Louise
Inverno 1944-1945

«Resta a letto. Non c’è motivo perché debba alzarti anche tu. Adesso mi faccio la barba, mi vesto e sparisco».

«Non vuoi che ti accompagni al treno?».

«Preferirei di no. In treno potrebbero esserci altre persone».

Uscì dalla stanza e lei sentì scorrere l’acqua: l’appartamento era stato ricavato da un unico enorme locale e i tramezzi erano molto sottili. La sveglia suonò: erano le cinque e mezza – di sicuro non rischiava di perdere il treno. Armeggiò un po’ con la sveglia per zittirla. Aspetterò che sia andato via, pensò, poi mi alzo, mi lavo, mi vesto e vado via.

Quando fu di ritorno mezzo vestito – le calze nere bucate all’altezza dell’alluce e i calzoni lustri per l’uso –, gli chiese: «Quando ti rivedrò?».

«Non tanto presto, temo. Credo che per un po’ la guerra ci darà parecchio da fare». Afferrò la camicia non proprio pulita, vi infilò le braccia e cominciò ad abbottonarla. «E poi dipende anche da tuo marito».

«Davvero? E perché?».

«È il mio capo. Almeno per i prossimi mesi. Ironia della sorte, eh? Che fine ha fatto la mia cravatta?».

«Sul pavimento». Era uno straccetto nero e unticcio, usurato per essere stato annodato mille volte sullo stesso punto. Tentò di pulirla con il pollice. «Accidenti! Deve esserci caduto qualcosa sopra. È buffo, di uova in giro non se ne vedono, ma io sembro sempre sporco d’uovo!». Si avvicinò al letto. «Cara, spero che mi guarderai così sempre... soprattutto in presenza degli altri4». Si dicevano spesso le battute della commedia che era stata oggetto della loro prima conversazione.

«Be’...», ribatté lei, sforzandosi di escogitare una risposta. «L’attesa è terribile... speriamo che non duri!».

Lui adesso si stava infilando la giacca, che era lisa come il resto dell’uniforme e aveva il lato sinistro del petto gravido di nastri. Aveva ottenuto una Distinguished Service Cross e un grado, ed era stato menzionato cinque volte nei dispacci. Aprì la valigetta ammaccata, sparì e tornò con il beauty case, che ficcò dentro insieme a un vasetto di brillantina.

«La tua sveglia».

«Brava». Si tastò il taschino della giacca e pescò un pettine che passò a fatica tra i capelli induriti dalla brillantina. Louise ne detestava l’odore ma si era guardata bene dal dirglielo. Poi si avvicinò al letto, si sedette sul bordo e la baciò. Si era tagliato col rasoio, e aveva sullo zigomo un piccolo arco punteggiato di perline di sangue.

«Ecco cosa succede a radersi con l’acqua fredda. E credo che la lama del mio rasoio sia arrivata al capolinea. Le posò le mani sulle spalle nude e le liberò dai lunghi capelli, poi la guardò coi suoi grandi occhi intelligenti.

«È stato bello, vero? Abbi cura di te».

«Hai...».

«Certo che sì. Credevo che questa notte te ne fossi accorta». La baciò di nuovo. Adesso la sua bocca sapeva di menta, non più di whisky. «Ora mi tocca proprio andare a vincere questa guerra».

«Vincila», disse lei; sentì il pianto salirle dalla gola, ma le passò subito.

«In treno penserò a te distesa qua sopra... tutta voluttuosa come in un quadro di Renoir. Bellissima». Si drizzò, si passò una mano sui capelli che si erano spettinati, prese la valigetta e se ne andò.

Credeva che avrebbe pianto al momento della sua partenza, invece non ne aveva nessuna voglia. Si sentiva solo triste e svuotata. La sera prima, quando Rory le aveva telefonato, si era preparata ed era andata da lui piena di entusiasmo: si era sentita folle, sconsiderata, animata dalla semplice idea di andare a incontrare il suo amante e di passare la notte con lui in un appartamento sconosciuto. Sebbene ci avesse provato, non riusciva ancora a godere del sesso, ma concluse che quella era solo l’ennesima cosa che non funzionava in lei: la pessima madre, la moglie ingrata, l’attrice fallita, la donna priva di talenti domestici e del tutto inutile che era diventata negli ultimi due anni. Le sembrava di sprecare gran parte delle sue energie a recitare la solita vecchia parte di Mrs Hadleigh, a sopportare il mal di gola (l’assaliva sempre più spesso e con sempre più virulenza), e in generale a tenere in piedi la messinscena della giovane mogliettina felice e soddisfatta. Ma nel privato, con Michael, le cose andavano male da molto tempo.

Tutto era cominciato, le sembrava adesso, il giorno in cui aveva suonato il campanello della sua casa di Londra e lei, andando ad aprire, si era trovata di fronte un giovane bruno e allampanato con l’uniforme dell’esercito.

«Chiedo scusa. Vive qui Michael Hadleigh?».

«Be’, sì, quando è in licenza».

«E quando sarà in licenza?».

«Non lo so...».

«Aspetterò», aveva detto lui entrando in casa e posando il borsone sul pavimento. «Tu devi essere Louise Hadleigh. Ho visto una foto del tuo matrimonio sul «Times». Ero all’estero allora, altrimenti mi avrebbero dovuto sparare per impedirmi di venire». Sfoderò un sorriso seducente e aggiunse: «Un modo di dire piuttosto trito di questi tempi, ti pare? A me sì. Hai mica qualcosa da mangiare? In treno ho mangiato una specie di pasticcio molto sospetto che mi era sembrato buonissimo, ma non c’è stato verso di tenerlo nello stomaco. Sono una specie di cugino di Michael, a proposito... mi chiamo Hugo Wentworth».

Ne era già conquistata. Lo scortò di sotto in cucina e gli preparò del pane tostato spalmato di Bovril e diverse tazze di tè. Lui cinguettava in continuazione dando l’impressione di sostenere circa tre conversazioni alla volta; le disse del suo viaggio di ritorno da quella che definì una roccaforte cattolica nel Nord, interpolando il racconto con buffi bollettini di guerra e personalissimi commenti su di lei. «Di questi tempi sui treni si muore di caldo o si muore di freddo, ci hai fatto caso? Devo dirlo, sei di una bellezza stupefacente... se fossi un po’ più in carne forse sarei riuscito a digerirlo, quel pasticcio». Fece un faccione buffo e rivoltante, dicendo: «Ecco Göring quando gli è rimasta una cosetta sullo stomaco... il Bovril è un bel mistero, non trovi? Dici che usano il bue tutt’intero o solo il muso pacioccone che si vede sull’etichetta? Non sembri una che ha appena avuto un bambino, magari era molto piccolo... Avresti altro pane? Quanto mi andrebbe una bella aragosta... Nello Yorkshire, da mia madre, non ho mangiato che panini da tempo di guerra, e siccome lei non cucinava mai nemmeno quando c’era la pace, erano duri come bombe a mano. Non ti dispiace se mi fermo un po’, vero? Mi butto sul pavimento, stare scomodo per me è ormai una dolorosa abitudine. Non so dirti che sollievo sia per me che tu e Michael vi siate sposati! Temevo che non avrebbe mai trovato una moglie...».

«Ti ha fatto un ritratto. Me ne sono ricordata adesso».

