XLVI
Sodomia.
Il bargello pronunciò quella parola con un misto di soddisfazione e disgusto, gli altri sbirri dietro di lui gli fecero eco, attoniti. Forse, pensò Bellerofonte, quella luce di compiacimento che brillava nello sguardo di Tommasi era dovuta al fatto che i dipinti alle pareti di ogni stanza della scuola, raffiguranti atti osceni tra giovani maschi, costituivano un reato di competenza del tribunale del Governatore e, dunque, un buon motivo perché lui si trovasse lì: nessuno gli avrebbe potuto contestare l’opportunità di quell’irruzione.
Il suo disgusto, invece, non dipendeva dai dipinti.
Gli allievi, il più grande dei quali non doveva avere più di dieci anni, erano tenuti in condizioni disumane. Avevano i crani completamente rasati, erano coperti solo con una tunica di lana ed erano legati, costretti a cantare tutto il giorno, in piedi sui propri escrementi, perché a quel che sembrava non gli era concesso di interrompere gli esercizi né di muoversi durante il giorno. Per la notte venivano probabilmente trasferiti al piano superiore, dove era immaginabile che dormissero ammassati gli uni sugli altri, per terra, su giacigli di tela grezza e paglia.
Nonostante le condizioni pietose in cui vivevano, sembravano tutti in buona salute e ben nutriti.
Bellerofonte passò in rassegna le loro facce smarrite. Controllò le loro dita: nessun anello, né di corniola né di altro materiale.
I Della Croce assistevano alla scena tremando contro il muro.
«Non ci sono altri uomini di guardia, signore», informò uno sbirro, che aveva appena ispezionato il locale adibito a casermetta, nella parte opposta dell’edificio. «Due sono morti, tre stanno molto male».
Bellerofonte era l’unico a sapere quanto. «Liberate i bambini», disse. Poi si avvicinò ai proprietari della scuola. «Antonio e Laura Della Croce?»
«Siamo noi», rispose lui, brevilineo, scuro, capelli ispidi che gli crescevano anche sulla fronte, quasi lambendo le sopracciglia.
«Non abbiamo fatto niente di male», provò a protestare lei, più alta di suo marito, grassa, il seno enorme che le cascava sul ventre come un fardello.
Benché i loro allievi fossero trattati come bestie, non erano gli unici, né i più crudeli maltrattatori di bambini che Bellerofonte avesse visto nella sua ancora giovane carriera.
Gli tornò in mente un ricordo molesto, inopportuno, come se la sua anima avesse la necessità, in quel momento, di pensare a qualcosa di peggiore per ridimensionare il male che aveva di fronte.
Era successo pochi anni prima, a Venezia. Erano stati i primi criminali a cadere nella sua rete.
Ogni mattina, una donna si sedeva agli angoli delle vie più trafficate per chiedere l’elemosina. Impietosiva i passanti invitandoli a guardare il bambino deforme che teneva in braccio. Il piccolo, al mondo da pochi mesi, forse un anno, aveva la testa enorme e due occhi tristi che supplicavano aiuto.
Qualcosa nell’atteggiamento della donna lo aveva insospettito, non ricordava cosa fosse stato, ma aveva deciso di tenerla d’occhio. Un giorno l’aveva seguita e aveva individuato la casa in cui abitava. Viveva con suo marito, il quale, appena rientrata, le aveva preso i soldi di mano e si era messo a contarli.
La mattina successiva l’aveva aspettata. Lei era arrivata all’alba, con suo figlio, come sempre, si era seduta con la schiena appoggiata al muro di una casa, si era guardata attorno per un po’ prima di chinarsi sul suo bambino e fare una cosa che, a ripensarci adesso, gli faceva ancora venire i brividi: aveva tolto un cerotto dalla sommità della testa di suo figlio e vi aveva infilato un oggetto lungo e sottile, una cannuccia. Vi aveva soffiato dentro. La testa del bambino aveva iniziato a gonfiarsi, la pelle della fronte e il cuoio capelluto che si sollevavano staccandosi dalle ossa. Poi la donna aveva rimesso il cerotto, chiudendo il foro attraverso il quale aveva insufflato l’aria, in modo che la testa restasse gonfia e deforme per il tempo necessario.
Grazie a lui, lei e suo marito erano stati arrestati e il bambino era stato sottratto all’inferno.
Allontanò dalla sua mente quel ricordo, bello e orribile allo stesso tempo – come il suo mestiere.
Mentre il bargello faceva arrestare i coniugi Della Croce, Bellerofonte continuò a passare in rassegna i bambini.
Gli allievi erano suddivisi in base all’aspetto. Quelli più belli, dal viso simmetrico e soave, se la passavano decisamente meglio degli altri, molti dei quali avevano i solchi lasciati dal frustino persino sulle guance, ed erano assicurati al pavimento con una catena.
Infine, ne trovò uno.
