3
La serata fu un disastro, un completo disastro.
Quanto a mangiare mangiammo, mangiammo un mucchio di cose velenose, centinaia di migliaia di calorie, e con il pane, ma questo non riuscì a metterci di buon umore.
Quanto a bere bevemmo, ma ci prese sul triste, una sbronza lacrimosa e triste. Chelo non sapeva che avrebbe fatto della sua vita se non passava i concorsi, dopo così tanti anni. Io avevo abbandonato Pablo per disporre della mia, di vita, e ora non sapevo nemmeno che farne.
Mi stava larga da tutte le parti.
Bevevamo in silenzio, ognuna col suo problema, Chelo aveva ancora gli occhi lucidi. A me stavano spuntando le lacrime quando mi alzai, il bicchiere a metà, e annunciai che ce ne andavamo, che ne avevo abbastanza.
Non piango mai nei luoghi pubblici, se posso evitarlo.
Quando avviai il motore avevo deciso di tornare, di lasciare Chelo a casa sua e tornare.
In quel periodo, le mie giornate si esaurivano in due occupazioni fondamentali, decidere di ritornare e decidere di non ritornare, ininterrottamente.
Era molto tardi, ma la strada era piena di gente, gente che rideva in gruppetti, gente che andava su e giù tra i tavolini all'aperto dei bar, guardando in tutte le direzioni a caccia di un posto libero, gente che si era portata i bicchieri per strada, per guardare e per farsi guardare, gente normale che pareva divertirsi.
Faceva ancora molto caldo, sembrava che quell'estate non sarebbe finita mai.
Chelo continuava a vivere nello stesso quartiere di quando eravamo piccole. Imboccammo una strada molto familiare a tutte e due, ampia ed elegante, apparentemente deserta, ma loro c'erano.
Erano lì, seminascosti nei portoni, pieni di fronzoli e traballanti sui loro tacchi a punta, pantaloni lucenti e avvitati, fantasmagorici leopardi sintetici su una superficie inverosimilmente piatta, scollature magnanime, stoffe splendide.
Splendidi, invidiabili, labbra rossissime, ciglia finte impastate di rimmel colorato e pettinature infantili, dovevano essere passate di moda le chiome leonine e ora quasi tutti portavano le codine, con elastici e fiocchi colorati, le testoline trafitte da mollettine, farfalline, meline.
Obbedendo a un impulso incontrollabile, diminuii la velocità e accostai al marciapiede. Chelo protestò, ma non le feci caso.
Allora lo vidi, era molto più avanti, quasi all'angolo con Almagro, vestito con una specie di pigiama arancione, una cintura nera molto alta, ornata con catene e monete dorate, in mezzo a un gruppetto, baciava tutti gli altri, con la chioma ancora intatta, era un classico.
Accostai vicino a lui, chiamandolo forte dal finestrino.
Ely si girò, impiegò un po' di tempo a riconoscermi, io di solito non guidavo, guidava sempre Pablo, e poi venne verso di me con grandi manifestazioni di stupore.
«Lulù! Che gioia!» Nella macchina parcheggiata accanto alla mia, un uomo appena un paio di anni più vecchio di me, benvestito e con l'aspetto di un manager in carriera, felice padre di famiglia forse, negoziava discretamente con due travestiti, uno alto e corpulento, l'altro piccoletto, dall'aspetto infantile.
Ely mi schioccò un bacio sonoro su ciascuna guancia.
Poi salutò Chelo, anche lei molto affettuosamente. Non aveva una buona cera, era molto invecchiato, avevamo sempre avuto paura per lui, Pablo e io, avevamo il presentimento che sarebbe finito male.
«Che fai qui?» Se ne era andato nel sud, circa un anno prima. «Credevo che tu fossi a Siviglia...»
«Ah! Non me ne parlare.»
