lui mi aiutò ad alzarmi. Quando gli circondai il collo con le braccia per baciarlo, mi sollevò per la vita, mi mise le gambe intorno al suo corpo e cominciò a camminare con me in braccio, senza parlare.

Uscimmo nel corridoio, che era lungo e buio, un classico corridoio di casa vecchia, con le porte su un lato. L'ultima era socchiusa. Entrammo, in qualche modo riuscì ad accendere la luce, e mi depositò sul bordo di un grande letto. Mi tolse la gonna e i calzettoni, sorridendomi. Poi tirò da parte la coperta e mi spinse sotto. Si tolse la camicia, l'unica cosa che aveva ancora addosso, e scivolò con me sotto le lenzuola.

Quelle note di classicismo, il letto e la mia nudità, mi commossero e mi confortarono allo stesso tempo. Erano finite le stranezze, almeno per il momento.

Ora mi baciava e mi abbracciava, facendo rumori strani e divertenti. Mi pettinava con la mano, tirandomi indietro i capelli, e di tanto in tanto si fermava un istante a guardarmi.

Era delizioso. Sentivo la sua pelle fredda e dura, il suo petto nudo - contrariamente alla norma, mi hanno sempre ripugnato gli uomini pelosi -, e per la prima volta intuivo che tutto quello che avveniva avrebbe finito per pesare su di me come una maledizione, che quello, tutto quello, non era altro che il prologo di un'eterna, ininterrotta cerimonia di possesso.

La profondità di questa riflessione sorprese anche me mentre ci rotolavamo sopra il letto, divenuto una tana calda e comoda, e questo mi riportò su un piano meno trascendentale, suggerendomi che per strada doveva fare un freddo tremendo, idea piacevole per eccellenza, mentre io ero ancora lì, al coperto e al sicuro.

In realtà non mi aveva fatto così male.

Approfittai di una pausa per indagare su qualcosa che mi ossessionava da tempo.

«Ho sanguinato molto?»

«Non hai sanguinato per niente.» Sembrava divertito.

«Sei sicuro?» La sua risposta mi aveva completamente sconcertato.

«Sì.»

«Accidenti!» Non avevo sanguinato per niente. Per niente. Quello sì che era terribile. Era successo qualcosa di importantissimo, di decisivo, qualcosa che non si sarebbe più ripetuto, e il mio corpo non si era degnato di commemorarlo nemmeno con un paio di gocce di sangue, un minimo gesto drammatico Il mio stesso corpo mi aveva defraudata. Io avevo immaginato qualcosa di più truculento, più in tono con il lato patetico della questione, tutta un'emorragia, uno svenimento, qualcosa, e avevo avuto soltanto un orgasmo, un orgasmo lungo e diverso dal solito, in un certo senso anche doloroso, ma in fondo solo un altro orgasmo.

Lui rideva, rideva di me ancora una volta, così nascosi la faccia contro la sua spalla e rinunciai a raccontargli quello che pensavo.

Allungò la mano per terra e raccolse un pacchetto di tabacco.

«Una sigarettina da film francese?» La sua voce era ancora ilare.

«Perché dici così?»

«Non so... nei film francesi fumano sempre dopo avere scopato.»

«E perché dici sempre scopare, invece di fare l'amore, come dicono tutti?»

«Ah, e chi ti ha detto che tutti dicono fare l'amore?»

«Ma, non so... però lo dicono.» Avevo accettato, naturalmente Era un piacere in più, fumare: un'altra cosa da non farsi.

«'Fare l'amore' è un francesismo di pessimo gusto» (aveva adottato un tono quasi pedagogico) «e poi pur essendo un'espressione di origine straniera, 'fare l'amore' ha sempre significato corteggiare e non scopare. 'Scopare' suona forte, suona bene, e poi ha una certa valenza onomatopeica...

Anche fottere va bene, benché negli ultimi tempi abbia perso molto, è diventato antiquato.»

