Louise
Inverno 1942

Quando era sola, ovvero quasi sempre, e non era completamente apatica, provava a mettere insieme i pezzi di sé in modo da dar loro una forma riconoscibile e vedere com’era fatta. Alla scuola di recitazione aveva discusso per ore delle caratteristiche delle persone, delle sfaccettature delle loro personalità, dei vari aspetti della loro natura, dei loro vezzi di comportamento e delle loro reazioni emotive. I personaggi che interpretavano erano sottoposti ad attente analisi e ogni settimana si condannavano le commedie scadenti in cui i personaggi erano a due sole dimensioni, sagome di cartone senza profondità. Ai tempi ne aveva parlato anche con Stella e le aveva esposto le loro teorie. Il commento di Stella era stato: «Certo, è per questo che Shakespeare e Čechov sono gli unici drammaturghi di genio. I loro personaggi somigliano a delle uova. Da qualunque angolazione uno li guardi non sono mai piatti, ma nascondono sempre qualcosa di misterioso, dietro un angolo che non è nemmeno un angolo... eppure allo stesso tempo è sempre possibile immaginarne la forma intera...».

Lei invece, che non era nemmeno un personaggio fittizio, non si sentiva per niente come un uovo; si sentiva piuttosto come un tassello di un mosaico insensato o come la tessera di un complicatissimo puzzle. Non era una persona con tratti definiti; anche i pezzi spaiati di quel mosaico, o puzzle che fosse, non li sentiva come appartenenti a sé ma come una serie di piccoli ruoli a cui si era abituata e che riusciva a interpretare in maniera convincente. Uno di questi era Mrs Hadleigh. La fortunata, giovane moglie di un uomo affascinante che secondo Zee aveva spezzato innumerevoli cuori. La gente scriveva «MRS HADLEIGH» sulle buste; le stesse parole erano comparse nella didascalia della foto scattata da Harlip che era apparsa su «Country Life» poco dopo il suo matrimonio. La chiamavano così i concierge degli alberghi. Questa persona si era sposata in gran pompa, e le foto dell’evento erano apparse su numerosi quotidiani. «Sembro una patata novella vestita di pizzo bianco!», aveva piagnucolato sapendo di strappare una risata ai suoi futuri suoceri. Questa persona portava l’orologio d’oro dono di nozze del Giudice e un anello di turchesi e diamanti regalatole da Zee per il suo fidanzamento. Aveva valigie nuove con le iniziali L.H. stampate sul cuoio bianco. Al Claridge le era stata assegnata una stanza dove togliersi l’abito di pizzo bianco e mettersi il tailleur che le aveva fatto Hermione con del grazioso tweed color panna a quadrettini rossi ben distanziati, la gonna dritta e corta e una giacca a mezze maniche con bottoni rosso chiaro. Era uscita dall’ascensore ed era passata per l’ampio ingresso dell’hotel, gremito di familiari e persone che non aveva mai visto in vita sua, fino alla Daimler dove Crawley, l’autista del Giudice, la stava aspettando per portarla via.

Aveva dimenticato il soprabito, così Zee aveva mandato Malcolm Sargent a prenderlo. «Il caro Malcolm andrà a prenderlo», aveva detto, e lui aveva obbedito. Questa Mrs Hadleigh riceveva occhiate benevole dagli ammiragli, alcuni dei quali avevano mandato grosse casse piene di oggetti in vetro che di sicuro erano stati di valore prima di finire in frantumi. La cosa aveva reso difficile i ringraziamenti, perché nei casi peggiori i doni si erano ridotti in uno stato tale da impedirne l’identificazione. «Grazie infinite per lo splendido vetro che ci ha inviato», aveva finito per scrivere in un caso. Un gran numero di persone, compresi personaggi d’alto rango, erano state felici di conoscere Mrs Hadleigh e si erano congratulate con Michael con vari gradi di eleganza e galanteria per la sua affascinante e giovane moglie. A volte si sentiva come l’accessorio di un gioco di prestigio, il coniglio bianco che lui, con grande abilità, faceva apparire dal nulla. Mrs Hadleigh sembrava esistere solo in presenza di altre persone.

Poi c’era la sposa bambina. Era un tasto su cui battevano tutti: gli alti ufficiali e gli amici di Michael, molti dei quali erano addirittura più vecchi di lui. Era accaduto anche a Hatton, dove aveva scoperto che avrebbero passato metà della luna di miele. «Una settimana solo per noi, poi staremo con mamma», aveva detto Michael. Non era altro che questo: una bambina. Le decisioni le venivano comunicate col tono indulgente e vagamente canzonatorio di chi si aspettava da lei la più totale e sorridente obbedienza. Controbattere sarebbe stato villano, e lei non lo era mai. Interpretare la sposa bambina voleva dire riscuotere l’approvazione di tutti: una brava sposa bambina... Così trascorsero una settimana nella proprietà di una madrina di Michael che viveva in una grande casa nel Norfolk. Alloggiavano in una graziosa casetta col tetto decorato e un ampio focolare in sala da pranzo, dove consumavano anche i pasti. Lady Moy, la madrina, aveva assegnato loro qualcuno che cucinasse e si occupasse della casa e, quando arrivarono la prima sera, vennero accolti dal profumo della legna che bruciava e da quello di un buon pollo arrosto. Crawley portò su le valigie, si toccò il cappello e se ne andò, e anche la cuoca, che disse di chiamarsi Mary, dopo aver servito il pollo e mostrato loro la crostata di susine posata sul carrello, uscì lasciandoli soli. Ricordava di aver pensato: ecco il vero inizio della mia vita da sposata, la parte in cui vivrò per sempre felice e contenta. Michael poi era stato prodigo di parole di ammirazione, le aveva detto e ridetto quanto fosse bella in abito da sposa, quante persone si fossero complimentate con lui. «E sei bellissima anche adesso», aveva aggiunto prendendole la mano e baciandola. Più tardi aveva versato due bicchieri del bianco del Reno che Lady Moy aveva lasciato loro e aveva detto: «Brindiamo a noi due, Louise e Michael». Lei aveva ripetuto il brindisi e sorseggiato il vino, poi avevano cenato e parlato delle nozze, finché lui le aveva chiesto se voleva andare a letto.

