Clary
Maggio-giugno 1944

È il fine settimana, ma non vado a casa perché ho appena cominciato a lavorare nella protezione antiaerea e devo andare alle lezioni di addestramento, che tendono a essere nel fine settimana perché così la gente che lavora le può frequentare. Di bombe non se ne vedono da un po’, ma tutti credono che ce ne saranno, soprattutto dopo lo sbarco in Francia, che ormai è questione di giorni. Louise è partita per Hatton perché Michael è in licenza e a lui non piace trascorrerla a Londra. Ha portato con sé il piccolo e Mary, ma fra poco Mary se ne andrà perché sta per sposarsi. Speriamo tutti che arrivi presto un’altra tata, perché quando Mary ha il giorno libero in casa regna il caos: Louise non smette un attimo di lavare pannolini e sterilizzare biberon e Sebastian piange come un matto. Sta mettendo i denti e la faccia gli si è riempita di macchie rosse. In circostanze normali invece somiglia a Mr Churchill, il quale pare abbia detto che tutti i neonati gli somigliano, da cui si deduce che la mia similitudine non è per niente originale. Comunque è sabato mattina, e in casa c’è un gran silenzio perché Polly sta ancora dormendo. Ultimamente, nel fine settimana si sveglia sempre più tardi. Perciò me ne sto qui sui gradini che scendono in giardino a sorseggiare tè tiepido e a scrivere il mio diario per te. Il guaio, papà, è che quando tornerai avrai tanta di quella roba da leggere che ti ci vorranno anni, e probabilmente a un certo punto ti annoierai, cosa per cui non potrei biasimarti ma ci resterei male comunque. Non ti ho ancora raccontato niente del mio lavoro – il mio primo lavoro! Oh, niente di particolarmente eccitante: lavoro per un vescovo di nome Peter. A quanto si dice è giovane per essere un vescovo, ma a me non lo sembra poi così tanto. Sua moglie è una donnina bassa e cicciottella, con la crocchia, e sorride sempre pur non sembrando particolarmente contenta. Vivono in una grande casa buia con dentro un sacco di roba che non usano mai, e un odore perenne di cibo andato a male e panni sporchi. C’è un gran viavai di gente e la moglie del vescovo fa il tè per tutti, a volte coi biscotti e a volte senza. I vassoi rimangono puntualmente sui tavoli, finché non li ritiro io perché la signora rimane a corto di teiere. Il giardino è pieno di cardi e lisimachie, e qualche pianta sempreverde in pessimo stato. Non hanno tempo per il giardino, dicono. Io lavoro seduta in fondo al tavolo da pranzo, o almeno è lì che batto a macchina le lettere, e poi le porto nell’ufficio del vescovo. Mi siedo su una sedia alta che sembra imbottita di muschio e lui cammina su e giù per la stanza intervallando la dettatura con freddure improponibili che poi finisco per mettere per sbaglio nelle lettere. Gli piacciono soprattutto gli scambi di sillabe, come “hai le slacce scarpate” o “o i torni non contano”.

Hanno due figli che si chiamano Leonard e Veronica, ma non li ho mai visti perché sono sempre via. La mattina devo essere lì alle nove e mezzo e di solito vado a pranzo in un caffè lì vicino, dove prendo patate fritte e uova e certe salsicce pessime che sembrano fatte con la carne di qualche animale morto allo zoo, poi torno a lavorare fino alle cinque e me ne vado a casa in bicicletta. Devo anche rispondere al telefono, che non si trova vicino alla macchina da scrivere ma nell’ingresso. Però è un lavoro, e mi pagano due sterline la settimana. Il vescovo descrive tutti quelli che conosce come dei santi o delle persone straordinarie, ma quando poi vengono a trovarlo si capisce che non sono né l’una né l’altra cosa. Perciò purtroppo non sto imparando molto sulla natura umana.

Questa casa è bizzarra, credo sia perché non appartiene a nessuno in particolare. C’è ancora un sacco di roba di Lady Rydal, poi Louise ci ha messo i suoi regali di nozze e io e Polly abbiamo portato un po’ di cose nostre. Nel fine settimana, quando gli amici si fermano a dormire, devono sistemarsi in sala da pranzo perché ci sono solo cinque camere da letto, e Louise, col bambino e la tata, ne occupa già due. Io e Poll abbiamo una cameretta ciascuna in mansarda.

Non mi pare che il matrimonio abbia cambiato Louise. Ma è pur vero che di vita coniugale per ora ne ha fatta poca, perché Michael non c’è quasi mai. Molti di quelli che frequentano la casa sono un po’ infatuati di lei e credo che la cosa le faccia piacere.