Gettò i capelli all'indietro, con la mano, aveva le unghie smaltate di un bianco madreperlaceo, non gliele avevo mai viste così, forse pensava che la ringiovanissero. «I sivigliani sono troppo... sivigliani, per me. Mi sono stancata subito di loro, mi mancava Madrid, il giro, l'atmosfera, non so. E poi, sono di nuovo innamorata, non riesco a evitarlo, alla fine, lo sai...» Aveva abbassato la voce per confessarlo: «Sono innamorata», come se questa circostanza fosse capace di spiegare da sola il suo trasloco. «Sono innamorata.» Lo disse in tono dolce e timido, quasi con compunzione, sei diventata proprio una vacca pensai, quando parlava d'amore dimenticavo che era in realtà un uomo e non potevo evitare di pensare a lei al femminile.
Chelo si congratulò esageratamente, aggiungendo che facesse attenzione, che gli uomini erano molto cattivi. Ely le rispose che lo sapeva fin troppo bene, ma che comunque non poteva vivere senza di loro. Questo sì, Chelo era d'accordo.
Io ascoltavo il loro dialogo, presa dalla trattativa che stava terminando alla mia sinistra. Pensai che avrei dovuto spostare la macchina per lasciarli uscire, ma si istallarono tutti e tre sul sedile di dietro, il cliente in mezzo, e cominciarono a toccarsi vicendevolmente.
«Senti!» Il potente accento dell'Estremadura di Ely mi obbligò a voltarmi verso di lei. «Ho visto il tuo ragazzo in televisione, un paio di mesi fa, a Siviglia! Si vede spesso, ora...» Annuii, sorridendo. Pablo aveva già quarantadue anni, ma per Ely sarebbe sempre stato il mio ragazzo, come per Milagros la musa scialba era la ragazza di Pablo, evidentemente.
Quanto al resto non mi meravigliò, era diventato di moda, all'improvviso.
«Ma perché si mette sempre a parlare di quel prete?»
«Di che prete?» Non capivo. E poi, ultimamente cercavo di non vedere Pablo in televisione. Gli altri partecipanti all'incontro, al dibattito, al programma o quello che era, di solito sembravano così imbecilli che la disinvoltura di mio marito, la sua cultura, il suo sorrisetto storto, carico di malumore, mi ricordavano che lo amavo, che lo amavo terribilmente, nonostante tutto, e questo mi faceva venire una voglia insopportabile di ritornare, mi faceva venire nostalgia del fiocco rosa e della pelliccia bianca, morbida, melensa, che avevo indossato per tanto tempo.
«Ma sì, quel prete, quello morto da tanti anni, ora non mi viene in mente il nome, perdio, sì devi sapere chi è, quello che stava con la monachina, lei sì che mi piace, doveva essere proprio una brava persona, la monachina, e molto intelligente.»
«Ma, che monaca?»
«Quale vuoi che sia? Quella delle yemas, accidenti, la santa, quella di Avila...»
«Ah! San Giovanni...»
«Ecco, San Giovanni di non so che, si mette sempre a parlare delle stesse cose, non so come fa a non annoiarsi, è chiaro che l'altro giorno andò benissimo, saltò fuori uno yankee e disse che, in realtà, quando si picchiavano con la frusta e tutto il resto, lo facevano per venire, che alla fine venivano, erano masochisti, capisci?» Annuii, sapevo di quale imbecille stava parlando. «A me sembrò molto simpatico, disse delle cose così divertenti, ma il tuo ragazzo si infuriò tantissimo con lui, fu addirittura villano, io incantata, lo sai che quando Pablo si arrabbia mi piace da morire, diventa bellissimo, e poi i capelli bianchi ora gli danno un tocco speciale, non so perché, ma sta così bene.» Il mio vicino era molto occupato. Aveva fatto scivolare la mano sotto i vestiti dei suoi due accompagnatori per estrarre i rispettivi sessi, che sostenne un momento sui palmi delle mani, contemplandoli con aria di apprezzamento. Uno di loro - il piccoletto dall'aria infantile - aveva un cazzo più che rispettabile. L'altro, alto e vistoso, devoto allo stile della vedette di rivista, con boa di piume e tutto il resto, possedeva un piccolo pene misero e rattrappito, che costituiva senza dubbio la parte più debole e miserabile di tutte le sue membra. Davvero non si può mai sapere, dovette pensarlo anche il suo cliente, che emise un gridolino ilare di sorpresa prima di cominciare ad accarezzarli equamente, senza fare discriminazioni, sono tutte creature di Dio in ultima analisi, ognuno con una mano, mentre loro facevano lo stesso con lui, baciandosi continuamente in bocca. Ely mi chiese qualcosa, ma non lo ascoltai. Ripeté la domanda, a voce più alta.