Un po’ di tempo dopo, quando scese dal letto per mettersi una delle camicie da notte che le aveva regalato suo padre quando aveva quattordici anni e che erano ancora le migliori in suo possesso, pensò che era stato un bene che quella non fosse stata la prima volta, così almeno ci aveva fatto un po’ l’abitudine. Era già andata a letto con Michael quattro volte: la prima era stata orribile perché le aveva fatto un gran male, ma non se l’era sentita di dirglielo, perché lui invece sembrava entusiasta. Le volte successive era andata meglio perché non aveva provato dolore, e in un caso aveva perfino cominciato a eccitarsi, ma poi lui le aveva infilato la lingua in bocca e questo l’aveva fatta piombare in uno stato di confusione in cui non provava più nulla. Lui tuttavia non pareva farci caso, una cosa che all’inizio le era parsa positiva, ma poi gradualmente, durante la luna di miele, aveva cominciato a trovare strano che, nonostante non facesse che parlare di quanto l’amava e di ciò che provava mentre facevano l’amore, lui non sembrasse poi così interessato a lei. A un certo punto arrivò a dubitare di aver provato davvero quel dolce brivido pungente, la sensazione che qualcosa cominciasse ad aprirsi in lei.

Quella prima notte comunque si sentì se non altro sollevata per non aver sofferto e per il fatto che lui sembrava soddisfatto; poi le piombò addosso una grande stanchezza e si addormentò non appena si mise a letto.

La mattina fu svegliata da lui che voleva fare l’amore di nuovo e poi ci fu la novità di vestirsi insieme e condividere il bagno, seguita da una deliziosa colazione a base di uova e miele. Dopo andarono a fare una lunga passeggiata in un parco dove c’era un lago con dei cigni e altri uccelli acquatici, e un bosco. Era una mattina di settembre perfetta, chiara, profumata, l’aria fresca e senza vento. Camminarono mano nella mano, videro un airone, una volpe e un grosso gufo, e Michael non fece nemmeno un accenno alla guerra. Quella settimana andarono a cena da Lady Moy nella sua grande casa, dove lei e la sua dama di compagnia vivevano in un’atmosfera di cerimoniosa decadenza. Gran parte della casa era inutilizzata e nella parte abitata regnava il gelo; era il genere di casa, pensò Louise, che ti faceva venir voglia di andare fuori a scaldarti un po’. Lady Moy donò a Michael una bellissima coppia di fucili Purdey appartenuti al marito e due acquerelli di Brabazon. «Te li farò spedire», disse. «Quanto a te», aggiunse poi rivolgendosi a Louise, «avevo difficoltà a scegliere un regalo per qualcuno che non avevo mai visto. Ma ora che ti conosco e... a proposito, Mikey, hai fatto un’ottima scelta... ora so cosa fare». Rovistò in un ampio astuccio ricamato e ne tirò fuori un piccolo orologio di smalto azzurro adorno di perline, che pendeva da una spilla a forma di fiocco. «Me lo ha regalato la mia madrina quando mi sono sposata», disse. «Non segna l’ora esatta, ma è un bell’oggetto».

Durante la cena Lady Moy fece molte domande sulla nave e Michael le rispose con dovizia di dettagli. Louise all’inizio cercò d’interessarsi, poi solo di far sembrare che lo fosse, ma il numero di fucili di cui doveva essere munita la nuova motosilurante non era un argomento di conversazione a cui si sentisse di contribuire.

Fu quella sera, quand’erano sul punto di accomiatarsi, che Lady Moy chiese loro che piani avessero e Louise venne a sapere che avrebbero trascorso la seconda parte del congedo di Michael a Hatton.

«Mamma non vede l’ora di vederci. Ci è sembrato gentile nei suoi confronti».

«Lo è senza dubbio».

Si sentì addosso lo sguardo di Lady Moy ma non seppe interpretarne l’espressione. «Lasciati baciare anche tu», le disse dopo aver abbracciato Michael.

Andarono a piedi, al buio, fino al loro alloggio.

«Non mi avevi detto che saremmo andati a Hatton!».

«Davvero? Ma sì che te l’ho detto. Comunque non ti dispiace, vero?».

«No...». Non ne era tanto sicura.

«Sai, la cara mamma non sta molto bene e ultimamente era così in pena per me... e poi ti adora, sai? Una volta mi ha detto che non avrebbe saputo immaginare una madre migliore per suo nipote».

Restò di stucco.

«Non aspettiamo un figlio, vero?».

Lui si mise a ridere e le strinse la mano. «Cara, la prima a saperlo sarai tu. Chissà, c’è sempre speranza...».

«Ma...».

«Mi hai detto che ne volevi sei. Dovremo pur cominciare».

Aprì la bocca per dire che non li voleva subito – adesso – ma poi la richiuse. Michael aveva parlato in tono canzonatorio. Non faceva sul serio.

Ma l’argomento venne ripreso a Hatton. Le venne il ciclo il quarto giorno che erano lì, e sebbene Zee non glielo chiese direttamente i segnali non mancavano. Aveva dei brutti crampi allo stomaco e Michael fu pieno di premure, le rimboccò le coperte e le diede una borsa di acqua calda.

«Sei tanto caro con me», gli disse quando si chinò a baciarla.

«Sei la mia mogliettina. A proposito, Zee mi ha dato un consiglio utile. Quando ti sarai ripresa, dopo che avremo fatto l’amore, è bene mettere le gambe in alto, sopra un cuscino. Così si aiuta lo sperma a raggiungere gli ovuli».

