XL
«Mastro Salvigni?».
La voce di Bellerofonte risuonò solitaria.
«C’è qualcuno in casa?».
Le porte delle camere al pian terreno erano state lasciate aperte: oltre l’ingresso, un salotto e, in fondo, altre stanze; riusciva a scorgere parte di una porta chiusa.
«Mastro Salvigni!», urlò.
Profondo silenzio.
Decise di salire al primo piano e controllare se ci fosse qualcuno addormentato nelle stanze da letto.
Nessuno.
Quella per gli ospiti odorava di polvere. Quella usata da Salvigni, invece, era in disordine, ma il letto, nascosto in una nicchia da un ampio sipario, era rifatto e freddo; era sovrastato da un crocifisso e da un’immagine della Vergine, sopra i quali c’era un quadro leggermente obliquo, raffigurante un paesaggio bucolico.
In un angolo della stanza si innalzava una stretta scala a chiocciola che portava all’ultimo piano, con la ringhiera drappeggiata come la base di una poltrona.
Il camino era spento, ma sporco di cenere; sulla mensola, un orologio ad acqua.
Su un tavolino addossato alla parete di fronte, una pila di carte che sembravano essere state gettate alla rinfusa, i fogli che scivolavano via dal mucchio come per sfuggire alla calca.
Frugò fra le carte.
Spartiti. Alcuni disegni fatti a matita: volti umani tristi, molli, cadenti. Spartiti. E ancora spartiti.
Niente di interessante neppure dentro i cassetti dello scrittoio.
Salì all’ultimo piano usando la scala a chiocciola.
Anche qui non c’era nessuno. Una mansarda bassa e polverosa, usata come ripostiglio per bauli. Tutti chiusi a chiave.
Ridiscese.
Era a metà della scala quando udì che qualcuno stava bussando al portone.
I colpi echeggiarono per tutta la casa.
Andò a una finestra e sbirciò in strada, attento a non farsi vedere. Da quell’angolazione, però, non riusciva scorgere chi stava bussando al portone, con insistenza.
Nessuno andava ad aprire. Smisero di bussare.
Adesso Bellerofonte sapeva di essere l’unico ospite di quella casa.
Continuò a ispezionare le stanze del primo piano.
Il bagno, lussuoso, ridondante di madreperla, era stato pensato per lunghe soste di piacere. Gli sembrava di vederlo, il gigante Salvigni, a mollo in una vasca colma d’acqua calda e profumata, impegnato a canticchiare una melodia alla luce dorata delle candele.
Accanto al bagno c’era una sala: due tavolini, su uno dei quali c’era una scacchiera, una vetrina con molti liquori, e un clavicembalo in un angolo, con accanto un leggio alto come una persona, di sicuro per il cantante.
Non entrò.
La camera adiacente era un guardaroba, ingombro di vestiti, tra i quali spiccava, appeso a una gruccia, un costume di carnevale che sembrava essere stato preparato per un utilizzo imminente. La maschera nera lo spiava dai suoi fori a mandorla. Anche per quel che riguardava il suo guardaroba il barbiere castrato e castratore non lesinava sulla qualità né sulla quantità. Notò anche una servetta muta, una tipica maschera femminile veneziana da tenere attaccata al viso con l’ausilio della bocca, serrando le labbra attorno a un bottone interno, che impedisce di parlare.
Scese al pian terreno e accostò l’orecchio al portone. Si udiva solo il vento che spazzava la via.
Proseguì la sua visita clandestina, con calma, anche se le candele lasciate accese autorizzavano a supporre che Salvigni fosse uscito di casa con l’intenzione di non rientrare tardi. Non sarebbe stato un ostacolo difficile da superare, se, per chissà quale bizzarro motivo, si fosse trovato ancora lì al suo rientro.
Nel salotto c’era un grande camino con della legna pronta per il fuoco. Le pareti erano cariche di quadri disposti con ordine a formare una scacchiera di facce che saliva fino a lambire il soffitto. Il pavimento era impreziosito da un tappeto soffice, che sembrava essere stato steso a terra per attutire i passi indiscreti degli intrusi come lui.
Davanti alla finestra ardeva un fascio di grossi ceri sorretti da un massiccio candelabro di peltro, innalzato su un’asta di bronzo, e dall’odore si capiva che anche quelle candele non erano di sego, ma di costosa cera d’api. Illuminavano un ambiente desolato.
Continuò a ispezionare la casa in punta di piedi, tenendosi lontano dalle finestre e trattenendo quasi il respiro, l’orecchio teso al portone d’ingresso, pronto.
