V
Intendiamoci, non è
che non capisca
il vostro impulso
a mantenere in vita
un seppur labile legame
con ambienti che pure
da tempo non sentite
come vostri.
No, lo capisco bene,
e condivido il medesimo
terrore di dover combattere
da solo orridi mostri.
Il vento del Nord, però, ha altri
progetti sul mio conto. Intende
trascinarmi via, e non
per trasformarmi in santo,
ma perché io trovi una parola mia
nel retrobottega di me stesso –
in uno spazio segreto
dove regna Parresía.
Rammemorando una per una
le maschere sociali che
via via ho indossato,
vengo colto da una strana nausea,
come di chi si sia dannato
a metter su una sceneggiata
che ora scopro falsa e vuota:
il gioco d’ombre di un mondo
mascherato da cui mi piacerebbe
considerarmi congedato.
È vero, non ho da offrirvi
canovacci piú attraenti,
ma per quanto mi riguarda
non intendo piú continuare
a recitare quel logoro testo
dozzinale e abborracciato –
stento, stantio, bacato.
Cosí facendo, mi ammonisci,
correrai il rischio
di rimanere solo.
Perché, non sarei forse
ancor piú solo stando
in contatto stretto con chi
non parla la mia lingua?
Con chi non condivide
i miei stessi malumori,
le mie idiosincrasie, le mie gioie,
i miei sogni, i miei dolori?
Il grande equivoco dilaga
e io non voglio alimentare
ulteriormente il malinteso.
Dall’enorme bilancia fegatosa
che famelica s’ingrossa,
vorrei provare se non altro
a togliere il mio peso.
E poco importa se i coreuti
del presente, equivocando,
mi definiranno disertore.
Da parte mia, preferirei piuttosto
parlare di pace separata;
di una libera scelta di philia,
la cosa santa che non è acquiescenza
verso la somiglianza,
ma predisposizione al turbamento,
all’eccedenza. All’arrischiato incontro
con una salutare differenza
di voci in un convivio.