Deglutì a vuoto: il pensiero che avesse parlato di questo con sua madre le dava la nausea.

«Michael... io non sono tanto sicura di voler avere un bambino così presto. Insomma, voglio dei figli, sì, ma prima vorrei abituarmi un po’ meglio alla vita di coppia».

«Ma certo!», disse lui con fervore. «Ma ci riuscirai prestissimo, credimi. Se poi per caso dovesse accadere anche quell’altra cosa, allora la natura avrà deciso per noi e tu ne sarai contenta. Adesso fa’ un pisolino, ti sveglio io all’ora del tè».

Ma non dormì. Restò distesa a domandarsi inquieta perché ci tenevano tanto a una gravidanza, e perché invece lei non la desiderava affatto.

Il resto della settimana passò tra musica, Michael che le faceva un nuovo ritratto e iniziava un dipinto a olio, scherzi, giochi coi vicini, un ballo, il Giudice che leggeva a voce alta per lei e tutti che la trattavano con tenera e giocosa indulgenza: era la sposa bambina, diletta e vezzeggiata. La conversazione a tavola era brillante: le battute in famiglia richiedevano una cultura maggiore e un vocabolario più ricco di quelli in suo possesso. Chiese al Giudice, che aveva preso a chiamare Pete, di farle una lista di libri da leggere.

«Lo hai reso felice», le disse Michael mentre si vestivano per cena, quella sera. «Ti sei inserita perfettamente nella mia famiglia, tesoro».

«Come fai a sapere che gliel’ho chiesto?».

«Me lo ha detto mamma. La tua richiesta l’ha commossa».

Ogni volta che veniva qualcuno, a pranzo o a cena, chiedeva a Michael della sua nave e lui si lanciava sempre in lunghe risposte. Notò tuttavia che ogni volta che Michael si metteva a elencare i superiori pregi dei fucili Oerlikon rispetto ai Bofors e ai Rolls, Zee lo ascoltava rapita, come fosse la prima volta che lo sentiva fare quel discorso. Dentro di sé trovava noiosissime quelle conversazioni, più noiose ancora di quando si parlava della guerra in generale, della battaglia di Stalingrado che era su tutti i giornali e dei bombardamenti in Germania.

In quell’arco di tempo, che era durato peraltro solo due settimane, l’euforia, come una foschia calda, aveva oscurato ogni altro sentimento: aveva sposato il suo splendido e nobile Michael il quale, così adulto e valoroso com’era, aveva voluto proprio lei. Era inebriante per una persona che non aveva mai pensato un gran bene del proprio aspetto né del proprio intelletto, per una persona che sentiva di non aver ricevuto un’istruzione adeguata sentirsi dire da mattina a sera quanto fosse bella, brillante, piena di talento. Era una favola e lei era la fortunata principessa che a soli diciannove anni aveva già trovato il suo lieto fine e si apprestava a vivere per sempre felice e contenta.

Lasciarono Hatton al termine della settimana e andarono a Londra in treno. Michael doveva andare all’ammiragliato, e decisero d’incontrarsi dopo alla Waterloo Station.

«Tu come passerai il tempo, cara?».

Non ci aveva pensato. «Me la caverò. Potrei fare un salto da Stella, ma da Pitman non gradiscono che gli studenti abbiano ospiti. Se non riesco a vedermi con lei, andrò alla National Gallery».

«Hai del denaro?».

«Oh, no. Temo di no».

S’infilò una mano nella tasca dei pantaloni e ne estrasse un fascio di banconote. «Ecco».

«Non me ne serve così tanto!».

«Non si sa mai. Potresti averne bisogno. Alla valigia ci penso io».

Si baciarono. Fu bello (e non sapeva ancora quanto) separarsi da lui sapendo che si sarebbero visti di lì a poco.

Provò a chiamare Stella da una cabina telefonica ma non la trovò, così andò alla National Gallery dove Myra Hess e Irene Sharrer stavano suonando due pianoforti. Nell’intervallo, mentre si comprava un panino, vide Sid parlare con un uomo molto anziano con folti capelli bianchi e il bastone. Stava per avvicinarsi per farsi riconoscere quando vide una donna più giovane, una ragazza che poteva avere solo qualche anno più di lei, appoggiata al muro in fondo al buffet e intenta a fissare Sid con una così intensa, sognante devozione che a Louise venne quasi da ridere. Doveva avere, immaginò, quella che zia Jessica chiamava una cotta. In quel momento Sid la riconobbe e le fece un cenno.

Fu presentata al signore dai capelli bianchi come Louise Hadleigh e lui disse di averla già vista.

«Ha sposato il figlio della mia vecchia amica Zinnia Storey, qualche settimana fa. Come sta Zee? Ormai è sempre in campagna, ci vediamo molto di rado».

Per stringerle la mano, lasciò cadere il bastone. Nello stesso istante, la ragazza poggiata al muro fece un balzo, si chinò e lo raccolse.

«Che gentile!».

La ragazza arrossì – Louise si accorse che aveva la fronte umida – e Sid disse: «Ottimo tempismo, Thelma», e la presentò agli altri come una sua allieva. Poi finì l’intervallo e tutti defluirono fuori dal seminterrato, dove erano stati serviti i panini, per tornare in sala ad ascoltare il concerto.

«La prego, porti i miei saluti a Zee», disse il distinto signore e lei gli sorrise e rispose di sì, che l’avrebbe fatto. Tuttavia, poiché non sapeva quando avrebbe visto Zee e non aveva la minima idea di come si chiamasse quel tale, non c’erano molte possibilità che lo facesse davvero.