Aprì i cassetti del comò, con lo sguardo rivolto al lussuoso clavicembalo nell’angolo: era sorretto da angeli, dipinto con immagini di fronde lussureggianti che offrivano la loro ombra a giovani gaudenti in festa su un prato. Salvigni non badava davvero a spese. Lo immaginò guaire in solitudine, accompagnandosi alla tastiera.
Quando riportò gli occhi sui cassetti che aveva appena aperto, vide che contenevano una notevole quantità di oggetti insignificanti, come due paia di nacchere, guanti, foulard, un vecchio mazzo di carte da gioco… Frugò, ma non trovò niente.
L’ultimo cassetto, in basso, era l’unico dotato di serratura ed era chiuso. Probabilmente conteneva qualcosa di più interessante dei precedenti.
Si guardò attorno cercando di immaginare dove Salvigni potesse aver nascosto la chiave.
Controllò sotto il tappeto: non c’era.
Pensa, pensa, si disse. La chiave doveva essere lì vicino, da qualche parte.
Non era dietro i quadri sopra il comò. Non era negli altri cassetti. Non era neppure sotto i soprammobili, né dentro il cofanetto d’ebano, che conteneva soltanto profumi francesi.
Però c’era una sedia accanto al comò, una di quelle che in genere non si tengono nei salotti, ma negli studi, davanti alle scrivanie. Ci pensò, perché spesso, nelle tante perquisizioni che aveva fatto a Venezia, in qualità di notaio investigatore dei Signori della Notte al Criminàl, gli era capitato di…
Provò a sollevare il velluto di uno dei braccioli e si aprì come una scatola producendo un cigolio meraviglioso.
La chiave c’era.
La baciò e la infilò nella toppa.
La serratura scattò.
Tirò il cassetto, lentamente, come si apre uno scrigno pieno di gioielli. Ma trovò qualcosa di meglio: un mazzo di documenti, e lettere che non erano ancora state bruciate.
Scorse le carte rapidamente, scartando quelle di carattere formale, e concentrandosi su quelle di natura burocratica: elenchi di persone da pagare (si capiva che Salvigni stipendiava due servi), richieste da evadere (in molti si rivolgevano a lui per ottenere favori, neanche fosse un patrizio), incassi della barberia (molto modesti), spese per la barberia (ingenti). Infine, giunto al fondo del plico, si ritrovò in mano una lettera che forse aveva da raccontare qualcosa. La busta riportava il sigillo del Santo Uffizio.
Si fermò e ascoltò la desolazione della casa.
Aprì la busta e lesse velocemente il foglio che conteneva.
Caro amico,
abbiamo ricevuto gli uccellini da voi selezionati per la scuola con la solita maestria e la consueta cura. L’Anonimo ne è rimasto molto soddisfatto e si è raccomandato con il sottoscritto di farvi giungere il suo apprezzamento.
Dice anche che, se continuate a non sbagliare un colpo, presto resterà ben poco con cui rifocillarsi. L’aere è lieto, ma la fontana della vita va asciugandosi come un rigagnolo sotto il sole di luglio. Pensate di poter rimediare ponendo il minor tempo possibile fra il problema e la sua risoluzione? Perdonate la domanda retorica, so bene che non deluderete né me, né il mio signore.
Ho bisogno di una delle vostre tragiche tosature per poter soddisfare le richieste dell’Anonimo.
Insomma, ho bisogno dei vostri servizi.
Il laboratorio del vostro riconoscente amico ha terminato il suo elisir speciale e attende con ansia l’arrivo di linfa nuova. Sono consapevole di poter sempre contare sulla vostra devota fedeltà, nonché sulla vostra bramosia di lusso e di piaceri. L’Anonimo saprà essere molto riconoscente, come al solito.
Monete luccicano.
Monete incantano.
Monete saziano.
Monete, monete, monete in quantità.
Per voi, gentile amico.
Sempre vostro servit.,
Gio Bartolomeo Della Porta
Non c’era una data.
Gio Bartolomeo Della Porta?
Quel cognome non gli suonava nuovo, ma non ricordava a chi appartenesse, né dove lo avesse sentito.
Rimise la lettera nella busta e se la fece scivolare in tasca. Sentì il corpo duro della tabacchiera. Aveva bisogno di un pizzico. Il tabacco gli restò appiccicato alle dita umide per l’ansia.
Aspirò lo stesso, senza fare caso alla quantità.
Entrò nella sala da pranzo. Era tutto così in ordine da far pensare che fosse la parte meno frequentata dell’abitazione. Il centro della stanza era dominato da un lungo tavolo solitario; nell’aria, odore di chiuso. Non c’era tanto da sorprendersi se un tipo come Salvigni riceveva raramente degli ospiti.
D’un tratto, nel cervello di Bellerofonte divampò una fiamma e apparve l’immagine di Salvigni, immerso nell’oscurità notturna della sua bottega, curvo sui genitali di un bambino.