«Oh, più di uno in effetti. Quando ero a Oxford andavo spesso in visita a Hatton. Il Giudice è stato un ottimo padrino. Hai un pianoforte? Potremmo improvvisare un duetto sentimentale, sai, del tipo My true love has my heart and I have his... robaccia smielata, se vuoi la mia opinione».

«Non è tanto facile chiederti qualcosa», disse lei.

«Oh, è il mio temperamento latino! Mia madre è francese, una vedovella nera nera: naturalmente la chiamo maman. Mio padre però era inglese, una specie di cugino del Giudice. È stato ferito gravemente nella prima guerra mondiale ed è morto quando sono nato io, perciò sono stato un figlio unico precoce. Tu invece no, vero? Mi hanno detto che vieni da una famiglia numerosa».

«Noi siamo in quattro, ma abbiamo un sacco di cugini».

«Quindi uno in più o uno in meno non si nota, esatto? Posso dare un’occhiata al tuo bambino?».

«Non c’è. È in campagna coi miei. Per via delle V-2».

«Oh. Allora niente. Del resto, i bambini non mi fanno impazzire. Sono quasi sempre umidicci e così deprimenti! Non ho mai capito perché la gente ne va pazza».

«Non è il mio caso. Neppure io ne vado pazza», disse, e provò un immediato senso di liberazione per averlo detto.

«Davvero! Questo è interessante». Le prese la mano. «Poverina ad averne uno, allora».

Anche se parlava quasi sempre lui – e senza seguire un filo logico –, Louise notò subito che osservava molto e che quello che diceva non era insensato quanto voleva sembrare. Quando Polly e Clary tornarono dai rispettivi lavori, a Louise sembrava già di conoscerlo da una vita e sperava che restasse il più a lungo possibile. Anche a loro fu subito molto simpatico, e dopo aver cenato in allegria passarono una serata spassosa facendo il «Gaumont British News», il cinegiornale, solo con azioni e musica, senza parole. Hugo eccelleva in questo gioco: commentatori sportivi, la regina Mary, inviati di guerra e perfino Mr Churchill che spegneva le candeline del suo settantesimo compleanno; altrimenti suonava il motivetto d’apertura, tutto eroico e pimpante, con un pezzo di carta igienica e un pettine.

La prima volta si fermò per circa una settimana, ma da allora si presentò a intervalli regolari e diventò di casa. Soprattutto, diventò la fedele e infaticabile scorta di Louise. Andarono all’Old Vic e al New Theatre; di solito era lei a comprare i biglietti, perché lui era sempre a corto di quattrini; tuttavia non faceva che comprarle regali, aveva un occhio particolare per le cose belle nei negozi di carabattole, e una volta le regalò un tavolo di Pembroke che si era portato in spalla per chilometri. «Costa nove sterline ed è bello... più di quel trabiccolo pieno di tarme col panno verde», disse. Un’altra volta si presentò coi capelli lisciati in avanti e i baffetti neri.

«Heil, meine Eva!», strillò abbracciandola. «Volevo solo vedere che reazioni scatenavo», spiegò. «Ma la gente in autobus si è limitata a guardarmi e poi a distogliere lo sguardo imbarazzata. Strano, io pensavo che le donne si sarebbero messe a strillare e gli uomini avrebbero provato ad arrestarmi». Quella volta era in borghese. «Eppure il regolamento numero 1764 al punto 59 dice chiaramente che è vietato travestirsi come il nemico», disse.

Quando Michael telefonò, durante il suo primo soggiorno, e Louise gli raccontò che era arrivato Hugo, la sua reazione fu di una cordialità un po’ artefatta. «Oh, Gesù, mi spiace non vederlo. Digli di fare il bravo e trattalo bene, mi raccomando», furono le sue parole.

Alla fine però riuscirono a vedersi per una sera, e Louise notò che le battute che erano fioccate in casa dall’arrivo di Hugo in presenza di Michael era come se appassissero: se ne stava seduto con quel suo sorriso soddisfatto oppure, peggio ancora, tentava di inventarne di nuove sperando di strappare più risate, e allora gli altri ridevano per educazione oppure cambiavano discorso. I due cugini sembravano impacciati tra loro, con Hugo che cercava di scherzare con Michael e lui che lo snobbava e poi lo trattava con condiscendenza. «Come mai ti fermi così a lungo a Londra?», gli domandò, e Hugo disse che gli era stato assegnato un lavoro all’Ufficio di Guerra.

«E ti sei stabilito qui?».

«Sì, be’, finché ho questo lavoro. Louise mi ha accolto generosamente».

Mentre andavano a letto quella sera, Michael le disse: «Potevi consultarmi prima di invitare Hugo a restare. Può diventare un parassita».

«Mi dispiace. Credevo che ti avrebbe fatto piacere. Comunque non è un parassita, si presenta sempre con delle belle cose. I bicchieri che abbiamo usato a cena li ha portati lui, e anche la cupola di vetro con i fiori. È bravissimo a scegliere le cose e a regalarmele... a regalarcele», si corresse.

«Be’, sta’ attenta che la prossima cosa che sceglie non sia tu».

«Che idea assurda!», ribatté piccata. Quella volta si era sentita offesa – e innocente.

Questo era accaduto verso Natale.

La gola continuava a dolerle, non aveva fatto che peggiorare durante l’inverno e a quel disturbo s’era accompagnata una depressione che le era sempre più difficile tenere nascosta.

Una sera Hugo tornò presto dal suo ufficio e la trovò in lacrime. Aveva cercato di spennellarsi in gola una disgustosa medicina marrone che le aveva fatto male e le aveva causato il vomito. Hugo la trovò china sul lavello del bagno, in preda alle lacrime e alla febbre. La mise a letto, le portò una bevanda calda e dell’aspirina e poi si sedette al suo capezzale. «Ti leggo qualcosa», le disse. «Così non dovrai sforzare la gola parlando». Fu così bravo e pieno di premure, e lesse così bene che Louise non solo si sentì meglio ma provò un senso di felicità e s’addormentò in pace.

Quando si svegliò, lui era ancora lì.

«Che ore sono?».

«È passata l’ora delle streghe», disse lui. «Ti sei fatta una lunga dormita». Le misurò la temperatura, che era quasi normale.

«Sei rimasto qui tutto il tempo?».

«Quasi. Polly mi ha portato un panino. Ho letto. Non fingerò di essere andato avanti con Hadrian. Ho letto un’altra cosa».

«Hugo, sei la persona più buona che abbia mai conosciuto».

«E tu sei la persona che amo di più al mondo».

Seguì un silenzio, vibrante e assoluto.

Non fu una dichiarazione sconvolgente: sembrava anzi la cosa più naturale del mondo. Era quello che provava anche lei, e glielo disse.