«Come fregola...»

«Esatto, come fregola, che però mi piace come parola» (mi sorrise, sicuramente mi aveva sentito, prima). «E poi, il sesso, cioè scopare, scopare senza tanti giri di parole, non è necessariamente in rapporto con l'amore, di fatto sono due cose completamente diverse...» Allora cominciò la lezione di teoria, la prima.

Parlò e parlò, solo lui, a lungo. Io osavo appena interromperlo, ma mi sforzavo di trattenere ciascuna delle sue parole, per trattenere lui, nella mia testa, mentre parlava dell'amore, della poesia, della vita e della morte, dell'ideologia, della Spagna, del Partito, di Marcelo, del sesso, dell'età, del piacere, del dolore, della solitudine.

Poi spense la sua ultima sigaretta, si fermò a guardarmi in modo strano, particolarmente intenso, sorrise, come se volesse cancellare dal viso l'espressione precedente e mi disse qualcosa come bah, non mi dare retta.

Tirò da parte il lenzuolo e cominciò a percorrermi il corpo con la mano. Io gli guardavo la mano e guardavo lui, e lo trovavo bello, troppo bello, troppo grande e saggio per me. Lo avrei accarezzato, lo avrei baciato e morso, lo avrei graffiato, non so perché, sentivo che dovevo fargli male, attaccarlo, distruggerlo, ma avevo paura di toccarlo.

Mi penetrò di nuovo, in modo molto diverso, delicatamente, lentamente, muovendosi con attenzione, sopra di me, come se volesse evitare di farmi male.

Fu una scopata strana, quasi coniugale, quasi.

Mi chiedeva continuamente di aprire gli occhi e di guardarlo, ma io non potevo farlo, soprattutto quando il mio sesso cominciava a gonfiarsi a ingrossare con ostentazione, e mi imponeva lo stupido obbligo di rimanere sola, sola con lui, per poter avvertire pienamente la sua grottesca metamorfosi, io cercavo, mi sforzavo in tutti i modi di guardarlo, e aprivo gli occhi, e lo trovavo lì, il volto sospeso sopra il mio, la bocca socchiusa, e vedevo il mio corpo, i miei capezzoli eretti, lunghi, e il mio ventre che tremava, e il suo, vedevo come si muoveva il suo cazzo, come si nascondeva e riappariva costantemente dietro i miei pochi peli sopravvissuti, ma il mero fatto di vedere, di guardare quello che stava succedendo, accelerava le esigenze del mio sesso, che mi obbligava di nuovo a chiudere gli occhi, e allora tornavo ad ascoltare la sua voce, guardami, e se mi ostinavo nella mia solitudine, sentivo anche i suoi assalti, all'improvviso molto più brutali, di nuovo laceranti, per non avere aperto gli occhi, lasciava cadere su di me tutto il peso del suo corpo, risuscitando il dolore, muovendosi in fretta, e bruscamente, finché non gli obbedivo, e aprivo gli occhi, e tutto tornava a essere umido, fluido, e il mio sesso rispondeva, si apriva e si chiudeva, si disfaceva, io mi disfacevo, me ne andavo, sentivo che me ne andavo, e inconsapevolmente lasciavo cadere le palpebre, per ricominciare tutto da capo.

Finché alla fine mi lasciò tenere gli occhi chiusi e venni, le mie gambe si fecero infinite, la testa mi diventò pesante, ascoltai me stessa, lontana, pronunciare parole sconnesse che poi non sarei stata in grado di ricordare, e tutto il mio corpo si ridusse a un nervo, un unico nervo teso ma flessibile, come una corda di chitarra, che mi attraversava dalla nuca al ventre, un nervo che tremava e si contorceva, assorbendo tutto in sé.