Finito il concerto, compreso l’atteso e magnifico bis in cui eseguirono Jesus, Joy of Mans Desiring, si chiese cosa fare adesso. Il museo non esponeva più: le opere erano state portate tutte in uno o più luoghi sicuri. Uscì in Trafalgar Square. C’era il sole ma non faceva caldo: il cielo era di un azzurro puro e freddo, interrotto solo dallo sbarramento di palloni antiaereo che fluttuavano sereni e scintillanti come enormi giocattoli. Mancavano due ore al treno e non sapeva come impiegarle. Michael le aveva dato un fascio di banconote, dovevano essere almeno dieci sterline: era ricca e libera – sennonché di colpo l’assalì l’angoscia. Che ne sarà di me? Che ci faccio qui? Che cosa devo fare? Un fuoco di fila di piccole, rapide domande irrazionali, che sembravano venute dal nulla e che svanivano dalla sua coscienza solo perché continuamente incalzate da altre. Rispondere a una sola di esse, o anche rifletterci un momento, emanava un senso di assoluto pericolo: non si azzardò a provarci. Doveva fare qualcosa, pensare ad altro. Andrò in una libreria a comprarmi dei libri, risolse, e così si sforzò di essere positiva e ragionevole e prese l’autobus per Piccadilly Circus che fermava davanti a Hatchard’s.

Quando alcune ore dopo fermò un taxi per andare a Waterloo, dopo aver comprato tre libri, il suo spirito era sollevato. Non stava andando nel Sussex per essere criticata da sua madre e mandata di qua e di là a fare commissioni noiose. Stava prendendo il treno con suo marito e poi il battello per l’Isola di Wight dove sarebbero scesi in un hotel, una cosa che in vita sua non aveva ancora mai fatto. Era di nuovo Mrs Hadleigh e non la sconosciuta che era stata colta da una sciocca crisi di panico sui gradini della National Gallery. Le dispiaceva non aver visto Stella, questo sì, ma le avrebbe scritto.

Scoprì in fretta però che la vita in quell’albergo, e di conseguenza in qualunque altro albergo a Weymouth o a Lewes, era ben diversa da come se l’era immaginata. Michael se ne andava alle otto del mattino e lei restava da sola tutto il giorno, tutti i giorni, senza niente da fare. Il Gloster Hotel aveva un altro svantaggio, aggravato dal fatto che all’inizio le era parso un lusso inaudito: servivano aragoste a pranzo e a cena. Di tanto in tanto c’era anche una pietanza alternativa, di solito non particolarmente allettante, ma dopo una settimana Louise cominciò a ordinarla, qualunque cosa fosse. Se dopo un po’ di tempo le aragoste le erano venute a noia, ora le detestava. Leggeva, andava a passeggio in città; le strade brulicavano di soldati e i fischi e i commenti, proferiti a bassa voce ma comunque volgari, la intimidivano. Poi un giorno entrò da un fruttivendolo per comprare delle mele e senza il più piccolo preavviso cadde, in mezzo ai sacchi di juta odorosi di terra. C’era qualcuno chino su di lei, che le diceva cose rassicuranti e le chiedeva dove abitasse, ma lei non riusciva proprio a pensare. Aveva il capo poggiato su un sacco di patate e si era smagliata una calza. Le diedero dell’acqua e si sentì un po’ meglio. «Il Gloster Hotel», disse. «Posso andarci a piedi». Ma una signora gentile volle accompagnarla fin lì, prendere per lei la chiave della camera e scortarla di sopra. «Io mi stenderei un poco, se fossi in lei», disse quando Louise la ringraziò. Dopo che la donna se ne fu andata, lei si allungò sul letto, sopra la trapunta scivolosa. Secondo il suo orologio d’oro, dono del Giudice, erano solo le undici e mezza. Michael sarebbe tornato non prima delle sei del pomeriggio. Provò un senso di sgomento e una violenta nostalgia di casa. Si mise a piangere, si soffiò il naso col grosso fazzoletto bianco di Michael e restò a letto. Che motivo aveva per alzarsi?

Dopo quell’episodio, restò a letto tutte le mattine a guardare Michael che si radeva e si vestiva con fretta crudele e a pregare che accadesse qualcosa che gli impedisse di andarsene. La sua nave era una motosilurante nuova, ancora in cantiere in una darsena sul fiume Medina, e lui aspettava con euforia di salire a bordo e sfruttarne tutte le potenzialità. Ogni sera tornava a casa pieno di entusiasmo per i progressi nella costruzione (Louise aveva imparato a parlare della nave come di un’entità femminile: lei, ma dentro di sé non la considerava che un oggetto inanimato). Cenavano, andavano a letto e facevano l’amore, sempre allo stesso identico modo, con Louise che faceva buon viso a cattivo gioco. Non gli diceva mai quanto si sentiva sola e senza uno scopo, quanto si annoiava insomma, perché aveva vergogna di quei sentimenti. Non c’erano altre mogli di ufficiali di Marina in albergo, non c’erano proprio donne, anzi: la gente andava e veniva. Loro erano gli unici ospiti stabili. Quando gli raccontò del suo svenimento dal fruttivendolo, lui sorrise e disse: «Oh, cara! Non sarai mica...».

«Cosa?». Sapeva benissimo a cosa si riferiva, ma la semplice idea la atterriva a tal punto che voleva procrastinare il più possibile.

«Cara! Un bambino! Proprio ciò che desideriamo».

«Non so. Può darsi, immagino. Gli svenimenti sono un sintomo, sì, e anche le nausee mattutine. Ma io ultimamente non ho sofferto di nausea».

Poco tempo dopo conobbe un’altra moglie di un ufficiale navale, una signora molto più anziana il cui marito era comandante di un cacciatorpediniere e che le propose di aiutarla alla Mission to seamen. «Siamo sempre a corto di volontari», le disse. «Vedrà che troveremo un lavoro adatto a lei».