«Ma dov'è Pablo?»
«Non lo so proprio. Non viviamo più insieme.» Se gli avessi detto che la terra stava per inghiottirlo, non si sarebbe sorpreso di più. Mi fissò, muto, senza sapere che dire. Poi, capii che era più forte di lui, avvicinò la sua testa alla mia con aria di grande segretezza.
«Non sarà passato all'altra sponda, vero?» Sorrisi. Lui sarebbe stato lì, la Ely, per staccare il primo biglietto, quasi mi dispiacque dargli un dolore.
«No, mi dispiace, ma credo di no, sta con una rossa.»
«Più giovane di te, naturalmente.» Fui sul punto di mandarlo a quel paese, ma mi contenni.
«Sì, più giovane di me.»
«Così Pablo ti ha lasciato per una rossa...»
«No.» Cercai di parlare lentamente, e di scandire le parole.
«Ho lasciato io lui, e lui, dopo, si è messo con una rossa.» Mi ero sbagliata prima. Ora mi guardava infinitamente più sorpreso, la testa piegata di lato, sorridendomi con aria canzonatoria.
«Tu avresti lasciato Pablo?» Anche lui scandiva le parole «Tu pensi che io creda che tu hai lasciato Pablo...?
Ma dai, Lulù!»
«Vaffanculo!» Fu tutto quello che fui capace di rispondergli.
Ero furiosa, e non volevo che mi vedesse piangere, quel finocchione, ma dai, Lulù!
Brutto figlio di puttana, vai a prenderlo in culo così si vede se te lo rompono una fottuta volta; lui mi guardava come se fossi pazza, in genere rispondeva con un molte grazie! o un Dio ti ascolti!, e mi faceva ridere, ma quella volta si rese conto che dicevo sul serio, vaffanculo, partii a razzo, per poco non ci scontrammo con quello di dietro, meno male che aveva appena finito di raccogliere la mercanzia e andava ancora lentamente, alla mia sinistra era cominciato il movimento, il manager vestito di azzurro si era messo sopra il piccoletto, glielo stava per mettere dentro, l'altro se lo menava con la mano, da questo punto di vista mi dispiacque, mi sarei persa la parte migliore.
Chelo mi guardava, spaventata.
«Che ti prende?» Non risposi. «Ma... perché fai così? In fondo Ely è sempre stato innamorato di Pablo, no? Così dice lui per lo meno. Per favore, Lulù fai attenzione! Ci ammazzeremo...»
Guidai come una pazza, come una vera pazza, tirando dritto ai semafori, non li vedevo, avevo gli occhi pieni di lacrime.
Non ero riuscita a trovare la mia camicia bianca, quando me ne ero andata di casa.
Una notte, quasi un anno dopo il nostro primo incontro, Pablo apparve con lui. Era andato a firmare copie del suo libro alla fiera, un obbligo che detestava, e lo aveva incontrato, Ely si era presentato con uno dei suoi libri in mano ed era restato a fargli compagnia tutto il pomeriggio, perché come al solito alla bancarella non si era avvicinato quasi nessuno. Pablo in compenso lo invitò a cena, e fu la stessa Ely a prepararla.
Portava una camicetta di raso rosa pallido, con delle bretelline molto sottili e dei pizzi sulla scollatura, bellissima.