Chi mi preoccupa è Polly. È diventato difficile parlarci. So che al lavoro si annoia a morte, ma non credo si tratti solo di questo. Si sente in colpa per aver abbandonato zio Hugh a casa da solo, ma anche questo non è tutto. Sospetto che sia innamorata ma va su tutte le furie se uno solo sfiora l’argomento, cosa che io ho fatto sei e sette volte col massimo tatto. Frequenta una scuola d’arte due sere alla settimana, e forse si tratta di qualcuno che ha conosciuto lì. Se non mi racconta niente, probabilmente è perché il tizio in questione è sposato, perciò la loro relazione non ha futuro. Prima mi parlava di tutto, e credo che questo silenzio faccia arrabbiare più lei che me... Suona il campanello: sarà uno degli spasimanti di Louise, ma devo andare ad aprire.

Sono passati diversi giorni, perché non era uno degli spasimanti di Louise, bensì Neville! Portava la divisa scolastica (te l’ho detto, papà: ha lasciato la scuola preparatoria perché ormai aveva superato l’età e lo hanno mandato a Tonbridge). So bene che la odia, questa nuova scuola, perciò quando mi ha detto che era venuto solo per fare colazione ho capito subito che era scappato. Aveva con sé una piccola valigia che sapevo non essere sua, ma ho pensato che la cosa migliore fosse intanto preparargli da mangiare (ultimamente è pelle e ossa e ha sempre la faccia di uno che sta morendo di fame, anche quando ha appena mangiato) e per il momento lasciare in sospeso la questione della valigia. È venuto con me in cucina, gli ho fatto del pane tostato e lui ci ha messo sopra margarina e Bovril, ma si è mangiato pure un avanzo di maccheroni al formaggio che avevamo preparato io e Polly per cena il giorno prima e delle mele cotte, poi ha visto una scatoletta di sardine, che io nemmeno sapevo fosse lì, e ha voluto anche quelle. Per tutto il tempo, mentre mangiava, ha parlato dei film di Stanlio e Ollio e dei fratelli Marx. A un certo punto però ha esaurito l’argomento ed è rimasto in silenzio a bere il suo tè. Poi ha detto: «Lo sai che non si può più andare in Irlanda? C’è un divieto. Assurdo. Non lo sapevo finché non sono arrivato a Londra». Allora mi sono ricordata che già una volta era scappato dal collegio dicendo di voler andare in Irlanda, e ho capito che la storia si stava ripetendo. Sei scappato, gli ho detto, e lui ha risposto di sì.

«La detesto con tutte le mie forze, quella scuola!», ha spiegato. «Non ha senso continuare a stare in un posto che detesti tanto». Poi mi ha guardato in un modo seducente che mi ha sorpresa e ha detto: «Tu hai sofferto nella vita, perciò ho pensato che mi avresti capito. Ecco perché sono venuto qui».

Se fosse stato possibile però, ho pensato, te ne saresti andato in Irlanda senza tanti complimenti. Stava sfoderando a bella posta il suo lato tenero, papà, e credimi se ti dico che in un modo inquietante sa essere davvero irresistibile. Gli ho detto: «E se io non fossi stata in casa, che avresti fatto?».

«Avrei aspettato», ha risposto lui. «In valigia ho delle caramelle e dell’avena che un mio compagno dà da mangiare al suo topo segreto. Ne ho presa un po’».

«A casa ovviamente non sanno niente».

«Certo che no. Mi rimanderebbero indietro. Sono venuto qui perché ero convinto che tu fossi diversa. O forse invece...», ha socchiuso gli occhi e ha continuato con voce melliflua, «sei diventata una di loro?».

L’ho trovata una domanda molto difficile. Anche perché proprio non vedevo dove altro potesse andare, se non a scuola. D’altra parte mi sembrava sbagliato tradire la sua fiducia. Alla fine gli ho detto che non lo sapevo, ma gli ho promesso che non avrei fatto nulla alle sue spalle. «Allora terrò le spalle costantemente voltate», ha detto, ma si vedeva che era sollevato, ed è stato in quel momento che mi sono accorta che negli ultimi tempi ha avuto sempre un’aria guardinga, come se lo inseguissero.

Poi mi ho pensato ad Archie. Lui sì che avrebbe saputo cosa fare. Sulle prime Neville non voleva che lo chiamassi ma poi gli ho assicurato che Archie non l’avrebbe tradito, e allora ha acconsentito.

Archie è venuto in taxi. Prima del suo arrivo, Neville ha blaterato una serie di idee assurde tipo trovare lavoro come tassista – dice che Tonbridge gli ha insegnato a guidare, ma lui è comunque troppo giovane per lavorare – o come guardiano allo zoo – è vero che sa un mucchio di cose sui serpenti, ma non credo che questo costituisca una qualifica – o come cameriere in un ristorante o conducente d’autobus, un altro lavoro che per un po’ ha detto di voler fare. Tutte cose impossibili per un ragazzino di poco più di tredici anni, anche se lui ne millanta già quattordici.