Da quel giorno, dalle nove del mattino fino a mezzogiorno, aiutava in mensa oppure rifaceva le brande, che erano un’infinità. Se necessario, bisognava togliere le lenzuola che di solito erano grigiastre e nascondevano bottiglie di birra, calzini vecchi e altri detriti. In quel periodo cominciò ad avere la nausea al mattino. Quando Marjorie Anstruther la sorprese a vomitare dentro un lavandino, la spedì a casa a riposare con l’aria di chi la sa lunga e le disse che era stata davvero eroica a resistere. E quella fu la fine. Era effettivamente incinta, e poco a poco riuscì a ficcarsi in testa che era giusto così: se una si sposa e non ha niente da fare, tanto vale che metta al mondo dei figli. Sebbene la prospettiva la riempisse ancora di sgomento, riuscì a fingersi contenta, e molto presto ricevette una lettera da Zee che si diceva lietissima della novità (che Michael prontamente le aveva comunicato al telefono).

Passava le mattinate a letto in preda alla nausea e dando di stomaco di tanto in tanto, ma a mezzogiorno, puntuale come un orologio, un aereo da ricognizione tedesco raggiungeva l’isola e si dirigeva verso Portsmouth, al che tutte le navi ormeggiate a Cowes mettevano in opera l’artiglieria pesante. Non colpivano mai il velivolo nemico ma facevano un gran baccano, e Michael le aveva detto che in quei casi, per sicurezza, era meglio che scendesse al pianterreno. Così ogni volta si buttava sulle spalle il soprabito e scendeva le scale circospetta, sfidando i nauseanti miasmi di aragosta bollita provenienti dalla cucina, fino all’atrio dove dal soffitto cadevano pezzi di vetro sul pavimento a piastrelle, e lei passava il tempo seduta a leggere vecchi numeri dell’«Illustrated London News». Dopo una quindicina di minuti l’aereo si allontanava. Allora tornava in camera e qualche volta prendeva le sue cose e si avviava lungo il corridoio per farsi un bagno. I pasti consumati in solitudine nella sala da pranzo dell’albergo diventarono presto una prospettiva avvilente, così prese l’abitudine di frequentare una pasticceria in paese dove mangiava brioche e paste salate, in genere molto dure, farcite solitamente di patate e cipolle. Si ritrovò presto a corto di letture, ma c’era una libreria dove passava ore a sceglierne di nuove, e nessuno se ne risentiva. Lesse i romanzi di Ethel Mannin, G.B. Stern, Winifred Holtby e Storm Jameson, poi un giorno s’imbatté in una copia di seconda mano di Mansfield Park. Fu come incontrare un vecchio amico e non resistette: lo comprò. In seguito se li comprò tutti, anche se nel Sussex aveva già una copia di ognuno di quei romanzi. La assorbivano e la consolavano come nessun’altra cosa e li lesse tutti due volte. Le sue lettere a Stella parlavano perlopiù di quelle letture. In fondo a una di esse scrisse: «A proposito: sono incinta!». Mise il punto esclamativo per farla sembrare una notizia eccitante. Aveva pensato di parlare con Stella dei suoi sentimenti riguardo alla gravidanza, di com’era adesso la sua vita, ma scoprì che non poteva farlo. Confidarsi con Stella significava riflettere seriamente sulla situazione, e lei si sentiva troppo confusa e incerta su tutto. Inoltre temeva che, se lo avesse fatto, le cose le sarebbero apparse con una chiarezza che poteva risultare intollerabile. Fintanto che recitava la sua parte (ed era davvero innamorata di Michael: ne era la prova la sua sofferenza nel vederlo partire al mattino e l’ansia con cui attendeva il suo ritorno), sarebbe stato un tradimento dire che si trovava in difficoltà o che si annoiava.

«Le persone intelligenti non conoscono la noia», le aveva detto Zee a Hatton, durante la luna di miele. «Sei d’accordo, Pete?». E il Giudice aveva replicato che la noia era indice di una certa mediocrità. E lei non doveva mai essere mediocre.

A metà novembre la nave di Michael fu pronta e Zee e il Giudice vennero a Cowes per una notte, perché lei era ospite d’onore alla cerimonia del varo. Furono prenotate due stanze in albergo e Michael uscì dal lavoro in anticipo per andare ad accoglierli a Ryde, dove approdava il traghetto.

Andarono a cena al Royal Yacht Squadron, un posto di gran lusso, ospiti di un ammiraglio amico di Zee.

«Louise, piccola cara! Hai un aspetto magnifico! Pete ti ha portato la sua lista di libri».

Fu servita l’immancabile aragosta e Michael si mise a parlare della sua nave con fervore inesausto. «Non vedo l’ora di vederla!», esclamò Zee, e Louise si accorse che Michael era raggiante. Si capiva che l’ammiraglio, che tutti chiamavano Bobbie, aveva detto di non poter essere presente al varo, ma prima della fine della serata Zee riuscì a fargli dire che sì, sarebbe venuto.

La mattina dopo però Louise, oltre a una nausea particolarmente violenta, aveva anche la gola infiammata e qualche linea di febbre.

«Povero tesoro! Restatene a letto. Non posso permettere che ti ammali. Ti faccio portare la colazione in camera». Dopo una lunga attesa vennero a portarle del tè in una teiera di ferro, due fette di pane duro e un pezzetto di margarina giallognola. Il tè aveva un sapore metallico e il pane non riuscì nemmeno ad assaggiarlo. Era davvero troppo! Proprio quando finalmente stava per succedere qualcosa, ecco che lei non poteva partecipare e le si prospettava un’altra cupa giornata di solitudine, resa ancora più infernale dal fatto che si sentiva a pezzi. Si alzò dal letto solo per andare in bagno, un gelido interludio perché nella stanza non c’era riscaldamento. Si mise una sottoveste e dei calzini e s’infilò di nuovo sotto le coperte con dell’aspirina, che la fece addormentare.