Per alcune settimane visse in uno stato di felicità e leggerezza che non aveva mai provato prima. Quando ogni mattina Hugo usciva per andare a lavorare, il solo fatto di sapere che sarebbe tornato la sera bastava a sostenerla per tutta la giornata. Le tornarono le energie: risistemò la casa e si sforzò di cucinare piatti migliori (lui aveva un appetito formidabile, mangiava qualsiasi cosa gli capitasse a tiro senza ingrassare di un grammo). Di tanto in tanto Louise andava in centro in bicicletta per pranzare con lui, e poi rifaceva la salita di Edgware Road agganciandosi a uno dei camion che la percorrevano. Nei fine settimana andavano insieme dai rigattieri a scegliere oggetti per la casa e questo le ricordò la vita prima della guerra, quando lei e Polly andavano nei negozi di Church Street. Si sentiva, infatti, come se fosse di colpo ringiovanita o come se non fosse mai diventata un’adulta: lui era suo fratello, il suo amico, era la compagnia migliore del mondo. Lei lo amava. Una volta lo portò anche nel Sussex, dalla famiglia, e fu un successo dal primo istante. Aveva preso l’abitudine di andarci ogni due o tre settimane per vedere Sebastian, che ora muoveva i primi passi traballanti ed era la copia sputata di Michael. Quelle visite le causavano di solito molto dolore, ansia e senso di colpa: sapeva che per lei sarebbe dovuto essere uno strazio separarsi dal piccolo, e sapeva anche che lasciarlo non era una necessità assoluta. Non doveva stare a Londra per forza: a Michael faceva comodo averla in città, ma in fondo Louise sapeva che, se lei avesse detto di dover stare insieme a suo figlio, lui non si sarebbe opposto. Ciò avrebbe però comportato prolungati e regolari soggiorni a Hatton e questo proprio non l’avrebbe sopportato.

Non si parlò d’amore, in quelle settimane: tra loro era implicito, ma Louise gli raccontò di quanto temeva l’animosità di Zee. Lui l’ascoltò; le disse che a Zee non piacevano le donne in generale, e dunque quell’astio non era personale. «E poi dopo la guerra ci sarà Michael a proteggerti, no?», concluse. Poi, al silenzio di lei, sbottò: «Ma non lo farà. La asseconda in tutto».

Lei lo fissò, sapendo che quanto aveva detto era vero. «È così, vero? Certo che è così».

«Louise! Non te l’ho chiesto, e ti giuro che non vorrei... però, tu lo ami?».

«Non lo so!», gemette lei. «Credevo di amarlo, ma ora non lo so più. Mi sento come se tutti i miei sentimenti fossero sbagliati e non dovrei provarli. Allora cerco di non provarne, ma va sempre peggio. L’ultima volta che è stato qui non sopportavo di...». Si riempì di vergogna e non riuscì ad andare avanti.

Lui la guardò con ardore. «Lo sapevo, in un certo senso», disse. «Davvero, dalla prima volta che ti ho vista...». Nella sua voce c’era come un tormento represso. Si schiarì la voce. «Adesso comunque hai me».

«Invece no, non posso averti. È così», gemette, e gli si buttò tra le braccia. Fu la prima volta che si baciarono: cominciarono e non riuscirono più a smettere; si avvinghiavano l’uno all’altra in cerca di conforto poi di rassicurazione e in fondo di passione. Quest’ultima la colse come una sorpresa inebriante, come se il suo corpo stesse scoprendo l’amore per la prima volta in assoluto. «Allora è questo!», disse lei durante una pausa. «Bisogna volerlo in due».

«In due, sì, mio povero angelo».

Ma non fecero l’amore. Certe sere, dopo che le ragazze erano andate a letto, s’incontravano in salotto, si coricavano insieme sul pavimento, si abbracciavano stretti e si baciavano fino a consumarsi le labbra e a sfinirsi di desiderio. Ma per un muto accordo non andavano mai fino in fondo: alla fine salivano le scale furtivi, scalzi, mano nella mano, si separavano senza una parola e si ritiravano ognuno nella propria stanza.

Il fine settimana dopo, durante una passeggiata, lui disse che non potevano andare avanti in quel modo e che l’unica cosa onorevole da fare era parlarne con Michael. Sulle prime l’idea la sconvolse, le sembrava che non potesse venirne nulla di buono, ma lui era sicuro del fatto suo e a poco a poco anche lei – anche se la prospettiva la spaventava a morte – cominciò a convincersi che avesse ragione. Dopotutto, di solito ciò che pensava e provava si rivelava sbagliato; di lui invece si fidava, e anche lei era persuasa che in quel modo non si poteva affatto continuare. Lo amava e confidava nel suo buonsenso più che nel proprio.

La settimana seguente Michael venne per quarantotto ore di licenza. Avevano concordato che lei sarebbe andata in cucina e preparare il pranzo e Hugo lo avrebbe affrontato.

Le ore che precedettero il ritorno di Michael le passò in preda a una specie di euforia nervosa: non riusciva a immaginarsi la sua possibile reazione e questo le metteva paura, allo stesso tempo sentiva che, finché lì con lei c’era Hugo, sarebbe andato tutto bene.

Passò molto tempo prima che Michael la chiamasse dalla cima delle scale perché li raggiungesse. Entrò in salotto e li trovò entrambi in piedi, Hugo vicino alla finestra, e quando si voltò Louise vide che molto pallido. Michael era in piedi vicino al camino e teneva un avambraccio posato sulla mensola; era rosso in viso e, non appena prese la parola, Louise capì che era molto arrabbiato. Parlò in modo sbrigativo, paternalistico, sprezzante. Non aveva mai sentito una simile assurdità in vita sua; si comportavano come bambini viziati e lui si sarebbe aspettato almeno da Hugo un minimo di maturità (aveva un anno più di lei, dunque ventitré). Che mai poteva dire di fronte a un’iniziativa così platealmente stupida? E via così. Era davvero il colmo che un uomo si assentasse per combattere una guerra – guerra che, nel caso non l’avessero notato, era ancora in corso – e tornando a casa trovasse che il proprio cugino, sempre accolto con generosità dalla sua famiglia, si stava prendendo delle libertà con sua moglie; e che quest’ultima aveva completamente dimenticato la propria posizione...

A questo punto Hugo lo interruppe. «Per l’amor di Dio, smettila di parlare di lei come se non fosse qui!».

Michael disse che non aveva più intenzione di parlarne. Era una faccenda che non meritava parole. Doveva andare, o avrebbe fatto tardi a pranzo.

Che pranzo? Domandò lei d’istinto.

Con mia madre e il Giudice. Gli pareva di averglielo detto. Quando Zee aveva saputo di quella sua breve licenza, aveva deciso di venire a Londra per passare un po’ di tempo con lui. Ora, viste le circostanze, non intendeva portare Louise con sé. Concluse dicendo a Hugo che quella era casa sua e che naturalmente, dopo quello che aveva saputo, si aspettava che se ne andasse subito. «Mi auguro di non trovarti ancora qui al mio rientro. E non farti venire in mente di tornare, mai più».

Dopo che Michael fu andato via, cominciarono entrambi a intravedere le conseguenze del loro gesto. Hugo disse che doveva andare via. Non poteva più restare in casa di Michael. Sarebbe stato disonorevole. Lei non avrebbe potuto seguirlo? No, rispose. Non aveva denaro a sufficienza per tutti e due né un posto dove andare, e inoltre doveva rendere conto all’esercito. «Devo mandare i soldi alla vedovella nera», disse. «Non te l’avrei detto, ma lei non ha niente, e questo vuol dire che a me restano gli spiccioli».

Michael si era comportato in maniera orribile, disse lei; sentiva che la loro onestà avrebbe meritato una ricompensa migliore. «Gli abbiamo detto la verità», continuava a ribadire. «Tu gliel’hai detta».

«Non tutti apprezzano la verità», replicò lui. «Anche lui ti ama. Non devi scordartelo».