«E splendida quella camicetta.»
«Te la regalo.» Era molto buffo, con uno dei miei grembiuli, a cuocere ravioli. «Sul serio, Lulù, tienila, ne ho altre uguali, di colori diversi.»
«Mi starà piccola, sicuramente, sono molto più tettona di te...»
«Ma, non credere.»
«Però potresti dirmi dove l'hai comprata, mi piace molto.»
Così ci mettemmo d'accordo per andare a fare acquisti insieme, un pomeriggio.
Andammo a fare merenda con paste alla panna, prima, piacciono tantissimo anche a me, confessò, poi mi portò in quattro posti. Soltanto uno era un negozio, con la porta sulla strada e l'insegna luminosa, le commesse e tutto il resto, gli altri tre erano appartamenti, tutti abbastanza vicini a Sol, e l'ultimo era al sesto piano, senza ascensore.
Quando arrivammo lì non avevo proprio nessuna voglia di salire.
Avevo comprato chili di indumenti intimi.
Pablo mi aveva dato abbastanza soldi, sapeva che mi piacevano, e in effetti mi ero divertita molto a provarmi minuscoli grembiulini di stoffa lucida, completi di cuffiette, corsetti di quelli che si allacciano da dietro e mutande alte fino alla vita ma completamente aperte sotto. Ely mi aiutava e mi consigliava, questo non ti sta bene, questo sì, comprati qualcosa di cuoio nero, dà ottimi risultati...
Non gli detti mai retta, doveva essere stufo di me.
Non scelsi niente di nero, né di rosso, in realtà mi sarebbe piaciuto avere qualcuno di quei reggicalze vistosi, mi stavano bene, ed erano così classici, ma a Pablo avrebbero fatto orrore quei colori, e mi mantenni ferma sul bianco, quasi tutto bianco, qualcosa di beige, rosa, giallo, tra cui una cosa indescrivibile, un incrocio tra una camicia e un costume da bagno, piena di stringhe e di fori da tutte le parti, scomodissima ma divertente per quanto era barocca, di un color verde acqua, molto pallido.
Non mi attirava per niente salire a piedi al sesto piano, ma lo feci, sbuffando sugli scalini di legno che puzzavano di lisciva stantia, salii per non deludere Ely, perché mi disse che questo posto, che non aveva nemmeno un cartello sopra il balcone, né un'insegna di ottone sulla porta, niente di niente, era il migliore e che perciò lo aveva lasciato per ultimo.
La padrona aveva l'aria di essere stata una ballerina di flamenco in altri tempi, i capelli tinti di un nero azzurrino, tirati indietro e raccolti in una crocchia schiacciata proprio sopra la nuca. Aveva le sopracciglia disegnate in grigio chiaro e le palpebre tinte di un celeste rabbioso, la matita per le labbra, scarlatta, somigliava molto a quella che usava Ely, rosso passione o un nome del genere, fard in tono...
Molto scura, con un paio di denti d'oro, la sua faccia sembrava la mappa fisica di qualche paese molto accidentato.
Mi chiese se ero dell'Andalusia.
Quando le risposi di no, mi guardò, un po' delusa. Poi volle sapere dove lavoravo. Non seppi cosa rispondere, a quei tempi continuavo a lottare con Marziale, e pensai che le mie battaglie non le sarebbero interessate molto. Ely mi tolse dall'imbarazzo spiegandole che ero una donna perbene, be', più o meno perbene. La ballerina di flamenco, già in ritirata, fu soddisfatta dalla sua risposta, ma mi fissò con una certa diffidenza.
Per qualche ragione io non le piacevo.
Ciononostante, grassa come una foca, indossando una vestaglia stampata, ci guidò lungo un corridoio eterno fino a quella che sembrava l'unica stanza esterna della casa, una sala abbastanza grande con un paio di banconi di vetro e dei paraventi negli angoli, dove, oltre ai vestiti, si poteva vedere ogni tipo di marchingegno destinato a procurare piacere.