Quando Archie è arrivato, mi ha abbracciata come fa sempre e mi ha dato un bacio, ma quando ha tentato di fare lo stesso con Neville, lui si è ritratto come un cavallo spaventato e si è fatto tutto serio; ho capito che era sconvolto e che si sforzava di non piangere. Archie non se ne è accorto, o così è sembrato, mi ha dato un pacchetto dicendo che era caffè e mi ha chiesto di prepararne un po’. Mentre mettevo su il caffè è arrivata Polly, con la vestaglia e i bigodini in testa. Si è fermata sulla porta quando ha visto Archie e Neville e ha detto che andava di sopra a vestirsi. Credo non volesse mostrarsi ad Archie coi bigodini. Lui però le ha detto di sedersi tranquilla a fare colazione, perché voleva parlare con Neville e potevano benissimo andare di sopra. Neville allora ha detto che non voleva sentirsi dire quel che doveva fare, e Archie ha replicato: «Non voglio parlare. Voglio ascoltare». Neville allora è parso soddisfatto, perché sono andati subito di sopra.

«Perché non mi hai detto che era qui?».

«Non volevo lasciarlo da solo. È scappato da scuola».

«Non parlo di Neville, ma di Archie».

«È arrivato un attimo fa. Gli ho chiesto io di venire, perché non sapevo cosa fare». Le ho detto quanto fosse difficile per me decidere che posizione prendere, e lei è stata molto comprensiva e ha detto che lo sarebbe stato anche per lei. «Mi sono sentita così anch’io per via di Simon», ha detto. «Sembra tanto solo».

«Se ti sembra solo lui, pensa un po’ come deve sentirsi Neville! Non ha nessuno... con papà che non c’è più... che non è ancora tornato, volevo dire... e Zoë che come madre è meglio non contarla. Ha giusto me, ma non credo di saper fare molto per lui».

Quando ho finito di fare il caffè, si è versata una tazza e se l’è portata di sopra per vestirsi. Ho preparato un vassoio per Archie e Neville e l’ho portato su in salotto, ma la porta era chiusa. Ho dovuto mettere giù il vassoio per aprirla e allora ho sentito Archie chiedere qualcosa a Neville a voce bassa, poi un silenzio e poi, mentre raccoglievo il vassoio, Neville è scoppiato improvvisamente in singhiozzi, il suono più terribile che gli abbia mai sentito uscire di bocca. Archie mi ha visto e mi ha fatto cenno di mettere giù il vassoio e chiudere la porta, e io ho obbedito.

Se ne sono stati lassù per ore. Io sono tornata in cucina a lavare i piatti, e poi mi sono messa a fare delle pulizie che nessuno faceva da giorni, perché ero in ansia e non sapevo come occupare il tempo. Deve stare proprio male, continuavo a pensare, e sentivo di essere stata una pessima sorella per lui, egoista e concentrata solo su me stessa. E sai che cos’ho scoperto, papà? Che questo tipo di ruminazioni non serve proprio a niente. Pensare a quanto mi sono comportata male con qualcuno mi fa solo sentire in colpa, e così diventa ancora più difficile fare le cose giuste nel presente. Bisogna invece che mi sforzi di pensare a cosa potrei fare di diverso da quanto ho fatto, che significa un po’ fingere di aver fatto qualcosa. Nel caso in questione io non ho fatto abbastanza per Neville, non gli ho nemmeno voluto bene più di tanto. Anzi, segretamente lo odiavo perché gli davo la colpa della morte di tua moglie (qui cancellò “di tua moglie” e scrisse “della tua prima moglie”). Dopotutto era mia madre, e lui non se n’è mai dato pena perché non l’ha conosciuta. Poi credo di averlo perlopiù sopportato, e quando hanno detto che eri disperso in Francia (e devo dirtelo, papà, fossi stata al posto di Pipette non ti avrei mai abbandonato: tengo più a una singola persona, a te, che al bene della nazione, lo ammetto), ero così angosciata e mi mancavi così tanto che non ho pensato nemmeno un attimo a quello che doveva provare Neville. Perché lui è rimasto solo: non aveva in famiglia qualcuno della sua età, come io ho Poll. Perciò d’ora in poi gli vorrò bene, è deciso. Tu non ci sei, perciò gli vorrò bene almeno fino al tuo ritorno. L’unico problema è che mi pare stia diventando una specie di eccentrico, di quelli che nella mia esperienza la gente tende ad apprezzare quando sono morti o comunque solo da una ragionevole distanza. La gente è contenta che ci siano persone eccentriche – allo stesso modo in cui è contenta che esistano le giraffe e i gorilla –, ma non ne vuole in casa propria, come si dice. “La nostra dolce casetta”. Lo diciamo anche noi di questa casa, soprattutto quando il disordine regna sovrano perché nessuno fa le faccende domestiche. Dunque, d’ora in poi la mia politica nei confronti di Neville sarà diversa.