«Che cosa te lo fa pensare?».

«Se non ti amasse non si sarebbe infuriato in quel modo».

«Allora non dovevamo dirgli niente», disse alcuni secondi dopo.

«Oh, cara, sì che dovevamo. Altrimenti avremmo vissuto nella menzogna e sarebbe stato orribile...».

Dicendo queste cose erano scesi in cucina ma nessuno dei due aveva molto appetito. Hugo disse che doveva fare i bagagli, e mentre raccattavano le sue cose in giro e cercavano un posto dove infilarle, cominciarono a chiedersi dove sarebbe andato. Non ci aveva ancora pensato, disse, ma qualcosa gli sarebbe venuto in mente, non doveva preoccuparsi. Ma invece si preoccupava eccome: pensò che forse poteva chiedere ospitalità a zio Hugh. Ma in quel caso, che scusa avrebbero inventato con le ragazze? Grazie al cielo quel fine settimana loro non erano in casa. Quando fu pronta la valigia, le venne in mente Archie. Lui e Hugo si erano conosciuti e si erano piaciuti, o così era parso a Louise. «Ma non lo conosco tanto bene da piombargli in casa e chiedergli ospitalità», obiettò Hugo. «Io sì, però». Ma quando provò a telefonargli, lui non c’era. Ormai mancava poco alle tre e Hugo disse che doveva andare.

«Potrei andare in un bagno turco», disse. «Lunedì in ufficio troverò qualcuno che sappia indicarmi un posto. Davvero, non hai niente di cui preoccuparti».

«Ma mi chiamerai per farmi sapere dove ti sei sistemato?», disse lei.

«Ti chiamerò lunedì pomeriggio... dopo che Michael se ne sarà andato. Te lo prometto».

La separazione adesso incombeva su di loro, imminente. La valigia era nell’ingresso; non sapevano a che ora di preciso sarebbe rientrato Michael e Hugo non voleva rischiare di essere invitato ad andarsene una seconda volta. L’abbracciò e le diede un bacio lieve sulla bocca.

«È un bel pasticcio, eh?», disse. Aveva le lacrime agli occhi.

«Posso accompagnarti alla fermata dell’autobus?».

«Meglio di no. Preferisco salutarti qui».

«Ti amo tanto».

«Non ho mai amato nessuno come amo te», disse lui. Le scostò con dolcezza i capelli dalla fronte e la baciò di nuovo. «Arrivederci, mia amata Louise».

Dopo che ebbe chiuso la porta, sentì lo scatto del cancelletto del giardino. I passi di lui che si allontanava non arrivarono al suo orecchio, e la casa era immersa nel silenzio. Salì al piano di sopra, nella cameretta dove aveva dormito Hugo, si buttò sul letto e pianse fino a farsi venire il mal di gola.

Ma quello era solo l’inizio di un periodo che sarebbe stato il più nero della sua vita.

Quando Michael fu di ritorno, Louise capì senza bisogno che lui glielo dicesse che aveva discusso della situazione coi suoi, con Zee. Adesso parlava con una risolutezza fredda da maestro di scuola. Louise doveva andare con lui in una località portuale dove stava per assumere il comando di un nuovo cacciatorpediniere. Avrebbe alloggiato in un albergo del luogo, mentre lui avrebbe dormito a bordo. Sarebbero partiti quella domenica pomeriggio. Le chiedeva un solo impegno: non doveva scrivere a Hugo né provare a mettersi in comunicazione con lui in alcun modo. Questo era quanto. Quei piani la colsero così di sorpresa che disse di sì, e solo dopo si rese conto che quando Hugo l’avrebbe cercata, lunedì, non l’avrebbe trovata. Chiese di potergli scrivere solo un’ultima lettera, per spiegargli che cosa stava succedendo, ma lui le disse di no. «Ci penserà il Giudice a spiegargli cosa sta succedendo», disse. «Non è necessario che te ne preoccupi tu».

E così in capo a sole ventiquattr’ore si ritrovò nell’atrio buio ed echeggiante dello Station Hotel di Holyhead, al banco del concierge, in apatica attesa che Michael firmasse il registro e che fosse recuperata la chiave della loro stanza. Il facchino li scortò in ascensore fino al secondo piano e poi lungo un ampio corridoio buio con un’infinità di porte, finché non trovò quella giusta, si fermò, prese ad armeggiare con le chiavi e la aprì. Depositate le valigie e ricevuto uno scellino da Michael, l’uomo se ne andò. Erano di nuovo soli, più di quanto lo fossero stati in treno, dove almeno c’era altra gente e il rumore.

«Ti lascio disfare i bagagli», disse dopo essersi lavato, col tono di chi fa una concessione. «Ci vediamo al ristorante fra mezz’ora». Uscì e la porta si chiuse con uno scatto sordo. Per qualche istante restò seduta sul bordo del letto. La stanza sembrava già una prigione. Aveva mal di testa dopo quel lungo viaggio nello scompartimento chiuso e pieno di fumo: aveva dormito per un po’, perché la sera prima Michael aveva voluto che andasse con lui a una cena con un altro ufficiale della Marina e sua moglie. Durante la cena gli uomini avevano parlato di cose militari e la moglie dell’ufficiale aveva parlato di bambini e di che fortuna fosse per lei, Louise, starsene al sicuro con suo marito in un albergo tutte le notti. Poi avevano ballato per un tempo che le era parso infinito. Non vedeva l’ora che quella terribile, lunghissima giornata avesse fine, ma invece Michael aveva voluto fare l’amore (ma perché poi la gente lo chiamava così?) in un modo rapido, meccanico e senza parole, e dopo non era riuscita a lasciarsi andare al sonno, quel sonno che pure aveva agognato per tutta la serata. Era rimasta coricata al buio, rigida e sveglia: non aveva smesso di pensare a Hugo dal momento in cui se ne era andato, ma era come se lo shock della loro improvvisa separazione le avesse congelato il cuore e paralizzato i pensieri al punto che, per tutto il giorno e per tutta la sera, il dolore era parso distante: era sempre lì e lei lo sapeva, ma in qualche modo era fuori dalla portata dei suoi sensi. Ma con Michael addormentato vi fu un rapido disgelo e l’angoscia si risvegliò. Hugo le mancava, lo amava, non poteva immaginare di continuare a vivere senza di lui; quello che provava era in tutto simile alla sfibrante nostalgia di casa che aveva dominato la sua infanzia. Se solo potessi stare con lui, pensava, non m’importerebbe del resto. Nel corso di quella giornata e della successiva Michael riuscì in qualche modo a farla sentire in colpa per “il suo comportamento”; quando era sola, la sofferenza surclassava il senso di colpa. Era un crudele scherzo del destino aver scoperto l’amore quando ormai era troppo tardi.

