XII

Dimenticavo, la sai la novità?

Ci hanno spedito

nello spazio per un nuovo,

ipotetico allunaggio,

ma è andato tutto storto

e ora non sanno

come diavolo farci ritornare.

Dovremo contare solo

sulle nostre forze, sulla nostra

farfugliante intelligenza,

su un’improbabile miscela

di audacia e di prudenza.

Ma come, come?

Persi nel gelo immane

di un cosmo senza fine,

senza il calore di una bussola

di luce, attendiamo al buio

il profilarsi di un barlume…

Ed ecco, miracolo, il pianeta

azzurro che ci viene incontro,

ecco il largo chiarore della Terra.

Intima essenza del cielo

e degli dèi, dove Natura rifà

cosa da cosa, dove tutto

si sposa in doppio chiasmo

di vuoto e di materia.

Il resto è solo evento,

una fatalità che non sta su da sé.

Lo so da me che anch’io mi muovo

titubante in questa esile fessura,

interstizio latente dove

ogni creatura senziente

cerca un pertugio,

un varco, uno spiraglio.

Il carro divino ormai

è trascorso e il suo alone

di luce dissolto, dileguato.

Novello Iperione,

barcollo come un pellegrino

disperso nella nebbia,

accettando il mio stato

di indigenza, ché il vero

orgoglio ormai si dà

nel chiedere clemenza.

Pietà e clemenza

per quanto non si è,

per quanto non si può,

per quanto non si fa.

Cammina il pellegrino e va.

Immagina, vede, prefigura.

Suo limite indiscusso,

ma anche sua

singolarissima avventura.

Se Cloto fila e Lachesi tesse,

Atropo recide.

Eppure… eppure:

felicità di un’orchidea

che rifiorisce, gemma che spinge

e che supplisce al dolore

versato goccia a goccia in bocca

da una screziata brocca.

Ti prego, accontentati dei sensi,

accontentati dell’occhio.

Colma l’occhio, colma i sensi.

Il tuo compito si è svolto

e il mistero non si è sciolto.

Ma hai potuto navigare:

onde e sponde, sponde e onde…

movimento senza fine

che non riesco a misurare.

Misurare decifrare interpretare

leggere capire decrittare…

Esercizi tutti senz’altro affascinanti,

eppure, al fondo, inconcludenti.

Per questo mi domando: siamo cosí

sicuri che ci sia qualcosa da capire?

O non si tratta piuttosto di sentire?

Sentire con l’orecchio

e con il cuore e tutti gli altri sensi,

compresi i piú segreti e misteriosi,

per dare finalmente corpo

ad affetti, conati, sentimenti?

Sentire come sente un indovino,

un mago, uno sciamano –

foss’anche il peggiore ciarlatano.

Se cosí fosse, allora, di cosa

ti lamenti? Il problema

non è affatto un mondo vuoto,

vacuo, insulso, senza senso:

l’angoscia è tutta figlia

dei fantasmi soverchianti

che ci portiamo dentro –

del costante intasamento

della mente, attraversata

da assilli e crucci, da dubbi

e indecisioni, da pulsioni

e desideri opposti,

divergenti, discrepanti,

contrastanti.

Soltanto rimuovendo con pazienza

quelle infinite scorie,

solo rendendo l’anima

finalmente pulita, aperta,

e tersa ed accogliente,

solo una volta che la mente

sia stata opportunamente

svuotata e rieducata,

potremo (forse) vivere

con pienezza e con coraggio

la nostra comica e dolente –

esistenziale passeggiata

nello spazio sublunare.

Per fare finalmente pace

con la nostra ombra, con il lago

nero, trapasso oscuro

nella terra, dove ogni creatura

combatte la sua propria guerra:

questo il celebre perro

ci ha insegnato.

Figli di Pitagora e Mercurio,

degli uomini talpa

e degli animali scavatori,

impareremo mai a perderci,

smarrirci, inabissarci

nelle cavità ipogee, nella vita

ctonia e primigenia

del mondo intraterrestre?

Laddove alte finestre dànno

sul buio di caverne, pozzi,

cripte, buchi, imbuti.

Un oltremondo dove resteremo

ipnotizzati, vacillanti e muti

a sostenere quell’incertezza

e quel mistero

che nessuno può fugare:

quell’incantesimo di fondo,

piú fondo di qualunque fondo,

che è cosí difficile accostare.

Un luogo ignoto

che intende metterci alla prova –

un luogo dove è arduo simulare.

Ma questo altrove che qualche forza

misteriosa ha ingravidato

allude anche all’oltretempo nuovo

in cui ci hanno gettato – e quel vento

cavernoso che da dentro spinge,

piú che mai ci avvince a una realtà

malcerta, basculante, sconquassata,

ignara ormai

del copione preordinato.

Esausto, il dio delle stagioni ha rotto

il patto e nel cosmico sconcerto

in cui siamo finiti si aggira

un demone chiamato parassita:

creatura tra le poche

capace di andare ancora

a tempo in un’orchestra

fuori sincrono, senza

spartito e senza direttore.

Tanto che nelle more

di un giudizio

che non tarderà a venire,

oggi risuona cupa e forte

l’orribile fanfara

della processionaria.

Reclama applausi il teatro

d’arte varia dei suoi sfarfallamenti

e mutazioni e accoppiamenti,

nidi sericei dischiusi

in primavera e caduti

con un tonfo sopra una molle terra

invasa dai camminamenti

senza fine di larve

dalle mandibole implacabili

e dai peli ultraurticanti:

mortali nemici di pini, cani,

gatti, armenti.

Finiremo anche noi

appesi ai rami di quegli alberi,

ospiti di quegli orridi nidi?

Saremo i parassiti di noi stessi?

I piú aggressivi e maligni,

i piú malsani e infidi?

Oppure saremo capaci

di fare nostro il quinto

umore, occhio prospettico

e ulteriore, riluttante

ad accettare ogni promessa

e ogni disperazione?

Dài, dimmi. Che cosa suggerisci?

Come equipaggiarsi per affrontare

al meglio questo nuovo spazio-tempo?

Questo inedito teatro galleggiante

che non si appoggia a niente,

artificio ignoto

nell’essenza, ma reale,

tanto piú reale, nella sua irrealtà?

Stranito, scalzo e denudato,

mi avvio nel nuovo campo

curvo, aperto e smisurato,

deciso a vedere finalmente

le cose come sono e ad accettarle

comunque come un dono.

A prendermene cura, con tutta

la premura di cui sarò capace.

Sí, voglio saggiare fino in fondo

ogni scabra, fisica presenza,

anche quando sia mancanza,

inequivocabile misura

della mia ricca povertà:

ineluttabile, ferrea necessità.

Fratello mio, sorella mia,

sia cerimonia di passaggio

e sia una festa – per chi abbia

la fortezza di sostenere

questa stagione di fuoco e gelo

e di tempesta

che non per caso

stentiamo a disegnare.

Spazio petroso che si allarga,

guizzo di un infra-tempo sfigurato

che siamo chiamati ad abitare.

Come piante celesti che non sanno

di essere profughi luminosi

e abbandonati; figli indigenti

di una terra – da sempre, e ancora,

pronta a farsi fecondare.