Comunque, Archie è stato meraviglioso. Ha telefonato alla scuola di Neville e ha detto che lo avrebbe riportato la domenica seguente, e loro hanno detto che andava bene. Non si erano nemmeno accorti che se ne fosse andato, perciò non hanno telefonato a Home Place, per fortuna. Si è offerto di portarci tutti quanti a pranzo fuori e poi al cinema, ma ha detto che Neville sarebbe andato a dormire a casa sua subito dopo. Mi ha detto anche che non crede che quella scuola vada bene per lui, e che gliene cercherà una migliore. Siamo andati a vedere due film di Stanlio e Ollio e Neville si è fatto tante di quelle risate che la gente si girava a guardarlo, e dopo ha imitato tutti i personaggi di Its That Man Again mentre facevamo merenda al Lyons. È stato piuttosto buffo, no, anzi, è stato molto buffo: mi ha ricordato te, papà, quando fai le imitazioni. Poi è dovuto andare in bagno a dare di stomaco, un vero peccato perché aveva preso le cose più costose. Io volevo andare ad aiutarlo ma non potevo entrare nel bagno degli uomini. Ci è andato Archie però, e quando sono tornati Neville era un po’ pallido ma di buonumore e ha ordinato un’altra merenda, con fagioli al forno e una fetta di Battenberg cake, hai presente quel dolce terribile a quadrati rosa e gialli? Poi ci siamo salutati in Tottenham Court Road: Polly e io abbiamo preso il 53, mentre Archie è andato con Neville a piedi fino a casa sua. Archie ha detto che mi avrebbe chiamato la domenica sera, e così ha fatto. Mi ha detto che Neville ha subito tremende angherie da parte dei suoi compagni e che l’ultima goccia è stata quando il suo amico, quello che è andato anche alla preparatoria con lui, si unito alla banda di bulli che lo perseguita. Archie ha detto a quelli della scuola che Neville avrebbe continuato solo fino alla fine del semestre. Lui a quanto pare conosce un’ottima scuola che si chiama Stowe e che a suo parere è quella adatta per Neville. Archie si vedrà a pranzo con zio Hugh per chiedere il consenso della famiglia, ma è certo di ottenerlo data la fiducia che tutti hanno in lui. Ho detto ad Archie che vorrei fare qualcosa per aiutarlo e lui mi ha suggerito di scrivergli e di ospitarlo a Londra durante le vacanze. Che faremmo senza Archie, mi domando! L’ho chiesto anche a Polly, sull’autobus verso casa, e lei ha detto: «Ma tanto non devi farlo tu, no?». In quel momento stavamo scendendo e mi è caduta la borsa, ma in seguito mi sono chiesta perché avesse detto tu in quel tono. Quando gliel’ho domandato, ha detto che non aveva nessun tono in particolare. Io so che non è così, ma non ho voluto scatenare una lite.

6 giugno. Stamattina gli Alleati sono sbarcati in Francia. Oh, papà! Spero che arrivino da te, ovunque tu sia, e che ti liberino al più presto. Sono tutti molto emozionati: perfino il vescovo tiene la radio accesa per sentire i bollettini. Sono ancora lontani dai luoghi in cui sappiamo che sei stato, papà, ma ci arriveranno. Sono sbarcati in Normandia, ma quello è stato solo l’inizio. Louise è tornata a casa e Michael adesso è laggiù, perciò lei è molto in pena. La sera prima dello sbarco è andata a una festa ed è rimasta fuori per tutta la notte. Ha detto che la festa era fuori Londra e lei non lo sapeva, e non è riuscita a rimediare un passaggio, così ha dovuto farsi ospitare. Quella sera Mr Churchill ha detto in Parlamento che le cose procedevano bene, ma secondo Archie il cattivo tempo non ci ha favorito. Dev’essere stato terribile, ha detto, trovarsi tutti stipati a bordo delle navi da assalto: sono rimasti a bordo per ore prima di dirigersi verso la costa e in molti devono essersi sentiti male. Non mi viene in mente niente di peggio che avere la nausea e poi doversi buttare in mare e andare a combattere. (In verità non è venuto in mente a me: mi ci ha fatto pensare Archie). Michael è su una fregata. Già la sera prima abbiamo sospettato che stesse succedendo qualcosa, perché abbiamo sentito gli aerei per tutta la notte. Papà, dovunque sia, spero tu sappia che i nostri sono vicini, perché questo ti darà coraggio.