* * *

A cena, in una sala con finestre così enormi e soffitti così alti che scaldarla era pressoché impossibile. Si sedettero a un tavolo adorno di garofani e capelvenere e mangiarono della zuppa di pomodoro in scatola, prosciutto cotto, patate e barbabietole in salamoia, e infine torta di mele oppure sformato di prugne. Michael le disse che in quel posto il pasto migliore era la colazione. La sala era piena a metà, c’erano ufficiali navali e gente che doveva prendere il traghetto di mezzanotte, così le disse Michael. Dopo cena andarono a sedersi in un’altra sala, enorme anche quella, dove venivano serviti, dopo una lunga attesa, tè, caffè e aperitivi. Bevvero del caffè e Michael le parlò della sua nave, mentre lei pensava a Hugo che le avrebbe telefonato a Hamilton Terrace e non l’avrebbe trovata. Era riuscita almeno a lasciare un biglietto per Clary e Polly, per dire loro che Michael aveva voluto inaspettatamente che partisse con lui quella domenica, che anche Hugo era dovuto partire e che avrebbe chiamato; chiese inoltre che chi delle due avesse risposto al telefono gli dicesse dov’era andata. Era meglio di niente: Hugo avrebbe capito che era stata trascinata via contro la sua volontà e forse, sapendo dov’era, le avrebbe scritto una lettera, anche se a lei non era permesso rispondere.

Riuscì a trascorrere la serata fingendo che le fosse stata assegnata una parte molto noiosa e si accorse, con un interesse del tutto distaccato, che Michael si comportava come se quella farsa non fosse affatto tale. Per lui era normale che gli affari di Marina interessassero a lei quanto a lui, e si sarebbe stupito di vederla annoiata dall’argomento. Quando fu l’ora di andare a dormire non aveva più il tono paternalistico e severo di alcune ore prima; si era fatto invece cordiale e ciarliero. A letto andò nel solito modo ma stavolta, dopo l’iniziale ripugnanza, Louise decise di continuare a recitare, e vide che così facendo sfuggiva all’obbligo di provare qualcosa. Dopo però, quando fu finalmente sola perché lui s’era addormentato, fu facile preda della nostalgia di casa e della mancanza di Hugo. L’assalirono i ricordi delle sue parole, i primi giorni: «Devo dirlo, sei di una bellezza stupefacente», «Quanto mi andrebbe una bella aragosta!»; la volta che aveva portato quel tavolo e avevano passato tutto il pomeriggio a levigarlo con la cera d’api; e poi il giorno in cui avevano trovato la cupola di vetro con i fiori – «Uguale uguale al bouquet di nozze di Miss Havisham5! Dobbiamo averlo», aveva detto Hugo – e poi la sua tenerezza nell’assisterla quando si era ficcata troppo in giù l’applicatore della medicina contro il mal di gola e aveva dato di stomaco ed era stata tanto male. Nessuno in vita sua era mai stato così buono con lei: sua madre aveva fatto in modo che ricevesse tutte le cure di cui aveva bisogno, ma sempre con il sottinteso rimprovero che, se fosse stata un po’ più accorta, non si sarebbe presa il malanno; suo padre era sempre venuto a trovarla quando era a letto malata, ma non ricordava di essergli mai stata grata, anzi la cosa l’aveva sempre messa a disagio... Hugo invece era lì quando si era svegliata la sera e aveva letto per lei ore e ore quel libro straordinario su un tipo qualunque che diventava papa. Doveva essere una fantasia personale dell’autore, aveva detto Hugo raccontandole di quello strano personaggio che si era dato lo pseudonimo di Baron Corvo. Aveva trovato Hadrian the Seventh in una bancarella di libri usati. Trovava sempre dei libri – titoli di cui lei non aveva mai sentito parlare – che portava a casa per leggerglieli. E quando le aveva detto che l’amava! «Sei la persona che amo di più al mondo». Due volte l’aveva detto, la seconda pochi attimi prima che si separassero. «È un bel pasticcio, eh?», aveva detto subito dopo. Non si era mai innamorato prima di allora, glielo aveva confidato una volta mentre l’aiutava a lavarsi i capelli. «Ci sono state ragazze che mi piacevano, sì, le trovavo attraenti, ma non ho mai provato veri sentimenti per loro».

«Profumi di mele», gli aveva detto una sera mentre erano sdraiati uno accanto all’altra. Dopo che se ne era andato, si era buttata sul letto dove lui aveva dormito e il cuscino recava una vaga traccia di quel profumo. Ogni notte riviveva quei momenti passati insieme e, quando finalmente riusciva ad addormentarsi, stringeva la propria mano fingendo che fosse quella di lui.

Cominciò presto il tetro insensato tran tran della vita da nullafacente in albergo. Faceva lunghe passeggiate solitarie, perlopiù sotto la pioggia, pranzava da sola con un libro e certe volte – siccome pur non facendo nulla era sempre stanca – andava di sopra e si buttava sul letto a piangere finché non si addormentava. Prima di cena andava spesso ad aperitivi organizzati su questa o quella nave. Le toccava scendere per le viscide scalette di ferro sistemate contro i moli per raggiungere il ponte mosso da un leggero rollio di una cannoniera o del vecchio cacciatorpediniere riarmato di Michael, o su una delle fregate che erano ormeggiate lì vicino. E poi giù per altre scale che portavano dentro saloni di varie grandezze ma sempre puzzolenti di gasolio, fumo di sigaretta e uniformi umide. Poi si tornava in albergo per cenare. Ormai il menu lo conosceva a memoria. La sera Michael disegnava: colleghi ufficiali, le loro mogli che li raggiungevano per brevi soggiorni, in mancanza d’altro Louise. E sera dopo sera tornava a esercitare il possesso di lei senza ricavarne particolare piacere, ma come espletando un rituale inevitabile.

Passò tutto gennaio: Hugo non le scrisse. Nel fine settimana, quando non era in mare, Michael andava a caccia in una proprietà poco distante. Il proprietario, un suo amico dei tempi della scuola, era via in guerra ma aveva lasciato detto al suo agente di occuparsi di Michael quando aveva voglia di rilassarsi un po’. Lo conobbe, l’agente, una sera in cui riportò a casa Michael dopo una giornata di caccia. Si chiamava Arthur Hammond ed era un uomo gentile, bruno, malinconico, coi baffi spioventi un po’ all’antica. A Louise era simpatico; la moglie, raccontò, stava per avere un bambino e Louise se ne stupì perché gli dava almeno una cinquantina d’anni. Poi pensò che era un pregiudizio sciocco e infantile, ma pensieri di quel genere le capitavano spesso. Nelle ultime settimane in quell’albergo si era sentita come una bambina che vivesse insieme a un adulto (anche Michael era cambiato, o forse era lei che lo vedeva per la prima volta) il quale faceva discorsi e prendeva decisioni che a lei risultavano incomprensibili, e per questo molesti: era lui a dirigere la sua vita, e Louise era troppo infelice per protestare o opporre resistenza.

Una sera Michael tornò da una lunga sessione di caccia e le disse che Arthur era stato convocato a Londra dal suo datore di lavoro, il quale aveva una licenza troppo breve per venire a Anglesey; Arthur era in pensiero a lasciare sola la moglie per tutta la notte e aveva chiesto se Louise poteva essere così gentile da passarla con lei. Louise chiese subito a Michael che cosa ne pensasse.

«Credo che dovresti andare. Quel poveretto è fuori di sé dall’ansia. Il bambino è nato, ma a quanto pare la madre non sta ancora bene».

«Sì, ok. Ci vado». Le venne da dire che non era molto brava coi bambini, ma lo tenne per sé.

«Oh, bene. Allora fa’ un salto di sopra e prendi ciò che ti serve per dormire, mentre io vado a dirglielo. Sta telefonando a un vicino di casa della madre. Se riesce a rintracciarla, è certo che sarà qui già domani. Sbrigati però, perché deve accompagnarti lì e poi correre a prendere il treno».

