10

 

La sua voce era quella che avevo meno voglia di sentire in quel momento. Ebbi la tentazione di riattaccare senza rispondergli, ma poi ricordai che avevo ricevuto pochissimi regali quell'anno.

«Marisa? »

«Sì, sono io.»

«Ciao, sono Remi.»

«Ti avevo riconosciuto.»

«Ti ho chiamata varie volte la settimana scorsa, ma non eri mai in casa...»

«Sì, lunedì era il mio compleanno, e sono uscita abbastanza spesso in questi giorni.»

«Auguri. Quanti ne hai compiuti?»

«Ventotto...», mentii, ma poi mi vergognai, così corressi, «... più tre, trentuno.»

«Accidenti, è una bella età.»

«Già», lui doveva averne quarantacinque, come minimo, «così dicono.»

«Be', ti chiamavo per una certa faccenda...»

«Mi dispiace, sul serio, ma preferisco avvisarti prima che tu continui, è inutile, sono senza un soldo, ultimamente non mi posso permettere nessun lusso.»

«No, non si tratta di questo...»

«No?» La sua ultima frase mi sconcertò. Fin dal principio i nostri rapporti si erano limitati esclusivamente a un solo aspetto, uno solo, molto ben definito.

«No. Questa volta non ti chiamo per il solito motivo, o meglio, in realtà è qualcosa di simile, ma non ti costerà nemmeno un soldo, stai tranquilla...»

«Non capisco.»

«Vedrai, è che ho un cliente... speciale, uno di Alicante che ha fatto i soldi vendendo appartamenti a pensionati tedeschi e belgi, sai...»

«Mmm...»

«Bene, si dà il caso che questo tipo d'inverno venga di tanto in tanto a Madrid, a fare un po' di baldoria, capisci?»

«Capisco.»

«Senti, se ti devi arrabbiare con me, lasciamo perdere, eh?»

«No, non sono arrabbiata con te.» Mi resi conto che la mia ultima risposta era stata troppo brusca. «Continua.»

«D'accordo. Insomma a questo tipo piace far di tutto, sai? E mi ha chiesto che gli organizzi una festicciola, vuole che ci sia anche qualche donna, così ho pensato che forse tu potevi avere voglia di venire, gli invitati li conosci già, Manolo, Jesus e qualche altro, insomma, pensaci, sarebbe per dopodomani...»

«Dall'Encarna?»

«Be', se vuoi si può fare lì, dall'Encarna, a partire dall'una e mezzo...»

«Così tardi?»

«Sì, lui ha da fare prima, una cena con i compagni del servizio militare, o non so cosa, non me lo ha spiegato bene, e poi fissiamo...»

«No, guarda, Remi, davvero, lasciamo perdere.»

«Ma tu non devi fartela con lui! Tu no, lui vuole solo guardare, si porta un ragazzino, una puttana e tutto il resto...»

«Non me la bevo.»

«Ti giuro che è vero. Perché dovrei mentirti? Non voglio litigare con te, lo sai.»

«E lo stesso. Non mi va, non ci vengo.»

«Be', fai tu, ma se è vero che sei a corto di soldi, potresti anche guadagnarci qualcosa...»

All'ora di pranzo, ero quasi decisa ad andare, anche se quel pomeriggio gli avevo riattaccato il telefono di brutto non appena aveva menzionato la faccenda del denaro.

All'inizio mi sentii tremendamente male, rimasi inorridita, completamente inorridita da me stessa, mi chiedevo che tipo di impressione davo, se Remi aveva osato farmi quella proposta, mi sentivo male, molto male, malissimo, ma lui insisté, richiamò un paio di ore dopo, e mi attaccò nel mio punto debole, che ti importa, non è uguale stare da una parte o dall'altra? Io gli avevo detto diverse volte che all'inizio mi sembrava più vergognoso pagare che farmi pagare per andare a letto con un uomo, lui me lo ricordò e, quello che fu peggio, adottò il tono sinceramente disinteressato di un fratello maggiore per recriminare sulla mia mancanza di coerenza, quelli che avrebbe definito, se avesse saputo farlo, come semplici pregiudizi infantili, pura ingenuità, lui lo diceva in un altro modo, già che ci sei, cerca di trarne qualche vantaggio, sciocca, che ti importa, hai fatto la stessa cosa un mucchio di volte, perché dovrebbe essere diverso adesso...

All'ora di pranzo, ero quasi decisa ad andare.

La linea di confine mi tentava, la sua prossimità esercitava su di me un'attrazione quasi irresistibile, il richiamo dell'abisso, precipitare nel vuoto e cadere, cadere giù per decine, centinaia, migliaia di metri, cadere fino a schiantarmi sul fondo, e non dovere più pensare per tutta l'eternità.

Poi, a casa, uscendo dalla doccia, mi guardai con attenzione nello specchio e mi resi conto che stavo cominciando a ingrassare.

Mi avvolsi in un accappatoio, per non vedermi.

