VIII

Rammemora la terra, sí, ma l’acqua

scorda e a poco a poco a noi

terricoli regala solo il riflesso

del ritorno d’onda,

una flebile risacca.

Che dire allora

del millenario equivoco

attorno al regno vegetale,

quello sí felice connubio acquatico

e terrestre; indiscutibile trionfo

nella dura legge dell’evoluzione?

Accecati dalla nostra presunzione

pensiamo per davvero che gli alberi

siano stati messi lí per farsi

rimirare? Gradevoli gingilli

offerti dal creatore

per un variopinto, festoso

fondale naturale?

O non sarà piuttosto che hanno

un bel daffare e organizzati

al meglio (aiutati da un mirabile

apparato radicale), se ne stanno

dritti, eretti, tutto il tempo

ad indagare? Ad osservare

il nostro inferno catramato,

la nostra agitazione simulata?

Noi che vantiamo cosí tanto

la nostra intelligenza

e sottigliezza e competenza,

almeno una cosa

dovremmo riconoscere –

che nella lunga, lunghissima

battaglia dell’evoluzione,

il regno vegetale ha stravinto

su quello umano ed animale.

Utilizzando semi e spore,

i vegetali si spostano

conquistando di continuo

nuovi regni. La loro ingegneria

sociale è piú efficace:

noi andiamo veloci, loro

lenti. Ma sono piú tenaci,

combattivi, persistenti.

Noi abbiamo organi singoli

o doppi – loro sparsi, diffusi.

Noi un comando gerarchizzato,

accentrato, verticale –

loro cooperativo, olomorfo, modulare:

in breve, un teatrale allestimento

di pregevole fattura

e indubbio godimento,

che quanto a sopravvivere

espandendosi, si è rivelato

infinitamente superiore.

E dunque, chi si affanna tanto

a governare il mondo, avrebbe

senz’altro qualcosa da imparare

da questo sistema di colonie

a sciame, reticolare,

orizzontale e autogestito.

Se ti rammento tutto questo,

è perché uno scienziato ardimentoso

sostiene che se dalla Terra

scompariamo noi,

non accadrà un bel niente.

Se invece scomparissero le piante,

sarebbe la fine del pianeta,

e non un transitorio,

tutto sommato

rimediabile incidente.