Fu una scopata dolce, quasi coniugale, quasi, ma alla fine, quando ormai ero esausta e il mio corpo minacciava di ritornare corpo, vasto e solido, a partire da quell'unico nervo sensibilizzato e sazio, lui uscì da me, fece un paio di balzi in avanti sulle ginocchia, appoggiò la mano sinistra alla parete e me lo mise in bocca.

«Inghiottilo tutto.» Quasi non dovetti fare altro, sopportai cinque o sei spintoni che non avrei potuto evitare nemmeno volendo, perché mi teneva stretta tra le gambe, chiusi le labbra intorno a quella carne appiccicosa, sentendone il sapore, il mio sapore, diverso da quello di prima, e inghiottii, inghiottii quella specie di pomata vischiosa e calda, dolce e acida al tempo stesso, con un lontano retrogusto simile alle medicine che amareggiano l'infanzia dei bambini felici, inghiottii e sopportai la voglia di tossire man mano che mi scendeva giù in gola quel fluido denso e schifoso, schifoso, a cui non mi sono mai abituata né mi abituerò mai, nonostante gli anni e la ferma autodisciplina che impongono i buoni propositi.

A lui piaceva, però. Mentre ascoltavo i suoi gemiti smorzati e accompagnavo i suoi movimenti con la testa, per evitare la nausea che mi scuoteva quando rimanevo ferma, cercavo di secernere più saliva possibile per spingere giù l'ultima dose, come con i cavolini di Bruxelles, che sanno di marcio, e pensavo, pensavo che a lui piaceva, in ultima analisi, e mi veniva in mente una delle eterne giaculatorie di Carmela, la tata che mia madre si era portata in dote al matrimonio, una vecchia bigotta e puzzolente, piena di arteriosclerosi, ormai completamente rimbecillita, che ripeteva sempre come un fantasma nel corridoio, il Signore ce la dà e il Signore ce la toglie, con l'«ABC» in mano, aperto alla pagina degli annunci mortuari e dei «Grazie, Spirito Santo», il Signore ce la dà e il Signore ce la toglie, lui me lo dà e lui me lo toglie, va bene, si chiude il ciclo, tutto inizia e si chiude nello stesso posto, a lui piace e va bene così.

La prima lezione di teoria era stata un vero successo.

Poi bevvi, bevvi litri d'acqua, bevo sempre dell'acqua dopo, e non serve a niente, ma bere acqua è l'unica cosa che si può fare. Ero molto stanca, e anche molto contenta.

Mi girai, avevo sonno. Lui mi riavvolse nelle coperte, si sdraiò come me sul fianco, mi abbracciò, respirando contro la mia testa, e mi augurò la buona notte, nonostante che stesse già facendo giorno.

Dormii di un sonno piacevole e pesante, come quello che mi vinceva dopo avere passato una giornata in montagna.

Non ricordo niente altro, in particolare.

 

Mi svegliò la luce del sole e lui non era accanto a me.

Preferii non pensare all'ipotesi che fosse scomparso, lasciandomi lì sdraiata, nel laboratorio di sua madre, dove peraltro non si sentivano rumori, sembrava che non ci fosse nessuno a lavorare, e mi concentrai a calcolare l'ora.

Ormai doveva essere molto tardi, non avrei fatto in tempo nemmeno per la terza ora di lezione.

Poco dopo, sentii il rumore di una serratura vecchia e senza grasso, stavano aprendo la porta. Poteva essere lui, ma poteva anche essere qualsiasi altra persona. Mi coprii la testa con il lenzuolo, e cercai di rimanere immobile, ascoltai i passi e il rumore, non sembravano tacchi ma non si può mai dire, venivano verso di me, poi sentii il peso di qualcosa, mi aveva buttato qualcosa addosso.

«Le porras fredde sono immangiabili...» Era la sua voce.

Tirai fuori il viso e lo vidi lì, appoggiato nell'angolo tra il muro e la porta, sorridente. «Che vuoi per colazione?»

«Caffè e latte.» Anche io gli sorrisi, non ero mai stata così felice in tutta la mia vita, mai.