* * *

In seguito, per molto tempo non aggiornò il suo diario. Non riusciva a farlo perché all’inizio aveva nutrito l’assoluta certezza che, una volta che gli Alleati avessero messo piede in Francia, suo padre sarebbe stato liberato. Ma non avvenne niente del genere. Continuò il più totale silenzio, nessuna notizia su di lui. Quell’estate la sua fiducia cominciò a vacillare, e dover affrontare la possibilità che fosse morto da tutti quegli anni rendeva inutile e macabro continuare a scrivergli. Non lo disse a nessuno, nemmeno a Polly. Ogni mattina si svegliava piena di speranza, che andava poi svanendo nel corso della giornata finché la sera aveva la raggelante certezza che non sarebbe più tornato. A letto, sola, si allenava ad abituarsi all’idea che suo padre era morto, e piangeva per lui. Al mattino poi si svegliava piena di nuovo ottimismo e ricominciava a fantasticare di vederlo comparire all’improvviso. Certe volte avrebbe dato chissà cosa per poterne parlare con qualcuno, con Poll per esempio o con Archie, ma aveva troppa paura che, in modo gentile e affettuoso, loro le dessero conferma delle sue peggiori paure; inoltre, dato che ormai aveva capito di essere l’unica persona a crederlo ancora vivo, dare segni di cedimento con altre persone le sembrava una specie di tradimento.

Perse il lavoro, quell’estate, per il ragionevolissimo motivo che la cugina del vescovo era rimasta vedova il giorno dello sbarco e volevano che venisse a stare da loro e il vescovo aveva detto che il lavoro come segretaria le avrebbe dato almeno qualcosa con cui tenersi occupata. Non le dispiacque per nulla. Mantenne la promessa di scrivere a Neville.

Poco dopo lo sbarco cominciarono a cadere le V-1. La prima volta che ne vide una era in giardino con Polly, stavano strappando le erbacce in giardino senza troppo entusiasmo. Era partito l’allarme antiaereo e poi avevano sentito gli scoppiettii della contraerea, simili a tappi di sughero che saltavano dalle bottiglie. Poi videro qualcosa che somigliava a un piccolo aeroplano volare da solo a gran velocità, cosa di per sé insolita.

«Va a fuoco», disse Polly, poi vide anche lei le fiamme che uscivano dalla coda. «Non può essere un bombardiere. È troppo piccolo», disse. C’era un che di inumano nell’assoluta linearità della traiettoria. Uscì dal loro campo visivo, e il rombo del motore si fece sempre più fievole finché non lo sentirono più. Ma pochi secondi dopo si udì un’esplosione. «Almeno una bomba doveva averla», disse Polly.

Nei giorni successivi si videro molti altri aeroplani senza pilota. Le chiamavano “bombe volanti” e presto tutti si abituarono al loro ruggito metallico e impararono a temere il momento in cui cessava il ronzio del motore, perché voleva dire che stavano per abbattersi da qualche parte col loro carico di esplosivo.