Michael rientrò la sera dicendo che avrebbe dormito a bordo, dato che la nave iniziava il collaudo l’indomani di primo mattino. Zee e il Giudice erano ripartiti, ma la mamma era stata meravigliosa alla cerimonia del varo e avevano consumato un pranzetto coi fiocchi.

«Povero tesoro, hai ancora l’aria sbattuta! Mrs Watson ha detto che ha mandato su una persona a vedere se volevi mangiare, ma tu dormivi. Ti faccio portare la cena?».

«Non puoi cenare con me?».

«Temo di no. Mi aspettano a bordo. Il comandante di flottiglia si siederà a tavola con noi».

«Ma dopo torni?».

«Tornerò domani sera, credo. Te l’ho detto, cara, durante il collaudo la vita sarà frenetica. Non riuscirò a venire a dormire qui ogni sera. Siamo molto fortunati, sai?».

«Davvero?».

Stava radunando l’occorrente per radersi, infilando il tutto in una borsa di cuoio nera nuova di zecca.

«Ma certo. Il mio superiore non vede la fidanzata da Natale. Il nostro timoniere non ha ancora visto il suo ultimo nato, che ha quasi sei mesi ormai. Non dico che tutto questo sia giusto, e io voglio che tu abbia tutte le fortune del mondo, ma non fa male essere consapevoli dei proprio privilegi. La maggior parte degli ufficiali di mia conoscenza non possono permettersi di far alloggiare la propria moglie in albergo. Sai dov’è il mio pigiama?».

«Temo di no». Era talmente affranta al pensiero di un’altra notte e poi di un’intera giornata di completa solitudine, che la sua voce suonò corrucciata.

«Sarà pure da qualche parte! Per favore, pensaci un momento».

«Be’, di solito la cameriera lo mette sotto il cuscino dopo che ha rifatto il letto. Stamattina però non è proprio venuta».

«Va bene. Ne prenderò uno pulito».

Ma quando lo trovò, vide che non aveva quasi più un bottone.

«Accidenti! Cara, potevi anche darci un’occhiata quando li hanno riportati dalla lavanderia. Non mi pare che tu abbia poi tanto da fare».

«Posso sistemarlo adesso, se vuoi».

«I bottoni non ci sono più. Dovrai procurarteli».

Prese la spilla con lo stemma del Royal Yacht Squadron, regalo dell’ammiraglio per celebrare l’ingresso di Michael come membro onorario. «Credo di essere l’unico ufficiale di Marina che la usa per chiudersi il pigiama. Ora devo proprio andare». Si chinò a baciarle la fronte. «Cerca di stare allegra. Non buttarti giù». Sulla porta, le mandò un altro bacio. «Sei così carina!».

Dopo che fu andato via e lei fu sicura che non sarebbe tornato, si mise a piangere.

Le aveva suggerito, una volta guarita, di andare a casa dei suoi per un po’, il tempo che terminasse il collaudo. «Poi, quando saprò dove ci hanno assegnati, potresti raggiungermi».

Non sollevò obiezioni. La nostalgia di casa era tornata ad assalirla quasi con la stessa violenza di quando era bambina, e aveva già passato molte mattinate sola nel letto a pensare con rimpianto alla vecchia casa un po’ cadente ma familiare, sempre così piena dei suoni delle mille cose che vi succedevano: il sibilo sincopato del battitappeto, il ronzio dei dischi – The Grasshoppers Dance, The Teddy Bears Picnic – che giravano sul grammofono nella stanza dei piccoli, il brontolio monotono del Generale che dettava i suoi scritti, il mormorio come d’insetto della macchina per cucire della Duchessa, gli odori di caffè, di ferro da stiro, dei ceppi che ardevano pian piano, della cera d’api...