Scomparve. Mi vestii in fretta, ero affamata.

Non dissi una parola finché non ebbi inghiottito sette porras enormi e squisite, ancora calde, uno dei miei dolci preferiti, mentre lui mi guardava e insisteva che non ne voleva altre, che ne mangiava sempre soltanto una.

«Sai? A mia madre secca tantissimo che ci piacciano più le porras dei churros, perché dice che insudiciano di più, che sono più grasse, più rozze in un certo senso, capisci?» Ridevo da sola, al ricordo. «Dice che un churro si può mangiare con due ditini, lo dice sempre col diminutivo, ditini, e sta bene, è fine, ma mangiare porras in pubblico, anche se è con i ditini...»

Non potei continuare, mi andava di traverso, mi venivano le lacrime agli occhi dalle risate, lui rideva con me.

«Sei molto sveglia, Lulù...»

«Grazie mille», ma mentre gli rispondevo capii che prima o poi dovevo tornare al mondo reale. «Che ore sono?» In realtà, avrei quasi preferito non saperlo.

«L'una meno venti.»

«L'una meno venti!» Le gambe mi tremavano, sarebbe Successo un bel casino. «Ma... io oggi avevo lezione.»

«Ho deciso di condonartela, ieri notte ti sei comportata molto bene.» Sorrideva, mi resi conto che per lui non aveva nessuna importanza, la scuola, l'assenza, un giorno più o meno.

Forse aveva ragione, non era poi così importante.

Sicuramente Chelo avrebbe collaborato, lo faceva sempre, a mia madre avrei raccontato che mi ero svegliata con l'indigestione e che a casa sua avevano deciso di lasciarmi a letto; con la tutrice il problema era più difficile. In ogni caso, c'erano rischi maggiori di quello.

«Lo racconterai a Marcelo?»

«No, morirebbe di gelosia.» Sorrise a se stesso, in modo strano. «E poi, quello che abbiamo fatto può minare le fondamenta del regime...» Uscimmo in strada, era una splendida giornata, fredda ma limpida, il sole scaldava nonostante la stagione. Gli chiesi di portarmi all'uscita della scuola, dovevo vedere Chelo, prepararmi un alibi prima di tornare a casa.

Guidò in silenzio tutto il tempo, nemmeno io avevo voglia di parlare, ma quando si fermò dall'altra parte della strada, davanti al cancello, si voltò verso di me.

«Voglio che tu mi prometta una cosa.» La sua voce era diventata improvvisamente seria.

Annuii.

«Voglio che tu mi prometta che, succeda quel che succeda, ricorderai sempre due cose. Dimmi che lo farai.» Assentii di nuovo.

«La prima è che il sesso e l'amore non hanno niente a che vedere...»

«Questo me lo hai già detto ieri notte.»

«Bene. La seconda è che quanto è successo ieri notte è stato un atto d'amore.» Mi guardò negli occhi con particolare intensità. «D'accordo?» Mi fermai a meditare un paio di secondi, ma fu inutile.

Non sapevo cosa volesse dire con tutti quei discorsi.

«Non ti capisco.»

«Non importa, promettimelo.»

«Te lo prometto.»

Mi sorrise, mi dette un bacio sulla fronte, mi aprì la portiera e mi salutò.

«Ciao Lulù, fai la brava, e non crescere.» Non capii assolutamente nulla e mi sentii di nuovo male, come un agnellino bianco con un fiocco rosa al collo.

Non sapevo che dire. Alla fine, uscii senza dire niente.

Camminai in fretta, in direzione del cancello, senza voltarmi indietro.

Vidi Chelo, e lei vide me, si fermò a guardarmi con una faccia strana. La macchina di Pablo si perse tra centinaia di altre macchine.

Mi sentivo ancora male.

«Ma tu da dove salti fuori?» Chelo era meravigliata, allora pensai che forse mi si leggeva in viso, che mi era cambiata la faccia.