La vidi subito, attaccata a una gruccia.
Era piccolina, bianca, quasi trasparente, la batista era così fina che sembrava garza.
Il collo, chiuso in alto, terminava in due minuscoli risvolti, rifiniti con dei volant. Immediatamente sotto, due farfalle sostenevano una ghirlanda di minuscoli fiorellini, ricamati con filo lucido e perline. Su entrambi i lati del ricamo, quattro piccolissime piegoline. E basta. Le maniche erano corte, a palloncino, con in fondo una fascia che si allacciava con un bottone piccolo, di madreperla. Anche la blusa era molto corta, si abbottonava da dietro, con bottoni dai riflessi rosati, l'ultimo, all'altezza della vita, non si vedeva, un nastrino nascondeva l'occhiello su una fascia di stoffa simile a quella che chiudeva le maniche, ma più larga.
Era un camicino da neonato, fatto su misura per una bambina grande, di undici o dodici anni.
Quando mi voltai indietro, con quella in mano, Ely mi guardava con sorpresa. La ballerina di flamenco no, lei doveva avere visto di tutto, alla sua età.
«Le piace?»
«Sì, mi piace molto, ma non posso prenderla, è troppo piccola. Non ne ha di più grandi?»
«No, è un ordine che non sono mai venuti a ritirare.»
«Chi gliela ordinò?» All'improvviso mi assalì un sospetto stupido.
«Oh, non so come si chiamava. Un signore sui quarantacinque anni, con accento catalano, non so.»
«Venne con la bambina?» Ora provavo curiosità, e basta.
La ballerina di flamenco cominciava a infastidirsi.
«Quale bambina?»
«Be', dalla misura si direbbe che questa camicia era per una bambina, no?»
«Portò le misure scritte su un foglietto di carta, io non faccio mai domande, senta, non mi importa per chi era quella camicia, so soltanto che mi è rimasta qui, e non mi sarà facile darla via...» Continuò a fissarmi con una faccia spaventata e si voltò verso Ely. «Senti... questa qui non sarà della polizia, vero? Non sarai così figlio di puttana da avermi portato qui una della polizia, vero?» Ely fece cenno di no, io intervenni.
«No, mi dispiace, mi scusi, era solo curiosità.»
«Mmm...» Sembrò tranquillizzarsi. «Gliela possiamo fare, se vuole.» Annuii e lei uscì dalla stanza, annunciando che andava a cercare un metro, già apparentemente sicura della bontà delle mie intenzioni.
Ely si avvicinò, la prese in mano, e la guardò con attenzione.
«Ti piace davvero?»
«Sì, e Pablo ne rimarrà incantato, ne sono certa, più che di qualsiasi altra cosa che abbiamo visto oggi.»
«Questa?» Era veramente perplesso. «Sei sicura? Non me lo sarei mai immaginato, il tuo ragazzo deve essere davvero molto più maiale di quanto sembra...» La ballerina di flamenco, col metro in resta, stava ascoltando la nostra conversazione dalla soglia della porta. Ordinai tre camicie uguali, tutte bianche, questo già la sorprese di più. Dopo avere preteso un acconto che era un vero abuso, mi disse come avrei potuto ritirarle quindici giorni dopo. Ely, che aveva ordinato una specie di chimono corto, nero, con dei dragoni colorati, orrendo, che a lui sembrava molto elegante, si offrì di ritirarmi le bluse. Quando tesi la mano alla padrona di casa per salutarla, lei mi prese per le spalle, mi dette due baci e mi si rivolse dandomi inaspettatamente del tu.
«Se tra un po' di tempo hai bisogno di tornare a lavorare, vieni da me. Potresti guadagnare un bel po' di grana, ora che le brune sono tornate di moda, soprattutto d'estate, gli stranieri, sai? Nordici, belgi, tedeschi, anche francesi, sembra incredibile, anche se stanno così vicini, ai francesi gli piacciono molto le tipe come te, dovresti dire che sei andalusa, ma ad ogni modo...»