Apriva con la mente la porta di ogni stanza e collocava in ognuna un membro diverso della famiglia. Tutte le cose che in passato la irritavano o la annoiavano, ora le apparivano care, belle, necessarie. La passione di zia Dolly per la naftalina, la convinzione della Duchessa che per le scottature non ci fosse niente di meglio della cera di paraffina calda, la tenacia di Polly e Clary nel non mostrarsi impressionate dalla vita tanto più da adulta che conduceva lei, l’incredibile capacità di Lydia di imitare alla perfezione chiunque; e poi Miss Milliment che era sempre uguale ma anche sempre un po’ più vecchia, con la sua voce gentile, il doppio mento sempre più cadente, i vestiti eternamente macchiati di cibo, ma con quegli occhietti grigi, ingranditi dagli occhiali con la sottile montatura ferrigna, sempre così penetranti. E in stridente contrasto zia Zoë, che riusciva a essere elegante qualunque cosa indossasse e a cui gli anni trascorsi in campagna non avevano tolto un briciolo di bellezza e buon gusto; e la cara zia Rach! Per lei il più bello dei complimenti era “pratico”: «un cappello così pratico», «una madre dotata di grande senso pratico». «Ti farò un regalo molto pratico», le aveva detto. «Tre set di lenzuola doppie». Quelle lenzuola ora erano a casa, insieme agli altri numerosi regali di nozze, in attesa che Michael mettesse a disposizione una casa per sé e sua moglie, Dio solo sapeva quando. Forse era la guerra che rendeva tutto così strano. Il periodo alla scuola per signorine e poi quello con la compagnia di repertorio erano stati dei chiari espedienti per allontanarsi da casa – un modo per crescere e prepararsi alla sua grande carriera sulle scene. Il matrimonio invece aveva stravolto tutto, in tanti modi che non aveva minimamente previsto. Una volta sposata, l’essere andata via di casa diventava un dato di fatto irreversibile. Quanto alla carriera, non solo non c’era motivo di credere che la guerra fosse prossima alla fine, circostanza nella quale supponeva di poter ricominciare a recitare, ma c’era anche il problema dei figli. Sua madre aveva abbandonato la danza quando si era sposata: non aveva ballato mai più. Si chiese per la prima volta come lo aveva vissuto, se le era dispiaciuto o se aveva semplicemente scelto di essere moglie e madre. Per qualche ragione nel suo nostalgico fantasticare su Home Place e sulla sua famiglia, non poteva e non voleva includere i suoi genitori: c’era qualcosa, qualcosa che non voleva mettere a fuoco e che le dava un vago senso di disagio... Sapeva che nelle settimane precedenti alle nozze aveva temuto la compagnia di sua madre tanto quanto quella di suo padre, anche se per motivi molto diversi. Certo, si era sentita un po’ in colpa, perché sua madre si era prodigata moltissimo per le nozze. Aveva dimostrato infinita pazienza alle prove dell’abito nuziale e dei suoi pochi altri vestiti, le aveva regalato parte delle sue tessere, le aveva perfino chiesto se voleva che la sua amica Stella le facesse da damigella. Stella non aveva voluto – aveva declinato l’offerta in modo gentile ma fermo –, e allora il problema era stato decidere tra le ragazze: alla fine la scelta era caduta su Polly, Lydia e Clary. Sua madre aveva realizzato i loro abiti di tulle bianco insieme a Zoë e alla Duchessa, e poi li aveva messi a bagno nel tè, il che aveva conferito loro un caldo color panna. Nei negozi di Londra si trovava ancora del nastro di pura seta. Zia Zoë aveva scelto i colori – rosa, arancio e rosso scuro – e aveva cucito insieme le strisce realizzando delle fusciacche. Gli abiti erano di taglio semplice, a vita alta, con ampie scollature tonde e spesse gale in fondo – delle piccole Gainsborough, aveva detto il Giudice vedendole fuori dalla chiesa. C’era stato un mucchio di lavoro nel breve periodo tra il fidanzamento e le nozze ed era ricaduto quasi interamente sulle spalle di sua madre. Ma accanto alla solerzia nell’organizzare, scrivere, negoziare e discutere, aveva colto qualcosa nel comportamento di sua madre che le risultava semplicemente intollerabile: così era diventata fredda, scostante, sgarbata; s’innervosiva se le venivano poste le domande più semplici e pertinenti e poi se ne vergognava, ma per qualche ragione non riusciva a chiedere scusa. Alla fine scoprì di che si trattava: la sera prima delle nozze sua madre le domandò se sapeva “come funzionava”. Aveva risposto immediatamente di sì, che lo sapeva. Sua madre aveva sorriso imbarazzata e aveva detto che in effetti si aspettava che Louise avesse imparato quel genere di cose in quella sua orribile scuola di recitazione, poi aveva aggiunto che le sarebbe dispiaciuto se fosse entrata impreparata nella vita matrimoniale. Ogni allusione faceva sembrare tutto più nauseante, e si capiva che le allusioni erano solo la punta dell’iceberg. In preda a una febbre di ripulsa e rabbia, si era convinta che per tutte quelle settimane sua madre non avesse avuto altro per la testa e non avesse fatto che chiedersi, ruminare, immaginare lei e Michael a letto insieme, dando sfogo a una morbosa curiosità verso cose che non la riguardavano minimamente. (Come se uno si sposasse con una persona solo per andarci a letto!). Dopo quell’episodio sua madre non poté dire una parola che non si prestasse a turpi doppi sensi. Sì, doveva andare a letto presto, le serviva una buona dormita, perché domani sarebbe stato un gran giorno. «Devi essere fresca e riposata». Be’, aveva pensato dopo essersi rifugiata nella sua stanza a casa di zio Hugh, fra ventiquattr’ore me ne andrò lontano. Non dovrà ripetersi mai più.

Era riuscita a evitare di trovarsi sola con suo padre fino alla mattina delle nozze, quando lui si presentò che aveva appena finito di vestirsi, con in mano una piccola bottiglia di champagne. «Ho pensato che potevamo bere un bicchiere insieme», le disse. «Coraggio liquido!». Era molto elegante nel suo abito da cerimonia con la cravatta di seta grigio chiaro e una rosa bianca nell’asola. Louise si sentiva già piuttosto nervosa, e lo champagne le parve una buona idea.

Lui stappò la bottiglia e versò la schiuma in uno dei bicchieri. Li aveva messi sul tavolo da toeletta e adesso guardava il riflesso di lei nello specchio. Quando Louise se ne accorse, distolse subito lo sguardo e versò il vino per entrambi.

«Eccoti qua, mia cara», disse. «Ti auguro davvero tanta, tanta felicità».

Vi fu un breve silenzio mentre lui le porgeva il bicchiere. Poi le disse: «Sei... sei davvero bellissima». Lo disse in tono umile, quasi timido.

«Oh, papà!», disse, e si sforzò di sorridere, ma si sentiva le lacrime agli occhi. Non osarono dirsi altro.

«A mia figlia maggiore che oggi si sposa!», disse sollevando il bicchiere. Si sorrisero. Il passato stava in mezzo a loro come un coltello affilato.

Queste scene le tornarono in mente quando si ritrovò di nuovo nel Sussex. Ci pensava quando era sola e non recitava uno dei suoi personaggi.

«Ti senti diversa adesso che sei sposata?», le domandò Clary il primo giorno.

«No, non direi», aveva risposto calandosi prontamente nel ruolo della cugina più grande, altezzosa.

«Come mai no?».

La semplicità della domanda la disorientò.

«Perché dovrei?».

«Be’, ecco, tanto per cominciare non sei più vergine. Immagino che non mi dirai com’è, vero?».

«No».

«Lo immaginavo. So che gli scrittori debbono fare affidamento quasi sempre sull’esperienza diretta. Oppure sulle letture, che non è esattamente come sentirsi raccontare una cosa da una persona in carne e ossa».

«Fai troppe domande e sei morbosa. È disgustoso, sai?».

