Sei

Quando furono davanti alla porta di Lidia, Gilardi trasse un lungo respiro, come faceva prima di un tuffo. «Coraggio» disse. «Neppure qui troveremo la verità».

L’appartamento era come non avrebbero mai potuto immaginarlo.

Soprattutto, Laura guardava con interesse mobili e oggetti, come se li riconoscesse.

La poltrona allungata di Le Corbusier, la lampada ad arco di Joe Colombo, le sedie di Magistretti, i vasi di Gio Ponti. Alcune porcellane serigrafate di Fornasetti. Alle pareti quadri di Dova e un taglio rosso di Fontana. Su un’altra parete, accanto a una tela di Murtic, il ritratto di Lidia, a grandezza naturale, firmato da Andy Warhol.

«Ma sono bellissimi… Quadri importanti e pezzi di grandi architetti, guardi quella poltrona».

«Te ne intendi?»

«Mi piace. Compro spesso riviste che presentano le case più belle del mondo. Questa potrebbe starci alla grande. Quei vetri e quelle danzatrici… Aspetti. Io mi ricordo di averli visti in un negozio…» Trafficò con l’iPad e a un tratto trovò quello che cercava. «Ecco, avevo ragione, guardi… Ora chiamo il negozio, magari la conoscevano e se ne ricordano».

Si affacciò a una delle finestre che Gilardi aveva aperto, per trovare campo, e fece il numero.

«Sì, sono l’avvocato Licasi, buongiorno. Volevo sapere… la signora Lidia Morandi era vostra cliente? Sì… E l’architetto? Sì, grazie…» Ripeté il numero di un cellulare. «Grazie, è stata gentile, buongiorno».

«Ecco» disse, rivolta a Gilardi. «Avevo ragione. Si è affidata a un architetto, lo conosco di fama. Ho il numero, lo chiamo?»

L’architetto al telefono fu gentile ed evasivo. Era stata una cosa di qualche anno prima, precedente alla disgrazia. L’aveva aiutata a rifare la casa, sì, anche lavori di muratura. L’avevano arredata insieme, la signora aveva gusto e mezzi. Sì, tra loro c’era stata anche una storia, non importante. Dopo la disgrazia lei non aveva più voluto vederlo. Gli era sembrato comprensibile e non l’aveva più cercata. «Tutto qui, non c’è altro» concluse.

«Posso venire a trovarla? Avrei qualche dettaglio da chiarire, le porterò via poco tempo».

L’architetto, Loris Gunter, le diede un appuntamento per il giorno dopo. «Va bene per lei alle quattro? Sarà puntuale?» Stava flirtando. «Devo partire, vado a Dubai».

«D’accordo, domani alle quattro». Laura alzò gli occhi verso Gilardi e sbuffò. «Vado domani, ha sentito? Viene con me?»

«Te lo lascio, ma spremilo».

Aprirono e chiusero i cassetti del tavolino che era accanto al letto. Erano vuoti. Dovunque un ordine meticoloso, innaturale. Un’agenda davanti al telefono, nuova. C’era soltanto il numero dello studio Gilardi. ‘Ore sedici, qui avvocato Max Gilardi’, scritto a matita.

In bagno saponette, spugne e profumi allineati come soldatini contro la cornice dello specchio sul piano di marmo nero a screziature color smeraldo. Ciotole di cristallo, piumini, scatole di cipria. Molte piante di varia altezza davanti alla finestra schermata da una tenda di corda intrecciata. Asciugamani di soffice spugna bianca con le sue iniziali applicate in verde smeraldo. Un solo quadro, un nudo perfetto, appeso sull’unica parete libera, di fianco alla doccia. Era sicuramente un suo ritratto, anche se il volto era in parte nascosto dalla massa dei capelli neri con riflessi ramati. Era firmato da una donna.

«È tutto?»