I dubbi cominciarono a venirmi poi, a metà pomeriggio, mentre mi chiedevo come avrei dovuto vestirmi per andare al mio strano appuntamento, che tipo di vestito scegliere, qualcosa di nero, corto, stretto, scollato, o un vestito normale, da donna comune.

Ero infinitamente grata al mio destino che Patricia si fosse offerta di andare a prendere Inés al collegio, prima di portarla a dormire a casa dei miei genitori.

Non mi sarebbe piaciuto vederla.

Ero incerta.

Il bilancio era negativo.

Lui non aveva voluto ascoltarmi, io avevo cercato di spiegarglielo, gli avevo parlato e parlato per ore, ma le mie parole si schiantavano contro le sue orecchie come le palline da tennis rimbalzano contro un muro.

Non aveva voluto ascoltarmi, aveva preso a pretesto la più recente delle mie convulsioni, non aveva voluto vedere oltre, si era rifiutato di ascoltarmi, si era rifiutato di capire, mi dispiace, aveva detto, mi dispiace molto, l'idea è stata mia, soltanto mia, erano anni che mi frullava per la testa, in fondo Marcelo è il mio migliore amico, lui non c'entra per niente, anche se non mi è costata troppa fatica convincerlo, pensavamo tutti e due che non avesse importanza, in fondo ormai non avete più l'età per farvi trascinare da una passione fatale, ma non credevamo che potesse arrivare a toccarti così tanto, ti assicuro che se lo avessi immaginato avrei saputo rinunciarvi in tempo, ti giuro che mi dispiace.

Io cercavo di spiegarglielo, avevo provato, avevo parlato e parlato per ore, l'incesto non era mai rientrato nei miei piani, naturalmente, non avrei mai immaginato nemmeno che Marcelo potesse reagire in maniera così naturale dopo una cosa del genere, perché nessuno dei due tornò minimamente sull'argomento, né insieme né da soli, qui non è successo niente, lo leggevo sui loro volti, nei loro gesti, nell'imperturbabile naturalezza di tutte le loro azioni, non è successo niente, e invece erano successe molte cose, ma non era questo, non era solo questo.

Già allora avevo cominciato a mettere in dubbio la qualità delle lezioni teoriche, di tutte le lezioni teoriche, a partire dalla prima, e mi tormentava il sospetto che l'amore e il sesso non potessero esistere come due cose completamente distinte.

La metà della mia vita, né più né meno che la metà della mia vita, aveva ruotato esclusivamente intorno a Pablo.

Non avevo mai amato nessun altro.

Questo mi spaventava. La mia limitazione mi spaventava.

Mi sentivo come se tutti i miei movimenti, da quando saltavo fuori dal letto la mattina a quando mi ci tuffavo di nuovo la sera, fossero stati già concepiti da lui.

Questo mi opprimeva. La sua sicurezza mi opprimeva.

Allora mi convinsi che non sarei mai cresciuta se fossi rimasta accanto a lui, e avrei compiuto trentacinque, e poi quaranta, e poi quarantacinque, cinquanta, e poi cinquantacinque, e infine sessantasei anni, l'età di mia madre, senza mai riuscire a crescere, sarei rimasta eternamente una bambina, ma non una bella bambina di dodici anni, come quando vivevamo in quella casa falsa, enorme e vuota, nella quale non passava il tempo, bensì un povero mostro di sessantasei anni, sprofondato nella maledizione di un'infanzia eterna.

L'autocommiserazione è una droga pesante.

Per questo me ne andai.

Ma non avevo mai potuto dimenticare che prima, per lo meno, ero felice.

Alla fine scelsi un vestito nero, corto, non troppo scollato ma molto stretto, di un tessuto elastico che mi aderiva al corpo come un costume da bagno.

Poi, l'applicatore del mascara, che tenevo nella mano destra, mi scivolò inesplicabilmente tra le dita, segnandomi lo zigomo con tre sottili righe nere.

Feci schioccare le labbra per esprimere il mio scontento verso me stessa e bagnai nell'acqua la punta di un fazzolettino di carta per cercare di rimediare al danno.

Mi guardai nello specchio.

Contemplai il viso di una donna di mezza età, le labbra tese incorniciate da una smorfia familiare, ma diversa, due rughe sottili che esprimevano esperienza ed età, una mescolanza complessa, l'antitesi dell'ilarità facile, incontrollata, che di solito trasformava in un versaccio il sorriso di quella stravagante e innocente mascalzona che ero un tempo.

Tenni gli occhi fissi su questa donna, per alcuni secondi.

Non mi piaceva.

Il bilancio era negativo, negativo.

Aprii il rubinetto dell'acqua fredda e mi lavai il viso con il sapone, lo sfregai coscienziosamente con una spugna, facendola schiumare, finché la pelle non riprese a tirarmi.

Mi sentii molto meglio.

Avevo bisogno di tenere qualcosa in mano, un oggetto capace di farmi compagnia, di sostenermi e incoraggiarmi.