Caro Neville [scrisse],

avrai visto anche tu le V-1 volare sopra la tua scuola. Come volontaria della protezione antiaerea devo controllare che la gente raggiunga i rifugi quando suona l’allarme; questo significa contarli e, se avanzano posti, chiedere ai presenti se qualcuno che conoscono manca all’appello. Se manca qualcuno, è mio compito andare a prenderlo. Sono più le persone anziane che i giovani ad andare nei rifugi. Verrebbe da credere il contrario, ti pare? C’è una base della protezione antiaerea in un seminterrato di Abbey Road (la strada dove passa l’autobus). Là fa sempre un gran caldo per via dell’oscuramento, non aprono mai le finestre, c’è odore di carbone e si beve il tè mentre si aspetta che inizi l’incursione. Quando siamo in servizio indossiamo delle divise: giacca e pantaloni blu scuro molto ruvidi e un berrettino con l’elastico sotto il mento. Certe volte ci fanno ascoltare delle lezioni. Durante una di queste, l’autunno scorso, ci hanno domandato se avevamo notato il fatto che i coperchi delle cassette della posta erano stati verniciati di un verde molto chiaro, tipo limone acerbo. Certo che ci avevamo fatto caso. Ebbene, è perché pare che i tedeschi abbiano intenzione di usare un nuovo gas letale, e ci hanno spiegato che i coperchi delle cassette della posta cambieranno colore quando lo useranno, così almeno lo sapremo. Abbiamo ascoltato in silenzio, e quando il tale che teneva il corso ha smesso di parlare, ho alzato la mano e ho domandato che cosa dobbiamo fare quando ci accorgiamo che c’è questo gas nell’aria, e quello mi ha risposto seccato che non c’è proprio niente che possiamo fare: quel gas è letale e contro di esso nulla possono le nostre maschere. A Polly non l’ho detto, perché lei ha il terrore del gas, ma di te so che mi posso fidare, e non glielo andrai a dire. Polly ha intenzione di arruolarsi anche lei nella protezione antiaerea, ma io le ho detto che è meglio di no. Louise ha mandato suo figlio a Home Place per via delle V-1. Io, da quando non lavoro più per il vescovo, non ho fatto molto a parte battere a macchina una commedia per un amico di Louise; non mi è parsa un granché, ma una dattilografa non deve avere opinioni su quello che trascrive. Il lavoro come volontaria mi prende molto tempo. Da un bel po’ dormiamo nel seminterrato, su dei materassi tutti in fila: è divertente, a parte il fatto che la notte escono fuori le lepisme. Quando verrai qui a Londra per le vacanze ci andremo a vedere un sacco di film e la domenica faremo delle belle scampagnate a Hampstead Heath o a Richmond Park. Certe volte ci viene anche Archie. Dice che è tutto a posto con la nuova scuola e che ti porterà a visitarla. Vorrei venirci anch’io, ma non glielo chiederò se tu preferisci così. Louise conosce delle persone che sono andate a Stowe e le hanno detto che è un posto civile, molto più bello della maggior parte delle altre scuole. Del resto sono certa che Archie possa capire molto di più della nostra famiglia se una scuola è un posto vivibile o no. Devo darti ragione sul fatto che loro non ci badano per niente. Mi domando se anche per papà e per gli zii è stato così brutto, e se pensano semplicemente che prima o poi tocca a tutti. Archie ha idee più moderne, questo è uno dei suoi pregi... È partito di nuovo l’allarme, devo smettere. Per favore rispondimi. Non sono certa che aprire un negozio di serpenti dopo la guerra sia un’idea brillante, perché alla maggior parte delle persone i rettili non piacciono come piacciono a te. [Poi pensò che non voleva scoraggiarlo, così aggiunse:] Però forse quelli che sono stati in guerra, magari in posti esotici, hanno cambiato idea al riguardo e ne sentono la mancanza. Dunque magari hai ragione tu.

Poi un giorno Archie le telefonò e la invitò a cena da lui. Non lo vedeva da settimane perché il lavoro lo aveva portato fuori Londra. «Intendi solo me o anche Polly?».

«Solo te, per questa volta. Con Poll ho cenato la scorsa settimana».

«Davvero? Non mi ha detto niente».

Quando Polly tornò dal lavoro le chiese una camicetta in prestito.

«Va bene. Però dovresti tenere pulite le tue».

«Non si tratta di questo. Quasi tutte sono ormai a un punto che, anche se le lavo, non si vede. Così indosso sempre la stessa».

«Va bene. Prendi quella a scacchi verde e blu».

«Non potresti prestarmi quella color panna? Devo abbinarla allo scamiciato di lino... l’unica cosa decente che mi sia rimasta».

«Dove devi andare?», domandò Polly mentre ci pensava.

«Da Archie. Mi ha invitata a cena».

«Non me lo avevi detto».

«Me l’ha chiesto oggi, dopo pranzo. Tu del resto sei andata a cena da lui la settimana scorsa e non mi hai detto niente... comunque te la restituisco lavata e stirata», disse seguendo Polly su per le scale, verso la mansarda.

«Sei una frana a stirare... dovrei rifarlo comunque. Dio, che caldo qui sopra!».

Faceva un caldo insopportabile. La canicola era cominciata all’inizio di quella settimana. Dapprincipio la gente si era rallegrata del bel tempo, ma dopo qualche giorno le lunghe attese alle fermate sotto il sole, gli uffici dove si boccheggiava, il latte che andava a male e persino l’acqua che non era fresca nemmeno appena uscita dai rubinetti cominciarono a inasprire gli animi. Gli autisti rispondevano in malo modo, la gente si scottava mangiando un panino al parco sull’erba arida, i tassisti prendevano a parolacce i pedoni, i pub restarono senza ghiaccio e cominciarono a servire drink tiepidi, senza contare che lassù, contro un cielo greve e velato dall’afa, i piccoli aerei robot volavano a dozzine, senza tregua, seminando il terrore col loro imparziale carico di morte e distruzione. Nei secondi che seguivano lo spegnimento del motore, si sudava di paura oltre che di caldo.

«Meno male che non dobbiamo dormire quassù», disse cercando di ammorbidire l’atteggiamento di Polly riguardo alla camicia. Non funzionò.

«Il guaio è che ci suderai dentro e non sarà mai più la stessa!».

«Immagino sia vero», disse con tristezza.

«Perché non ti metti solo lo scamiciato, senza niente?».