Dieci minuti dopo era seduta nella macchina di Arthur, a percorrevano buie stradine sinuose.

«Il piccolo è nato prematuro e lei ha un po’ di febbre. È molto giù di morale. Io non so cos’abbia. Il dottore verrà domani. Poi arriverà anche sua madre, perciò è solo per una notte. Sei davvero buona a darci una mano».

«Non ne so molto di bambini», disse lei.

«Io invece non ne so proprio niente. Mi sono sposato tardi. È il primo anche per lei».

«Come si chiama tua moglie?».

«Myfanwy».

Fermò la macchina accanto a un grosso cancello di ferro da cui partiva un vialetto. Senza i fari della macchina era buio pesto e Arthur la prese sottobraccio per guidarla in un ingresso laterale e poi nella villetta. La porta si apriva direttamente in una sala con un caminetto a giorno; il fuoco era quasi spento, ma dalla lampada a olio posata su una sedia veniva un po’ di luce. Al loro ingresso udirono il debole ronzio di una grossa pendola alta fin quasi al soffitto, che subito dopo batté il severo rintocco del quarto d’ora.

«È di sopra», disse lui.

Louise lo seguì su per una scaletta angusta e ripida che terminava in un pianerottolo dove riuscivano a stare a malapena in due. La porta sulla sinistra era solo accostata, e lui bussò piano prima di entrare in una camera quasi interamente occupata da un vecchio letto matrimoniale con la testiera d’ottone e illuminata da un’altra lampada a olio posata sul caminetto accanto al letto.

«Myfanwy, ti ho portato Louise. Resterà qui con te per questa notte».

La ragazza, che era sdraiata su un fianco e dava la schiena alla porta, si voltò verso di loro con uno scatto inquieto e sofferente. «Hai detto che andavi a prendere mia madre!», gemette con gli occhi luccicanti di lacrime. Cercò di mettersi a sedere, poi si lasciò cadere sul cuscino. «È lei che voglio, te l’ho detto!».

Lui si avvicinò e le accarezzò i capelli scuri e spettinati.

«E verrà. Sarà qui domani mattina, vedrai. Louise si occuperà di te per questa notte. Io devo andare a Londra, lo sai».

«Sì, per incontrare sua signoria...». Scostò le lenzuola e una bretella della camicia da notte le scivolò giù svelando un seno tondo e gonfio di latte, e subito accanto un neonato minuscolo avvolto stretto in uno scialle, immobile e silenzioso come una bambola.

Non può respirare sotto le lenzuola, pensò Louise, e subito le venne il sospetto agghiacciante che fosse già morto.

La ragazza parve accorgersi allora della sua presenza. «Non succhia. Non mi vuole», disse, e le lacrime cominciarono a scorrerle sulle guance.

«Stamane il dottore ha lasciato una medicina. Deve prenderla ogni quattro ore». Indicò una bottiglia vicino al letto. «Puoi controllare che la prenda? Ha la febbre. Può darsi che si dimentichi. Ora devo andare», disse a voce più alta, ma lei non gli badò. Si chinò e la baciò, ma lei si scostò bruscamente.

«Forse è meglio toglierle il bambino per un po’», disse lui a bassa voce. «Ma tu sai meglio di me cosa fare».

E se ne andò. Louise sentì la porta chiudersi, la macchina mettersi in moto e allontanarsi. Visse un momento di panico totale, immaginando il bambino già morto e la madre febbricitante e pazza di dolore. Guardò Myfanwy intenta ad afferrare i lembi della camicia da notte emettendo un gemito di dolore ogni volta che con le dita distratte si urtava il seno. Notò solo in quel momento che la povera ragazza non aveva molti anni più di lei. Si ritrovò a pregare: Dio, fammi fare tutte le cose giuste. Fece il giro del letto e prese in braccio il piccolo. Era minuscolo, molto più piccolo di Sebastian appena nato, ma era vivo. Le sue palpebre gonfie e quasi trasparenti ebbero un tremito e si richiusero subito.

«Owen!», gemette Myfanwy. «Sta per morire. Lo so». E si mise a dondolare la schiena piangendo.

«No», replicò Louise. «Adesso ti do la medicina e ti farai una bella dormita».

«Ma se io mi addormento morirà di sicuro!», protestò con una tale tragica certezza che Louise, fino a un attimo prima paralizzata dalla compassione, si sentì piena di un’energia improvvisa.

«Ci penserò io a lui mentre tu dormi, e vedrai che non morirà», disse mettendoci tutta la convinzione possibile pur sapendo che era una promessa avventata.

Ma Myfanwy parve convinta. Annuì con gli occhi fiduciosi fissi su Louise.

«C’è un cucchiaio per la tua medicina?».

«Devo prenderla con dell’acqua. Il bagno è qui accanto».

Raccolse il bicchiere appiccicoso e pieno di ditate che stava accanto alla bottiglia, lo sciacquò e vi versò la dose prescritta. «Due cucchiai ogni quattro ore», diceva la ricetta. Al suo ritorno, Myfanwy stava cercando di far bere un po’ di latte al piccolo, che però si girò rifiutando il capezzolo e cominciò a emettere un miagolio sottile ed estenuato. Louise lo prese con delicatezza e lo depose in fondo al letto. Continuava a piangere, ma Louise sentiva che la prima cosa da fare adesso era far prendere quella medicina alla madre. L’aiutò a sollevarsi, le scostò le lunghe ciocche dalla fronte bollente e le diede il bicchiere. Quand’ebbe bevuto la medicina, le rigirò i cuscini caldi anch’essi e le sistemò lenzuola e coperte.

«La stanza di Owen è accanto al bagno», le disse Myfanwy. «Le sue cose sono tutte lì. Io e mia madre gli abbiamo cucito i vestiti e c’è un bollitore se vuoi farti del tè. Promettimi che non ti addormenterai. Veglierai su di lui, me lo prometti?».

«Promesso. Starò sveglia, se tu prometti di dormire».

Quando atteggiò il volto a un fievole sorriso, Louise vide che era bella.

«Ti porto un po’ d’acqua da tenere sul comodino, nel caso avessi sete», le disse. Ma quando fu di ritorno col bicchiere, Myfanwy dormiva già.