Sentivo che non potevo tornare a mani vuote.

All'improvviso mi ricordai di lei, una borsa di plastica arancione screpolata e rotta a cui era sempre mancato un manico. Dentro, cinque pezzi di porcellana, due braccia, una gamba, e un corpo imbottito di lana, il vestitino sporco, e la cuffietta bianca, minuscola, ormai ingiallita, vecchia, l' olandesina a pezzi, collega nei lavori dell'infanzia eterna, che ereditai in culla dalla prozia Maria Luisa, che non avevo mai conosciuto.

Erano vent'anni che promettevo a me stessa che il giorno dopo, puntualmente, l'avrei portata ad aggiustare all'ospedale delle bambole di Calle Sevilla, e non lo avevo mai fatto.

Lui avrebbe capito.

Era ancora molto presto.

Comprai una guida nel chiosco all'angolo e consultai la pagina degli spettacoli, cercando ansiosamente qualche buon auspicio.

In un cinema d'essai di Villaverde Alto davano Miracolo a Milano, ma Villaverde era troppo lontano.

Non riuscii a trovare qualche altro vecchio film meraviglioso da nessuna parte.

Allora scelsi Fuencarral, la mia strada preferita, e mi infilai a vedere una commedia americana di prima visione, una tremenda stupidaggine con una splendida attrice secondaria nel ruolo di madre del protagonista.

Alla fine, decisi di usare la chiave.

La casa sembrava completamente buia.

Avanzai timidamente al principio, stringendo con tutte e due le mani la borsa arancione come se fosse uno scudo, finché i miei occhi non si abituarono all'assenza di luce.

Allora depositai la piccola invalida olandese in un angolo del salotto e cominciai a evitare gli ostacoli con inusitata agilità.

Ero felice.

Quando arrivai alla camera rimasi ferma nel corridoio, l'orecchio attaccato alla porta, cercando di indovinare.

Mi tolsi le scarpe, spinsi dolcemente la maniglia ed entrai in punta di piedi.

Mi ci volle un po' di tempo per assicurarmi che quello che dormiva, solo, in mezzo al letto era Pablo.

Respirai profondamente, e sorrisi.

La situazione non corrispondeva alla migliore delle ipotesi previste, nessuno in casa, andare a letto e aspettare, ma nemmeno alla peggiore, trovare due persone sotto le lenzuola.

Mi spogliai facendo il minor rumore possibile, cercai la camicia che lui doveva essersi tolto pochi minuti prima, la trovai buttata sopra una sedia, la guardai, la toccai, la annusai, la riconobbi, me la misi e mi sdraiai per terra, accanto a lui, secondo il miglior piano che ero stata capace di concepire mentre quei due imbecilli californiani divorziavano e si riconciliavano incessantemente, tutto il tempo, sul grande schermo.

La figliola prodiga torna a casa, si getta a terra come una cagna, riconosce pubblicamente i suoi errori e implora il perdono del padre, che sa compassionevole e magnanimo.

Non era un piano impeccabile, ma nemmeno troppo male, data la fretta e le restanti circostanze avverse.

«Ti amo», sussurrai.

E fatta, pensai poi, è stato tutto molto facile.

Il suolo, duro, mi sembrava infinitamente accogliente.

Chiusi gli occhi, ero molto stanca, è andato tutto bene, mi ripetevo, ora potrò dormire, dormire per ore e ore, quando ci sveglieremo, lui mi scoprirà e capirà, è stato tutto molto facile...

Allora sentii lo schiocco di un accendino, e poi la sua voce, fredda.

«Alzati, Lulù, non attacca.» Al principio non osai muovermi, rimasi immobile, rannicchiata sul pavimento, tremando, convincendomi che non avevo sentito nulla perché nessuno aveva detto nulla, ma lui lo ripeté, con voce chiara.

«Ormai è troppo tardi, Lulù. Questa volta non attacca.» Mi alzai di colpo, strinsi le mani intorno alle punte del colletto della sua camicia e allargai le braccia con tutte le mie forze.

I bottoni schizzarono sul pavimento, uno dopo l'altro.

Feci passare il vestito attraverso la testa, infilai a forza, alla meglio, le braccia nelle maniche e tirai giù l'orlo, uscii correndo nel corridoio, mi misi le scarpe e ripartii di corsa.

«Dove vai?» Arrivai nel salone, presi la mia borsetta e afferrai anche la borsa arancione, ma mi resi conto che lui era ormai dietro di me, nel corridoio, e sicuramente l'aveva già vista, non c'era il tempo per nasconderla.

La vecchia olandesina non avrebbe potuto tenermi compagnia nel posto in cui stavo andando, così la lasciai sopra un tavolo.

«Dove vai?»

Uscii sbattendo la porta, ma sbagliai, come al solito.

La porta rimbalzò con violenza sullo stipite un paio di volte, senza arrivare a chiudersi.