«Se lo provo, mi dici come sto?».

«Devi raderti le ascelle», disse Polly quando Clary le sfilò davanti. «Per il resto stai benissimo».

Usò il rasoio che le prestò Polly e si mise i suoi sandali migliori, si spazzolò le unghie – adesso se le rosicchiava un po’ meno – e si mise in cammino verso South Kensington, il che voleva dire cambiare treno a Baker Street. Quando arrivò davanti casa di Archie, dopo aver camminato dalla fermata della metro di South Kensington, sapeva di essere rossa e accaldata, cosa che di certo non stava bene – pensò con tristezza mentre aspettava che le aprisse la porta – col suo vestito di lino color terracotta. Del resto...

«Che bello vederti!», esclamò lui aprendole la porta, e lei arrossì di piacere: per fortuna con quel caldo non si sarebbe visto.

Aveva sistemato due sedie sul piccolo balcone affacciato sul giardinetto quadrato e le portò un bicchiere di gin e lime. A lei non piaceva molto in realtà, ma da bere c’era solo quello.

«Allora», disse lui. «Raccontami le novità. Hai trovato un altro lavoro?».

«No. Ho battuto a macchina uno scritto di un amico di Louise. Una commedia piuttosto mediocre, a mio parere. Ma naturalmente non ho detto niente».

«Puoi fare di meglio? Perché allora non lo fai?».

«Io? Scrivere una commedia?».

«Perché, stai scrivendo qualcos’altro?».

«No».

«Oh».

«Anzi, una cosa la stavo scrivendo, ma ho smesso. Che ne pensi del socialismo?», disse, in parte per cambiare argomento e in parte perché era da tempo che voleva chiederglielo.

«Credo che ne avremo parecchio una volta finita la guerra».

«Davvero?».

«Credo sia inevitabile. La guerra è un evento livellante, sai. Quando è stata messa in gioco la vita di tutti, è difficile che la gente si rassegni facilmente a tornare al vecchio sistema delle classi sociali, in cui la vita di alcuni conta più della vita di altri».

«Ma non succederà, vero? Non possono. Credi che una volta finita la guerra anche le donne saranno prese più sul serio?».

«Non ne ho idea. Senti di non essere presa sul serio?».

«No di certo! Alle donne vengono appioppati i lavori più noiosi, e non sono nemmeno pagate quanto gli uomini. Ma tanto gli uomini non li fanno».

«Sei femminista, Clary?».

«Può darsi. Lo scopo del socialismo è rendere il mondo più giusto. E io sono a favore».

«Ma la vita non è giusta».

«Lo so, in un certo senso è così. Ma questo non deve impedirci di renderla più giusta, per quello che possiamo. Sì, credo proprio che sarò uno di quelli».

«Socialista o femminista?».

«Tutt’e due. Volere più giustizia per le donne fa parte di volere più giustizia per tutti. O sbaglio? Archie, mi stai dando ragione o mi stai solo ridendo dietro?».

«Ho l’inquietante sensazione di essere d’accordo con te. Ma preferisco ridere che dirtelo. Sai bene come sono fatto».

Lo guardò. Stava seduto con le lunghe gambe stese dinnanzi a sé, rigide; aveva le maniche della camicia arrotolate a metà delle braccia lunghe e la guardava con la sua consueta espressione di malcelato divertimento, ma oltre a questo c’era nei suoi occhi uno sguardo intelligente, come se la stesse vedendo davvero, senza critiche e senza condiscendenza.

«In effetti no, non lo so», disse. «All’improvviso mi sembra incredibile quanto poco io ti conosca».

«Il fatto è che», tornò a dire tempo dopo, mentre mangiavano salmone in scatola e un’insalata preparata da Archie direttamente sul balcone, «credo di averti sempre dato per scontato. Credo anzi che lo abbia fatto tutta la famiglia. Insomma, pensa a come hai risolto il problema di Neville! Non so proprio chi altro avrebbe potuto farlo. Zio Edward avrebbe detto che la scuola è brutta per tutti e che bisogna farci il callo. Zio Hugh sarebbe andato lì per sentirsi promettere che avrebbero smesso di dargli il tormento. E quelli naturalmente avrebbero continuato».

«E che mi dici di Zoë? Lei che avrebbe fatto?».

«Oh, proprio niente. Ultimamente va a Londra ogni due per tre, e quando non va a Londra sta sempre con Jules oppure le sistema i vestiti. Io e Neville non la consideriamo proprio».

«Che cosa pensi di fare allora? Oltre ad abbracciare nuove idee, intendo».

«Non saprei. Mi troverò un altro impiego noioso, immagino».

«Non potresti trovare lavoro e intanto scrivere?».

«Non so più cosa scrivere».