Ecco dove poteva essere.
Si rimproverò di non averci pensato prima. Salvigni operava di notte, al riparo da sguardi indiscreti, all’ora in cui la barberia era chiusa e nessuno sarebbe arrivato a ficcare il naso nelle sue losche attività.
Se fosse andato lì, c’era da scommettere che lo avrebbe trovato insieme a qualche mercante di voci angeliche. Ma, a pensarci bene, non era il viscido Salvigni che voleva. Se avesse fatto irruzione nella sua bottega, avrebbe forse avuto la prova della sua attività illecita, delle sue pratiche clandestine e avrebbe potuto arrestarlo insieme a qualche complice. Con il risultato che il committente, il vero mostro – l’Anonimo? –, colui che osservava tutto dall’alto, in cima alla sua piramide di mostruosità, sarebbe stato messo in allerta, avrebbe interrotto per qualche tempo la sua attività, e poi avrebbe ricominciato, servendosi di un altro barbiere compiacente, ammesso che non ne avesse già a disposizione più di uno.
Si affrettò a ispezionare le ultime stanze del pian terreno.
La cucina aveva una dispensa ben fornita. La credenza traboccava di leccornie.
Una toeletta.
Un ripostiglio.
Un armadio a muro nascosto da una tenda.
E nient’altro da vedere.
Infine, si trovò di fronte all’ultima stanza da controllare. L’unica porta chiusa in tutta la casa.
E se Salvigni o qualcun altro fossero stati lì dentro, magari addormentati, se non avessero sentito bussare?
Posò una mano sulla maniglia ed esitò, prima di abbassarla.
Origliò.
Dall’altra parte, tutto taceva, mentre nella sua mente tutto gridava.
Gio Bartolomeo Della Porta… si sforzò di ricordare.
Bartolomeo…
Poteva trattarsi di padre Bartolomeo, lo speziale del Collegio, che camuffava in quel modo il suo vero nome?
E se fosse stato ancora vivo?
Annusò la carta della lettera, odorava di vecchio.
Scosse la testa: se anche padre Bartolomeo fosse stato vivo, avrebbe dovuto fingere la propria morte e non gli sarebbe stato affatto facile accedere al Collegio per avvelenare il suo nemico giurato.
E, poi, chi era l’Anonimo?
Abbassò la maniglia. Cigolò pericolosamente. Spinse la porta, piano.
Man mano che l’anta scivolava all’indietro sui cardini, apparvero una libreria, una scrivania, uno specchio, una poltrona vuota sotto una cascata di candele accese, un’arpa…
L’attenzione di Bellerofonte tornò sullo specchio.
Riflesso, in basso, caduto sul tappeto, c’era un grosso mazzo di camelie e fiori gialli di mimosa.
Sporse la testa oltre l’anta della porta e vide quello che non avrebbe mai immaginato di trovare.
Una mano spuntava da dietro lo scrittoio. La mano di un corpo enorme avvolto in un’ampia veste di raso verde, riverso per terra con le braccia spalancate, senza vita.
Salvigni fissava il soffitto con un ghigno di sorpresa, una penna d’oca in mano e la lingua bianca in modo eloquente.
Avvelenato.
Si inginocchiò e lo esaminò con il microscopio composto. Tracce di polline sotto il naso.
Annusare i fiori gli era stato fatale; aveva fatto appena in tempo a camminare dal portone allo studio, chiudersi la porta alle spalle, raggiungere lo scrittoio per annotare qualcosa – presumibilmente il nome del suo assassino – ed era stramazzato a terra.
Il foglio era rimasto bianco.
Il corpo non si era ancora raffreddato del tutto; doveva essere accaduto non più di un’ora prima.
Bellerofonte irrigidì la schiena e imprecò dentro se stesso maledicendo l’alto dei cieli. Un attimo dopo lo benedì, pensando che Salvigni avesse avuto la fine che meritava.
Senza respirare, con le mani il più possibile scostate dal viso, avvolse i fiori nella carta scricchiolante di alcune partiture che a Salvigni non sarebbero più servite. Portò l’involto nel salotto, lo gettò nel camino, diede fuoco alla legna, che aspettava solo di ardere, attese che i fiori fossero bruciati, poi salì al primo piano. Dal guardaroba prese la larva e se la mise subito sul viso; prese anche la servetta muta, la fece scivolare nell’ampia tasca interna del mantello. Ridiscese al pianterreno, cercò fra le chiavi, nell’ingresso e, dopo aver trovato quella del portone, uscì dalla casa di Salvigni.
Con indifferenza.
Con calma.
E con la solita, irrazionale sensazione di portare con sé la morte.