Iniziò la sua notte sola col neonato. Fece bollire dell’acqua e la versò in un biberon con un cucchiaino di glucosio. Poi versò il resto dell’acqua in una vaschetta di smalto e ci mise dentro il biberon coperto da un tovagliolo, così da mantenerlo caldo. La stanza era piccola: c’era una brandina, la cesta in cui dormiva il piccolo e un tavolo su cui erano disposti il talco e le spille per il pannolino. Lo tastò per sentire se era bagnato, e lo era, così lo adagiò sulla branda e s’inginocchiò per cambiarlo. Era piccolo da far pena e Louise temeva di fargli male. Non appena Louise cominciò a spogliarlo, si mise a vagire in quel suo modo stanco, e Louise chiuse la porta sperando che Myfanwy non lo sentisse. Dopo fece per metterlo nella sua cesta, ma era così pallido e aveva mani e piedi talmente freddi che cambiò idea. Si tolse il maglione e s’infilò nel letto, usando il cuscino e il cappotto per sostenersi la schiena. Poi tolse il piccolo dallo scialle in cui era avvolto e lo strinse a sé in modo da stare pelle a pelle con lui. Ma lì dentro faceva troppo freddo anche così, perciò si alzò di nuovo e andò in bagno dove aveva visto una borsa dell’acqua calda. Dopo averla riempita, l’avvolse nello scialle e anche nel proprio maglione, per la paura di ustionare il piccolo. Tornata a letto lo mise stretto fra sé e la borsa dell’acqua calda. Quando restò immobile, il silenzio fu rotto solo dai rintocchi della pendola al piano di sotto, puntuali ogni quarto d’ora. Lasciò la luce accesa così da tenerlo d’occhio: nella stanza faceva un gran freddo e Louise vedeva il proprio respiro condensarsi. Restò così, seduta nel letto a guardare il faccino rugoso e cercando di infondergli vita con la propria semplice volontà, e in effetti dopo un po’, quando si fu scaldato e sulla pelle gli si fu sparso un lieve rossore, aprì gli occhi. Per un secondo vagarono senza mettere a fuoco, poi si fissarono su di lei. Occhi negli occhi, Louise gli parlò: parole tenere e incoraggianti, complimenti per la forza che aveva dimostrato, e lui la ricambiò con una specie di attenzione severa. Sentì che il corpicino si muoveva, il piccolo piede le premeva contro il torace e le dita della mano libera si aprivano e chiudevano in un pugnetto stretto come un bocciolo. Quando cominciò ad aprire e chiudere la bocca, Louise provò a dargli l’acqua zuccherata. Non succhiava e nemmeno afferrava la tettarella con le labbra, ma se Louise gliene spremeva un po’ sulla bocca sembrava accettarlo, anche se il sapore gli faceva contrarre la faccia in una smorfia di disgusto. Ne prese solo poche gocce, ma era meglio di niente. Quando aprì la manina, Louise gli porse il dito da stringere e fu ricompensata con una stretta immediata, che si sciolse solo quando il neonato s’addormentò.

La notte andò così. Contava i rintocchi della pendola per tenere il conto delle ore: le due, le tre, le quattro. Si alzò una volta col piccolo in braccio per assicurarsi che Myfanwy dormisse, e un’altra per mettere a bollire altra acqua e tenere calda sia la borsa sia il biberon. Riuscì a fargli ingerire qualche goccia altre due volte: da sveglio, lui la fissava di continuo, ma dormì per gran parte della notte.

Col passare delle ore diventò sempre più difficile restare sveglia, ma ci riuscì grazie alla determinazione e alla facilità con cui aveva visto che il piccolo tornava a raffreddarsi: non osò mettersi supina, anche se aveva male alla schiena per aver mantenuto a lungo la posizione seduta. Ma soprattutto, a tenerla sveglia fu la coscienza di quanto fosse fragile la sua vita, del bisogno che aveva di calore e cura. Fu la sua ferma volontà che Owen vivesse: già lo amava.

Passate da poco le sette, sentì Myfanwy alzarsi e andare in bagno. Poi se la trovò alla porta che chiedeva di lui. «Oh, ha un bell’aspetto!», esclamò. «Mi sono fatta proprio una bella dormita grazie a te. Muoio dalla voglia di una tazza di tè. Vado di sotto a farlo».

«Mettiti a letto e prendi la medicina invece. Io ti porto il piccolo e vado a preparare il tè».

«D’accordo».

Dormiva quando lo avvolse nello scialle: avrebbe quasi voluto svegliarlo, perché potessero guardarsi ancora, ma non lo fece. Lo prese in braccio e lo depose fra le braccia di sua madre. È lei sua madre, si disse mentre scendeva al piano di sotto per preparare il tè. Era ancora buio e si sentiva la pioggia percuotere i vetri delle finestrelle gotiche a punta.

Alle otto arrivò in bicicletta l’infermiera distrettuale. Louise andò ad aprire la porta appena la sentì bussare e la trovò che si liberava con fatica dell’impermeabile e del cappuccio.

«Piove che Dio la manda», disse. Dall’accento non sembrava inglese. «Il dottor Jones mi ha detto di venire il prima possibile. Febbre puerperale ha detto. È di sopra? Non si preoccupi, troverò la strada».

E fu tutto. Accettò i ringraziamenti e anche l’offerta di una bici per tornare a casa. Quando si chinò sul neonato per baciarlo, l’infermiera l’ammonì di non svegliarlo, così rinunciò. «Ti sono tanto grata», le disse Myfanwy, ma ormai era intimidita dalla presenza dell’infermiera.

«Di niente», la rassicurò Louise.

Ma mentre pedalava verso casa con la testa avvolta in una voluminosa sciarpa che s’inzuppò in pochi secondi, sebbene stordita dalla mancanza di sonno, si sentiva euforica. L’immagine di quegli occhi pieni di fiducia e dignità l’accompagnò per i sette chilometri che dovette percorrere. Potrò rivederlo, si disse. Dovrò pur riportare la bicicletta. Le venne in mente che non aveva mai provato nulla di simile per Sebastian, ma era un pensiero doloroso e lei era troppo stanca per soffermarvisi.

Era decisa ad andarsene direttamente a dormire, ma fu raggiunta dal profumo della colazione e si accorse di essere affamata. Si ricordò che non aveva cenato la sera prima.

In sala da pranzo il capitano di una delle motosiluranti della flottiglia di Michael faceva colazione insieme alla moglie, che indossava sempre abiti castigati con colletti bianchi alla Peter Pan; veniva circa una volta al mese e a Louise non era mai stata simpatica.

«Buon Dio!», la chiamò da diversi metri di distanza. «Sembri reduce da un diluvio! Ci chiedevamo come mai tuo marito, pover’uomo, fosse ridotto a fare colazione da solo».

«Ci ha chiesto di dirti che è dovuto andare via per una riunione di prima mattina», interloquì il marito.

«Oh, grazie». Aveva sistemato il cappotto grondante sullo schienale della sedia libera e stava spalmando di margarina una fetta di pane tostato lasciata da Michael. Il pane era duro e la margarina pessima, ma non ci fece caso tanto era affamata.

«Dove sei stata? O non puoi dircelo?».

Resistendo alla tentazione di inventarsi una notte di balli e bisbocce, raccontò di essere stata da un’amica che aveva appena avuto un bambino. Questo mise a tacere Barbara, la quale si limitò a borbottare interdetta che non credeva che Louise fosse tipo da bambini.

Dopo che ebbe ordinato e mangiato tutto quello che c’era nel menu, andò di sopra con l’intenzione di fare un bagno caldo e mettersi a dormire. Ma sul letto trovò un biglietto di Michael. «Cara. Spero sia andato tutto bene. Arthur era tanto in pena, ma sono certo che sei stata di enorme aiuto. Torno per cena. Con amore, Michael». Quel dare per scontato che si sarebbe resa utile le diede un senso di calore mentre si toglieva la roba bagnata. La vestaglia di Michael era più pesante della sua, così se la infilò intanto che riempiva la vasca, perché aveva i brividi. Aveva anche le mani gelate, così le infilò nelle tasche e vi trovò un foglio di carta. Lo tirò fuori e riconobbe la calligrafia di Zee. Sapeva che Michael le scriveva spesso, ma le lettere gli arrivavano direttamente in nave e Louise non le aveva mai viste. Era curiosa.