Si fermò per sorridermi, credette di avere interpretato correttamente l'espressione della mia faccia. Io non ero arrabbiata, né offesa, semplicemente non riuscivo a crederci.
«Non ti fare illusioni. Ti lascerà alla svelta, con i gusti che ha... sei carina, molto carina, questo sì, e lui non deve essere ancora così vecchio, ma con gli anni gli piaceranno sempre più giovani, bionde e sottili, e alla fine, le bambine piccole, come al catalano, che andava con sua figlia, quel maiale, una bambina bellissima, faceva pena a vederla... La verità è che non capisco perché ha scelto te, anche se non lo conosco, non capisco, ci sono in giro tante ragazze grandi che sembrano uscite dall'asilo e tu, che devi essere giovanissima, dimostri più anni di quelli che hai, non capisco.» Ora mi parlava con simpatia, come una zia anziana sinceramente preoccupata per il mio futuro.
«Insomma, vieni da me se hai bisogno di ricominciare a lavorare...» Ci avevo pensato spesso, ma non gli avevo mai dato importanza.
Ne parlai con Ely quando scendemmo in strada, in fondo Pablo mi aveva conosciuto in culla, era diverso, molte volte aveva giocato con me quando ero piccola, e poteva continuare a considerarmi una bambina, se voleva, non gli doveva costare una grande fatica, quanto a me non mi sembrava proprio di fare niente di speciale per fomentare la cosa.
Ely mi guardava senza capire bene quello che dicevo.
Tra irose proteste- «ma quanti anni credi che abbia io, adesso, nemmeno fossi tua nonna, a me non piacciono ancora queste cose» -, lo trascinai a prendere una tazza di brodo mentre pensavo che con tutti gli anni che aveva passato dedicandosi alla prostituzione, a volte era incredibilmente ottuso.
Ci avevo pensato, spesso, senza dargli molta importanza, ma quella notte, mentre guidavo come una pazza, le parole della ballerina di flamenco, e anche quelle di Ely «molto più giovane di te, naturalmente» mi si piantavano nel cervello come spilloni, spilloni lunghi e dolorosi.
La mia camicia bianca era scomparsa, era l'ultima che restava, le altre pian piano si erano rotte e a questa mancava poco, cinque anni abbondanti, quasi sei, era durata, non era male. All'inizio pensai che era buon segno, non era saltata fuori, Pablo l'aveva conservata per tenersela, io me ne andavo per sempre, in realtà non sapevo perché me ne andavo, era questa la verità, ma forse ora ce l'aveva addosso lei, il mio camicino da neonato, sicuramente sarebbe stata meglio a lei che a me, era più giovane.
Quando arrivammo, Chelo mi obbligò a salire. «Non puoi tornartene a casa in questo stato.» Era perfino un po' spaventata, ho sempre pensato che sospetti che sono pazza, un po' squilibrata, come direbbe lei.
La cassetta era dentro la sua scatola, sopra la televisione, la vidi non appena entrai. Chelo mi disse che andava a farsi una doccia e mi chiese se volevo farmene una anche io. Risposi di no, non ci mancava altro, quella sera, che Chelo si mettesse a fare la scema con me. Avevo già accettato l'ultima volta che eravamo uscite a cena insieme, e poi mi ci era voluta tutta a togliermela di dosso.
«E strano...», mi aveva detto, «hai di nuovo i peli sulla fica, dopo tanto tempo.» Mi versai da bere, per l'ennesima volta, e presi la cassetta.
Sulla copertina c'erano tre esseri splendenti, bruni e sani.
A sinistra si vedeva un uomo molto bello, in piedi, con un asciugamano bianco arrotolato intorno alla vita e un altro su una spalla. Era Lester, ma io non lo conoscevo ancora.