Glielo raccontai, glielo raccontai a metà, omettendo la maggior parte dei dettagli, lei mi guardava con occhi allucinati, cercava di interrompermi, ma io non glielo permettevo, ignoravo le sue continue esclamazioni, e continuavo a parlare, parlai fino ad arrivare alla fine, e man mano che parlavo spariva quella sensazione sgradevole, tornavo a essere contenta, e soddisfatta di me.

Si fermò, all'improvviso, bruscamente. Mi scivolò un piede sopra un'aiuola e sbattei il naso contro un'acacia. Era un classico, io non ho riflessi.

Rimase ferma a guardarmi. Sulla sua faccia si disegnò un'espressione nota. Era arrabbiata, arrabbiata con me, arrabbiata senza motivo, pensai.

«Ma, allora, come lo avete fatto?»

«Ma te lo già raccontato, io ero a quattro zampe, cioè, non proprio a quattro zampe, perché non avevo le mani appoggiate per terra...»

«Non voglio sapere questo. Questo non mi importa, quello che voglio sapere è come lo avete fatto.»

«Ma se te l'ho già detto. Non capisco.»

«Stai prendendo la pillola?»

«No...» Rimasi stupefatta, all'improvviso. Non prendevo la pillola, è chiaro, non mi era venuto in mente, non avevo assolutamente pensato a complicazioni di questo tipo mentre stavo con lui.

«Si è messo un preservativo?» I suoi occhi brillavano di furore inquisitorio.

«No, non lo so, non ci ho fatto caso, non lo vedevo...»

«E non ti importa?»

«No.»

«Sei pazza!» Si stava infuriando, da sola, diventava sempre più furibonda, perché io non muovevo nemmeno un muscolo della faccia, non ero preoccupata né lei riusciva a farmi preoccupare, e per di più i suoi accessi isterici mi facevano già sentire male.

«Tu!..., tu..., tu sei come i ragazzi! Pensi solo a te, uffa, senza preoccuparti di nulla. Non capisci che ti ha preso in giro? E un vecchio, Lulù, un vecchio che ti ha preso in giro. E ora il danno è fatto. Sai cosa dice mia madre? I ragazzi si divertono e basta...»

«Basta!» Ora ero io a essere furiosa. «Non avrei dovuto raccontartelo. Non capisci nulla.»

«Non capisco nulla?» Strillava in mezzo alla strada, la gente si fermava a guardarci. «Quella che non capisce nulla sei tu, che ti sei comportata come una stupida, tu, Lulù, che scusa se te lo dico, cara mia, ma non hai proprio un briciolo di sensibilità...» La chiamai, la chiamai io prima di uscire dal lavoro, la chiamai perché è mia amica, la mia migliore amica, e perché le voglio bene.

Continuava a piangere, a singhiozzare, tirando su col naso.

La consolai.

Le dissi che il presidente della commissione era davvero uno stronzo e che non aveva il diritto di cambiarle la data dell'esame. Le dissi anche che ero sicura che questa volta lo avrebbe passato, anche se non era vero.

Anch'io mi sentivo sola quel pomeriggio, e non volevo continuare così, avrei finito per chiamare Pablo, prima o poi avrebbe staccato la segreteria telefonica, la scusa di parlare di Inés era ancora buona.

Alla fine proposi un piano classico.

Se Patricia acconsentiva a rimanere a dormire a casa mia, dietro compenso naturalmente, era diventata davvero venale, per badare a Inés, saremmo andate a mangiare fuori, a mangiare come due grassone felici, e poi a bere fino a riuscire finalmente a ridere, ridere per niente, come due pazze felici, e, se ci rimanevano forze, avremmo cercato di combinare con qualcuno in un bar alla moda, combinare senza farsi troppi problemi, come due puttane felici, e domani era un altro giorno.

Mi disse che le sembrava un ottimo piano.