Era tra i privilegiati: biondo, i capelli non rasati, bello, di circa cinque anni, vestito come gli altri, con una tonaca di lana grezza e incolore, aveva un anellino rosso al dito indice della mano sinistra. «Come ti chiami?», gli domandò.
Il bambino, spaventato, cominciò a cantare: «Na-a-a-a-a-a-sce il sole e io so-o-spi-i-i-ro, perché vedo che l’ingrata pastore-e-lla sempre lungi da me va-a».
Un piccolo usignolo.
Voce incantevole, liscia e sottile come un filo di seta.
«Ti ho chiesto come ti chiami», gli sussurrò con dolcezza. «Non me lo vuoi dire?»
«Mi chiamo…».
«Io sono tuo amico».
«Portateli tutti fuori!», eruppe il bargello, nell’altra stanza, quella in cui erano reclusi gli allievi meno fortunati. «Avete controllato il piano superiore?»
«Su c’è il dormitorio, signore, ma non ci sono letti, solo coperte luride. Non c’è nessuno adesso».
«Qualcuno di voi vada a Roma e torni con delle carrozze», ordinò Tommasi, «quante bastano a trasferirli tutti in un solo viaggio». Poi si rivolse ai Della Croce. «Voi siete i titolari della scuola, i responsabili di quest’obbrobrio?»
«Allora», disse piano Bellerofonte, curvo sul bambino, «come ti chiami?»
«Zan Battista».
«Che bel nome. Sai anche il tuo cognome?».
Il bambino fece schioccare la lingua sul palato per dire che non lo sapeva.
«Sei veneziano?»
«Boh».
Ma il nome e l’accento erano inequivocabili. «Va bene per te, se ti chiamo semplicemente Zan?».
Il bambino annuì e abbassò lo sguardo, timido. Bellerofonte lo prese per mano e, assecondando i suoi piccoli passi, piano piano, lo portò all’esterno, dai suoi maestri, i suoi proprietari, che erano stati ammanettati e piangevano, nascondendo la faccia per la vergogna, l’uno sulla spalla dell’altra.
Appena fuori, il bambino levò gli occhi al sole e sorrise. «Nasce il sole e io sospiro», disse, fra sé e sé. Erano le parole della canzone che aveva gorgheggiato qualche minuto prima, forse quella che stava studiando quel giorno. Bellerofonte la conosceva: era un’aria di Vivaldi. Gli accarezzò i capelli, biondi come il sole che adesso, finalmente, splendeva di nuovo su di lui.
«Antonio Della Croce», disse Bellerofonte.
L’uomo non si voltò, continuò a consolare sua moglie che piagnucolava tremando.
«Antonio Della Croce», ripeté con tono perentorio. «Sto parlando con voi».
Il maestro torse il collo e alzò la testa, lentamente, con rabbia, come una belva che stesse staccando le fauci insanguinate dal collo di una preda. Lo guardò, gli occhi iniettati di sangue, gli zigomi induriti dalla rabbia. La testa cominciò a tremargli. «Cosa volete da noi?»
«Zan?»
«Sì?»
«Vuoi bene a questi due signori?»
«No», disse il bambino.
«Perché no?»
«Loro ci picchiano».
Bellerofonte si abbassò e sferrò un manrovescio sulla guancia di Antonio Della Croce, poi si rivolse a Zan. «Fanno così?».
Zan sorrise a assentì.
«Oppure fanno così?».
Intendeva un calcio nel costato.
Della Croce si piegò e tossì.
Zan rise.
«Signor notaio!», chiamò Tommasi.
«Dite».
«Per quanto tempo ancora dormiranno?». Gli indicò le cinque sentinelle, che, nonostante fossero state sollevate dagli sbirri del Governatore e gettate a terra come sacchi di patate nel piazzale antistante alla scuola, l’una accanto all’altra, non avevano accennato a svegliarsi neppure per un istante.
«Ancora qualche ora», rispose Bellerofonte. «Ma sarà meglio ammanettarli».
Tommasi annuì e passò l’ordine a uno dei suoi.
«Ora vai da quel signore». Bellerofonte indicò a Zan il bargello, che stava facendo disporre tutti gli allievi in fila, seduti per terra, e stava dando loro da bere. «Io adesso devo farmi una chiacchierata con il maestro».
Il bambino corse via, un po’ goffo, forse perché non lo faceva da tanto o forse perché non gli era mai stato concesso di farlo. Non si fermò dove si trovavano gli altri, continuò ad andare incontro all’aria, sempre più veloce e con le braccia aperte. Fece molti giri della scuola e ogni volta riappariva con un’espressione incredula sul viso. Il bargello lo chiamava, intimandogli di fermarsi e di sedersi insieme a tutti gli altri, ma lui non riusciva a ubbidire.
Provava ad afferrare il sole e poi riapriva lentamente il pugno, per vedere se lo aveva preso.
Presto, pensò Bellerofonte, Zan avrebbe imparato anche il nome della sensazione inebriante che stava provando in quel momento: libertà.