Al suo fianco un altro, ancora più alto e più bello, castano e ilare, impressionante, con dei jeans vecchi, sbiaditi, mi sembrò l'uomo più bello che avessi mai visto. Una donna bionda, piccola, dall'espressione buffa e completamente nuda, seduta su una sedia, completava la composizione a destra. Più o meno sopra la sua testa appariva un simbolo che non avevo mai visto, tre cerchietti, i primi due con una freccina, il terzo con una crocetta anch'essa ascendente, intrecciati assieme.
«Cosa è questo, Chelito?»
«Cosa?» Attraversò la stanza nuda, venendo verso di me. «Ah! questo, è un film, l'ha portato ieri Sergio, ma non l'abbiamo visto, perché, be', insomma, non so di che si tratta...» Nella sua voce c'era un leggero accento di scusa.
La guardai con maggiore attenzione.
Aveva un lungo graffio sopra il seno sinistro. Anche se si era messa deliberatamente con le spalle alla luce, potei distinguere altri segni sparsi su tutto il corpo. Erano recenti.
Mi guardò negli occhi e mi mise la mano sulla spalla.
Sapeva cosa stavo pensando e sapeva anche che io non avrei fatto alcun commento. Era inutile, dopo tanti anni, mi avrebbe assicurato che era stata una cosa accidentale, che non si sarebbe ripetuta mai più, come le altre volte.
Pablo non mi aveva mai picchiato.
«Senti, Chelo, ascolta, se non ti dispiace, finisco questo bicchiere e me ne vado a casa. Sono molto stanca ed è già tardi...»
«Sì, d'accordo, fai come vuoi, naturalmente.» Mi interruppe prima che potessi finire la frase. C'era rimasta male, era fatta così, io ormai ero abituata a questa sua maniera di pensare, a questo blando, ambiguo, lacrimoso concetto dell'amicizia.
Il cameriere di turno, la notte prima, le aveva dato delle belle legnate, e ora aveva bisogno di consolazione e di affetto, qualcosa di morbido e di delicato, un piacere puramente sensibile, come diceva lei. Faceva parte del gioco, evidentemente, fingere abbandono e dolcezza, ornare la pelle coperta di lividi con lacrime e sospiri per impressionare qualche ragazzina incauta, agli esatti antipodi del bestione che l'aveva obbedientemente assalita poche ore prima, perché era così che faceva lei, a volte avevo contemplato i preliminari, li provocava e li insultava, dava loro corda a poco a poco, finché non abboccavano, e abboccavano sempre, perché prima si preoccupava sempre di cercarli sufficientemente innocenti, li sceglieva sempre dello stesso tipo, camerieri, meccanici, fattorini appena sbarcati a Madrid, ancora innocenti, come innocenti dovevano essere le ragazzine, per bersi il racconto dello stupro e delle dolorose cicatrici, a me non cercava neanche più di darla a bere, nemmeno quando faceva male i suoi conti e lui risultava meno maneggevole del previsto, perché ce n'erano anche di quel tipo, con le loro idee.
Lei cercava di vendicarsi della mia severa impassibilità di fronte ai suoi trucchi ricordandomi che non sono una persona sensibile, ma ormai anche questo non mi toccava più, dopo tanti anni.
Udii sbattere la porta, e il rumore dell'acqua che cadeva nella doccia. Avevo ancora la cassetta in mano, e continuavo a sentirmi affascinata da quel simbolo sconosciuto, la catena di cerchietti uguali e diversi.
Mi avvicinai alla porta del bagno e gridai.
«Ti dispiace se la prendo? La cassetta, voglio dire.» Non mi rispose. Insistetti altre due volte.
«Fai come ti pare!» Era davvero arrabbiata con me.
Misi la cassetta nella borsa e uscii senza fare rumore.
Stavo già cominciando a pensare che forse non mi stavo comportando come una buona amica, dopo tutto, e lei era perfettamente capace di lanciare un ultimo repentino attacco alla disperata.