«E il tuo diario?». Archie ne era al corrente, anche se non glielo aveva mai mostrato.

«Ecco... ho smesso». Sapeva che lui sapeva che il destinatario di quel diario era suo padre.

Dopo un breve silenzio, lui disse: «Be’, un diario deve coprire un arco temporale definito. Potresti coprire tutto il periodo della guerra».

«Non mi va».

«Oh, be’! Casomai tu non lo sapessi, una delle differenze fra un dilettante e un professionista è che il dilettante lavora solo quando ne ha voglia, mentre il professionista lavora che ne abbia voglia o no».

«Be’, allora io non sono una professionista. Mi sembra semplice». Lo disse nel tono più aggressivo che le riuscì. «Vado un momento in bagno», disse, e si defilò. In bagno si mise a piangere. Se gli dico di papà, lui si sforzerà di dirmi cose che non pensa davvero. Lui non crede che papà tornerà. Non voglio sentire cose che non pensa sul serio. Dovette soffiarsi il naso con la carta igienica, che era rigida e inadatta a quell’impiego, come sapeva per esperienza.

Quando tornò, Archie aveva sparecchiato il balcone e acceso una lampada in salotto. La fece accomodare sul divano e si sistemò sul bracciolo dal lato opposto.

«Ascoltami, Clary», disse. «Lo so perché hai smesso di scrivere il diario, o almeno credo di saperlo. Pensavi che sarebbe tornato non appena gli Alleati fossero sbarcati in Francia. Dal tuo punto di vista lo avrei pensato anch’io, ma a guardare la situazione da un’angolazione esterna questo è molto improbabile. Gli Alleati non sono arrivati nemmeno nella zona in cui lo ha lasciato Pipette, e comunque da allora potrebbe essere andato fino a chissà dove. Nel frattempo le comunicazioni in Francia non devono essere migliorate, ma peggiorate. Non sto cercando di consolarti», disse con decisione. «Perciò non fare quella faccia arrabbiata. Ti sto dicendo quello che penso, non come mi sento al riguardo. Se in tutti questi anni hai avuto fiducia nel suo ritorno, ti sto dicendo che non c’è motivo che tu smetta di sperare solo perché gli Alleati hanno messo piede sul continente. Non l’abbiamo ancora liberato, quel povero paese, e anche quando l’avremo fatto ci sarà comunque il caos».

«Stai cercando di tenere vive le mie speranze».

«Sto cercando di farti capire che non ci sono particolari ragioni per abbandonarle».

«Ma non potrebbe andare dove ci sono le nostre truppe e unirsi a loro? Deve certamente saperlo che gli Alleati sono sbarcati, ormai sono passate settimane! La donna che li ha aiutati di sicuro sarà in contatto con la Resistenza, no? Dovrà pur fare qualcosa!».

Archie andò a prendere la pipa dalla mensola del camino. «Be’, la notizia dello sbarco deve essergli arrivata, ma alle altre tue domande la risposta è no, o quasi certamente no. L’arrivo dei nostri eserciti deve aver dato molto da fare alla Resistenza. Non possono preoccuparsi per i singoli individui, adesso. È molto meglio per lui restarsene buono finché le acque non si saranno calmate».

«Lo credi davvero? Oh, Archie caro, tu la pensi come me, vero? Dimmi di sì».

«No...», fece per dire, ma si bloccò quando vide la sua espressione. Le lacrime le annebbiavano la vista. Le andò vicino e le diede una pacca gentile sulle spalle tremanti.

«Clary, non ha nessuna importanza cosa penso io. Hai tenuto duro così a lungo... Non ti arrendere adesso».

«Sarebbe da deboli».

«Proprio così».

«E non sarebbe giusto nei confronti di papà».

«Ci risiamo... qui non c’entra la giustizia. Non stiamo parlando di politica, ma di fede. Una tazza di tè?».

«Sai, stavo pensando», gli disse più tardi, mentre lavavano i piatti. «Credo che nella vita potrebbe esserci più giustizia di quanto la gente creda. Pensa alla tragedia greca: se uno commette una cattiveria, prima o poi la paga... persino personaggi carichi di colpe come re Lear pagano per i loro misfatti. Mi preoccupa di più l’eventualità contraria. Se butti a mare il pane, otterrai indietro una torta?».

«Be’, secondo me sì. Solo che non la riconosceresti», replicò lui, contento di vederla rinfrancata in così poco tempo. «Adesso ti chiamo un taxi».

«Hai la chiave di casa?», le domandò quando salì sul taxi.

«Certo che ce l’ho, Archie. Ho diciannove anni, non sono una bambina».

«Chiedevo soltanto. Lo so che non sei una bambina».

Il giorno dopo ricominciò ad aggiornare il diario.