XXXIII

In quale delle infinite chiese di Roma fosse stato portato non lo sapeva e non volle saperlo. Al vetturino domandò soltanto se poteva aspettarlo fuori per riaccompagnarlo a casa.

Il cocchiere annuì e prese i soldi.

L’interno della chiesa era spoglio, di pietra fredda, il posto adatto a offrire riparo a qualche pellegrino: non c’era niente da rubare; nel presbiterio, ai lati dell’altare, ardevano due grossi ceri di sego, il resto galleggiava in una penombra densa ed era come se l’edificio sfumasse nel nulla.

Orsolini entrò con lui senza fare la minima resistenza, rigido e ubbidiente come un automa svizzero.

Bellerofonte gli tolse la parrucca e la gettò in un angolo, lo condusse a un confessionale e lo fece sedere dentro, nel posto che gli spettava, quello del sacerdote, e lui si inginocchiò di lato, davanti alla grata, come per confessarsi.

L’effetto dell’arcano doveva essere al suo apice.

«Mi sentite, padre?».

Da oltre la grata gli rispose una voce cavernosa e monotona: «Vi sento».

«Avete esaminato la salma di un bambino assassinato, che è stato ritrovato sul monte Aventino?»

«Sì».

«Avete capito qual è stata la causa del decesso?»

«Dissanguamento eccessivo in conseguenza di un salasso troppo prolungato».

«Qualcuno del Santo Uffizio vi ha ordinato di tacere qualcosa su questa morte, di essere reticente nel vostro responso medico?»

«No».

Provò a ripetergli la domanda e Orsolini disse «no» ancora una volta.

Non era la risposta che Bellerofonte si aspettava. Per verificare che l’arcano avesse fatto davvero effetto gli chiese se aveva relazioni con delle donne.

«Tre», rispose il prete medico.

«Come si chiamano?».

Disse i nomi e i cognomi e fornì una quantità abnorme di dettagli che lo avrebbero seriamente compromesso se fossero stati resi noti.

L’arcano stava funzionando, come sempre.

«Avete notato che il bambino era stato castrato?»

«Sì».

«Perché me lo avete taciuto?»

«Ho pensato che il bambino provenisse dal coro di una cappella», rispose, senza enfasi. «L’ho fatto per non esporre la Chiesa a delle dicerie».

«Non ve lo ha ordinato nessuno?»

«No, nessuno».

«Chi credete che siano i colpevoli di questa morte?»

«Un prete».

«Non i giudei?»

«No».

«Perché, allora, avete incolpato i giudei?»

«Per sviare i vostri eventuali sospetti».

«Sospetti su chi?»

«Sul prete».

«Quale prete?»

«Il prete che ha ucciso il bambino».

«È stato un prete?»

«Non lo so».

«Lo avete sospettato soltanto?»

«Sì».

«Qualcuno vi ha fatto domande o vi ha detto qualcosa su di me?»

«Sì».

«Chi?»

«Uno sbirro del Santo Uffizio, quando sono venuti a prendersi la salma».

«Cosa vi ha domandato?»

«Voleva sapere cosa aveva detto il veneziano».

«E voi cosa gli avete riferito?»

«Niente. Il veneziano non ha detto niente».

In casi come questo, Bellerofonte capiva il valore di tenere la bocca chiusa.

«Perché gli sbirri del Santo Uffizio hanno preso il bambino?»

«Non me lo hanno detto».

«Sapete dove avevano intenzione di portarlo?»

«No».

«Odiate così tanto i giudei, padre?»

«No, non li odio».

«Però li avete accusati di crimini molto gravi. Perché lo avete fatto, se non nutrite astio nei loro confronti?»

«Perché sapevo che tutti lo avrebbero creduto verosimile».

«A voi lo sembra?»

«Sì».

«Lo avete detto a qualcun altro, a parte me?»

«Sì».

«A chi?»

«A un domenicano del Santo Uffizio».

«Come si chiama?»

«Non conosco il nome, non lo avevo mai visto prima».

«Descrivetemelo».

«Calvo, glabro nelle sopracciglia, con la barba bianca. Gli fischia la esse».

«E lui come ha reagito alla vostra accusa nei confronti dei giudei?»

«Ha detto che avevo ragione».

«Non vi ha chiesto altro?»

«No».

Bellerofonte si alzò dall’inginocchiatoio e uscì dalla chiesa senza voltarsi verso l’altare, senza farsi il segno della croce. Raggiunse la carrozza che lo attendeva e ordinò al cocchiere di partire.

Cosimo Orsolini restò lì, seduto nel confessionale.

Solo, nel silenzio della chiesa, senza lo stimolo delle domande, non avrebbe tardato ad addormentarsi. Dopo circa mezz’ora si sarebbe svegliato e si sarebbe domandato cosa ci facesse in quel luogo, come ci fosse arrivato. Si sarebbe tastato la testa e non avrebbe trovato la parrucca. Si sarebbe spaventato a morte e forse sarebbe corso via credendo di essere stato rapito dal diavolo, punito per la sua condotta licenziosa. Bellerofonte volle scommettere che quell’esperienza lo avrebbe fatto allontanare almeno per un po’ dai vizi del gioco e del bere; forse, d’ora in avanti padre Orsolini si sarebbe meritato l’appannaggio ecclesiastico, aiutando il prossimo e lavorando sodo all’Ospedale, anche di domenica sera.

Ci scommise, ma sperò di non restare a Roma così a lungo da poter appurare se aveva indovinato.

Il mare di Venezia ululava da lontano il suo richiamo.

Le calli cantavano, suadenti e irresistibili come sirene, mentre la carrozza ondeggiava mollemente. Chiuse gli occhi e immaginò di essere a bordo di una gondola, in una splendida giornata d’estate, in compagnia di Anne Marie; il gondoliere cantava la sua barcarola e loro venivano cullati da un mare dolce, accogliente e materno. Il mare nella sua mente sembrava fatto di vetro di Murano, sfavillava di scintillii stordenti, mormorava i suoi segreti d’amore. Anne Marie era bella come un angelo. Ogni cosa sorrideva.

Riaprì gli occhi, quasi con paura, guardò fuori pronto a restare deluso, ma trasse un sospiro di sollevo: doveva riconoscere che Piazza Navona era bella, che tutta Roma lo era.

“Padre Cosimo Orsolini”, pensò, “ego te absolvo a peccatis tuis”.