«Mi pare di sì. Tutte le carte che hanno trovato, poca cosa, ce le hanno fatte avere in copia. Non ci sono lettere, nessun documento contabile, nessun testamento. Gabriella Salsi, della questura, ci ha fatto avere le fotocopie. Le ho esaminate, non c’è niente. Tutto nuovo, nessun appunto. Sembra… non sembra anche a lei?»

«Sì, credo di capire la tua sensazione. Come se si fosse preparata a questo evento e avesse distrutto tutto quello che avrebbe potuto servirci per scoprire l’assassino».

«Sì… una strana sensazione, questa casa mette i brividi. Non trova anche lei che non somigli affatto all’idea che ci hanno dato di Lidia Morandi?»

«Sì, è vero. Dove sono le feste, le cene, i balli? Questa è una casa morta. Hai guardato negli armadi?»

«Sì, non ci sono vestiti. Soltanto gonne lunghe, forse per coprire le protesi, e moltissime camicie, o giacche, o bluse… Lì molta fantasia. Nessuna pelliccia, nessun cappotto, ma molte mantelle. Naturalmente poche scarpe, forse per le protesi».

«E la cassaforte?»

«La questura ci ha comunicato che verrà con un tecnico tra un paio di giorni. Ci avviseranno».

«A chi andrà tutta questa roba?»

«Sarà importante saperlo, magari ci darà una traccia».

«Ottimista… Andiamo, vieni. Qui non abbiamo più niente da vedere».

Quando ridiscesero, Gilardi richiamò il portiere. «Un’ultima cosa, c’è una videocamera per il garage e le cantine?»

«Certo che c’è, ci mancherebbe. La registrazione l’ha presa la polizia, lo chieda a loro. Ma se vuole la mia opinione, anche non richiesta, doveva essere scemo a uscire di lì».

«Perché?»

«Perché la videocamera è proprio lì, come avrebbe fatto a non vederla e a pensare di non essere ripreso? Solo un fesso, e questo non sarà stato fesso, soprattutto se la conosceva e se era già stato qui… Ma cosa parlo a fare, voi avete i vostri sistemi, scusatemi tanto».

«No, invece. Perché lei pensa che potrebbe averla conosciuta ed essere già stato qui, se non veniva nessuno a trovarla?»

«Balle. Ma chi gliele dice ’ste cose? Rosa? La signora, quando aveva le gambe, le faceva andare, le faceva… E la casa era sempre piena di gente, che ne sa questa Rosa, che è arrivata ora? Qui tutti parlano della signora sulla carrozzella, ma non c’è nata sulla carrozzella, avvocato. La volete capire?»

«Lei sa qualcosa che vorrebbe dirci?»

«Io non so niente. La gente veniva di sera, di notte… Io ero a casa mia. La signora aveva una coppia a servizio, erano stranieri, indiani mi pare, ma non so. Comunque, non parlavano. La signora Carla si faceva i fatti suoi, non si salutavano neanche. E l’altro appartamento era vuoto, come ora. Sono due stanze con cucinino e bagno, due finestre verso il cortile sopra il garage. Chi se lo prende con questi affitti? Neppure regalato lo vogliono. Quindi lei, la signora, faceva quello che voleva, altro che carrozzella».

«Lei ha conosciuto anche l’architetto?»

«Quello?» Se voleva ridere, non ci riuscì. «Buono, quello. Con la signora si è rifatto… il fondo dei calzoni, diciamo. Era sempre qui, giorno e notte». Li guardò come se li compatisse. «Ma l’avete conosciuto, quello?» Laura e Gilardi scossero appena il capo. «Be’, conoscetelo. Fatevi dire da lui che cosa succedeva in questa casa, prima della carrozzella, fatevelo dire… Scusatemi». Andò a rispondere al citofono e ritornò sulla porta della guardiola. «Scusatemi, devo fare… Io non so niente, non posso essere utile».

«Grazie, invece. Qui abbiamo finito».

«I miei rispetti, avvocato».