Dopo una serie di circostanziati commenti sulle attività marinare e alcuni ragguagli sul conto di gente che Louise conosceva appena, la lettera era firmata: «Con tutto l’amore possibile, mio caro tesoro. La tua mamma». Ma c’era un altro foglio.

Ho appena ricevuto la tua del 10 di questo mese e ho pensato che avresti gradito sapere che Hugo è stato mandato a raggiungere il suo reggimento in Germania, ed è quindi finalmente fuori dai piedi. Spero che questo ti sia di sollievo, mio caro, perché nonostante Pete gli abbia fatto promettere di non mettersi mai e in alcun modo in contatto con Louise, ha poi appreso con enorme sgomento che invece le ha scritto una lettera. Immagino tu sappia che non c’è da fidarsi di nessuno dei due. È una fortuna che tu sia stato in grado d’intercettarla. Penso che tu abbia fatto bene. Questa storia deve averti addolorato molto, e quello che addolora te addolora anche me. Di nuovo con tanto affetto, la tua mamma.

Lesse e rilesse il secondo foglio, ma una seconda lettura non valse a calmare il tumulto di varie emozioni: lo sgomento perché lui aveva lasciato il paese e lei non lo aveva saputo; la paura che venisse ucciso; il sollievo perché le aveva scritto incurante dell’interdetto della famiglia; l’urgenza, il bisogno impellente di leggere ciò che le aveva scritto, e insieme a tutto questo la rabbia per quell’indebita intromissione. Si mise alla ricerca della lettera – nei cassetti di Michael, nelle tasche delle giacche appese nell’armadio – ma non la trovò. Le sorse il terribile sospetto che l’avesse distrutta, ma non poteva sopportarne neppure il pensiero. La voleva così tanto, quella lettera, che doveva per forza esistere da qualche parte. Quando ebbe perlustrato ogni angolo, si buttò sul letto e pianse fino a non avere più lacrime, e allora l’estrema stanchezza la sopraffece come una specie di nebbia.

Quando si svegliò trovò Michael in piedi accanto al letto, che le annunciava che era ora di cena. «Devi aver dormito per ore», le disse.

Cominciò così la loro prima lite, la più violenta. Gli disse che aveva letto la lettera di sua madre.

Non avrebbe dovuto.

Perché no? Lei, Zee, non esitava a leggere la posta degli altri.

Silenzio.

Sapeva di Hugo. Voleva quella lettera.

Non era possibile. L’aveva distrutta.

Dopo averla letta, immaginava.

No. Questo non sarebbe stato onorevole. L’aveva distrutta e basta. Dopotutto, c’era stata una promessa.

La promessa di non scrivergli era stata estorta a lei; e non aveva promesso di non ricevere lettere. Si trattava di un’unica lettera, lo supplicò. (Non aveva lettere di Hugo: sarebbe stato qualcosa da tenere con sé, un po’ di conforto nella più nera desolazione).

Una rottura totale era la cosa migliore. Così ne sarebbe uscita prima.

E chi gli diceva che lei desiderasse uscirne? Amava Hugo. Voleva sposarlo e avere dei figli con lui.

Non stava dicendo mica sul serio? Le ultime settimane erano state difficili anche per lui. Aveva cercato di essere comprensivo, perché lei era molto giovane. La vita coniugale era difficile quando uno dei due era via per la maggior parte del tempo. Avrebbe superato la sua infatuazione per Hugo, ma sarebbe successo prima se avesse fatto qualche sforzo e non avesse ceduto così facilmente.

L’aveva distrutta davvero la lettera?

Ma certo, per Dio! Non era un bugiardo, questo lo sapeva anche lei, no?

Non era un bugiardo, replicò lei, ma non diceva la verità.

Una frase davvero profonda, ma lui non capiva cosa volesse dire.

Voleva dire che non le diceva le cose.

Quali cose?

Non stava a lei spiegarglielo.

Silenzio.

Lo guardò con aria stranita.

«Non ti perdonerò mai per aver distrutto quella lettera».

La lite, come tutte le brutte liti, non finì quel giorno né in un altro particolare momento: Louise si accorse che il freddo risentimento con cui gli aveva detto che non lo avrebbe mai perdonato aveva colpito Michael molto più di quanto lo avessero scalfito le suppliche e le perorazioni. Lui la trattava come una bambina, una bambina che si è comportata male, e la puniva per il suo misfatto senza tenere in alcuna considerazione il sentimento o la ragione che l’aveva condotta a quel gesto. Da allora le parve che anche il sesso che le imponeva sera dopo sera fosse una specie di punizione, tanto più che nemmeno lui sembrava ricavarne piacere. Quel giorno Louise si rifiutò di andare a cena con lui, e quando tornò in camera finse di dormire.

La mattina dopo si svegliò col mal di testa, il mal di gola e qualche linea di febbre, e per alcuni giorni gli strascichi della lite restarono celati dalla sua influenza e dagli sforzi di lui per assisterla quando non era in servizio. Le chiamò il medico, il quale le prescrisse il solito terribile medicamento che andava spalmato in gola e dell’aspirina, e le raccomandò di bere molto. Disse che aveva una brutta infezione alle tonsille e che a suo parere doveva farsele togliere. Michael le portò libri e fiori. «Ti amo, lo sai». Poi disse che forse, dato che si sentiva tanto male ed era anche probabilmente contagiosa, era il caso che lui restasse a dormire a bordo. Così per tre giorni ebbe il letto tutto per sé, ma si sentiva così male che il giorno e la notte si susseguivano come un flusso monotono di tempo, in cui, se andava bene, dormiva; altrimenti pensava ossessivamente a Hugo: dov’era? L’avrebbe rivisto? Lei gli mancava? L’amava davvero? E se pure l’amava, a cosa avrebbe portato? Lei era sposata con Michael e aveva un figlio, le cose non potevano cambiare. Ma era quasi sempre troppo debole per pensare a queste cose, e quando piangeva era soprattutto per la lettera che le era stata sottratta: non nutriva nessuna speranza di rivederlo.

Tutte le sere Michael passava prima di cena a darle notizie di vario genere. «Gli Alleati hanno circondato Berlino», oppure: «Ho telefonato a Home Place e tua madre mi ha detto che Sebastian ha messo altri due denti e che la nuova tata è bravissima. Ti manda i suoi saluti e spera che tu ti rimetta presto, cara».

La quarta sera le suggerì di alzarsi e scendere a cena con lui.

«Ho invitato il nuovo capitano della nave di Martin. Ti farà bene un po’ di compagnia, cara. Potrai tornartene a letto subito dopo cena».

Fu quella sera che conobbe Rory.

Parlarono a lungo di Oscar Wilde, e le piacque subito.

4 Si tratta di due battute della commedia di Oscar Wilde Limportanza di chiamarsi Ernesto, Trad. it. di L. Chiavarelli, Newton Compton, Roma, 2008. La prima è tratta da Atto I, Scena II, la seconda, volutamente storpiata con l’aggiunta del non, è tratta da Atto III, Scena I.

5 Miss Havisham è un personaggio di Grandi speranze, il romanzo di Charles Dickens. Abbandonata sull’altare, la giovane nobildonna si è rinchiusa nella sua fastosa dimora in decadenza e lì vive il resto della sua vita senza mai togliersi l’abito da sposa, incluso naturalmente il bouquet, e lasciando la torta nuziale a marcire in un angolo.