Ma Clary, essendo stata messa sotto accusa innumerevoli volte per la sua curiosità, ormai aveva imparato a difenderla.

«Non si tratta affatto di questo! Quando uno è davvero interessato alle persone e al loro comportamento, è curioso di tutto. Per esempio...». Ma in quel momento Louise vide Zoë che percorreva il vialetto in bicicletta e corse di sotto per parlarle.

«Ecco! Sono proprio stufa della gente che mi critica e poi non ascolta quello che ho da dire», borbottò Clary rivolta a Polly mentre aspettavano nella stanza dei piccoli che fosse pronta l’acqua nel bollitore di Ellen, così da riempire le proprie borse di acqua calda. «Non si tratta solo della sua verginità... sono altrettanto curiosa della vita dei prigionieri, delle suore, della famiglia reale, del parto, dell’assassinio, di tutte le cose che non mi sono capitate e forse non mi capiteranno mai!».

«L’unica che non ti capiterà mai è far parte della famiglia reale», puntualizzò Polly. Era abituata a quelle discussioni.

«Come dice la tua canzone preferita? Im so fond of pleasures that I cannot be a Nun».

«Non saprei dire se i piaceri mi piacciano o meno», disse Polly con aria affranta. «Non ne abbiamo conosciuti a sufficienza!».

* * *

Aveva deciso di non annunciare la sua gravidanza alla famiglia, ma già la prima mattina fu preda di una nausea tale che non riuscì ad alzarsi per fare colazione. Lydia fu mandata a vedere come mai non si alzasse.

«Non è niente. Devo aver mangiato qualcosa che mi ha fatto male».

«Oh, poverina! Sarà stato quello schifoso polpettone che abbiamo mangiato ieri sera. Sai cosa dice Neville? Che Mrs Cripps ci mette dentro topi e porcospini. Secondo lui è una strega, perché ha i capelli neri e la faccia che s’illumina al buio. Potrebbe averci messo anche i rospi, dopo averli schiacciati, capito? Neville dice che quella poltiglia che c’è all’esterno potrebbero essere rospi spappolati...».

«Oh, sta’ zitta, Lydia!».

«Scusa. Cercavo solo di capire cos’è che ti ha fatto male. Ti porto del tè?».

«Grazie, lo apprezzerei molto».

Ma al suo posto, col tè e il pane tostato, arrivò sua madre, la quale aveva capito al volo la situazione senza che Lydia dicesse una parola.

«Oh, cara! Che bella notizia! Michael lo sa?».

«Sì».

«Dev’essere molto felice».

«Sì... molto».

«Sei stata da un medico?».

«No».

«Be’, il dottor Carr è bravissimo. Mangia il pane tostato, anche senza niente sopra. Il pane e i biscotti secchi sono la cosa migliore per le nausee mattutine. Di quanto...?».

Circa cinque settimane, pensò tra sé. Sembrava già un’eternità.

Restò a Home Place per quasi un mese, e per allora il dottor Carr confermò che era incinta. Tutti davano per scontato che ne fosse felicissima. L’unica persona con cui arrivò quasi a confidarsi fu Zoë. La stava aiutando a mettere a letto Juliet. «Dalle da mangiare mentre metto a posto», le disse Zoë. Erano sole nella camera dei bambini: Ellen stava facendo il bagno a Wills e Roly.

Juliet era seduta sul seggiolone. Voleva mangiare da sola, ma le riusciva solo di inzaccherarsi senza che neppure un boccone le arrivasse alla bocca. «No, da sola...», ripeteva ogni volta che Louise cercava di prenderle il cucchiaio dalla mano.

«Dio, mio. Bisognerà lavarla di nuovo».

«Oh, basterà togliere i pezzi più grossi. Dovrà pur imparare...».

«Io non so niente di bambini».

Zoë le lanciò una rapida occhiata e attese che dicesse qualcos’altro, ma non lo fece. Ultimamente le capitava spesso di dover fare uno sforzo per non piangere.

«Ascolta», disse Zoë mentre la raggiungeva e si sedeva al tavolo, vicino a lei e al seggiolone. «Nemmeno io ne sapevo niente. Ed è terribile perché tutti sembrano dare per scontato che invece tu sappia tutto».

«E che tu sia al settimo cielo», aggiunse Louise con voce tremante.

«Esatto».

«Tu non lo eri?».

«La prima volta no. No. E dopo tutti hanno cominciato a dire che ne avrei avuto un altro, e io invece non lo volevo».

«Dopo però hai cambiato idea».

«Non allora, non subito. Aspetta, Jules, lascia che ti dia una pulita».

«Ma quando alla fine ho avuto lei... è stato meraviglioso. Rupert era scomparso, e lei è stata la mia salvezza. Avevo un tale terrore che gli succedesse qualcosa, ed è successa la cosa peggiore... ma allo stesso tempo, c’era Jules!».

«Cioccoata!».

«No. Prima sul vasino».

Ma Jules non voleva saperne. Si sdraiò sul pavimento, inarcò la schiena e si lanciò in una scenata grottesca.

Louise osservò Zoë mentre gestiva la crisi. Finalmente Jules fu sistemata sul vasino con un pezzetto di cioccolata in mano. «Alla fine è sempre un compromesso a cavarti d’impaccio».

«Zia Zoë... io...».

«Vorrei che non mi chiamassi zia... Scusa, dicevi?».

«Volevo solo dirti che non avevo mai pensato a... come deve essere stata dura per te».

«E come avresti potuto? Eri una bambina. E comunque per te è molto più dura. Io ero sposata da circa cinque anni, la prima volta. E a quel tempo Rupert non era in guerra. A te invece è toccato subito e tutto insieme».

Quella conversazione le fu di conforto, ma le mise anche addosso una nuova inquietudine: magari anche i suoi sentimenti, come quelli di Zoë, sarebbero cambiati una volta nato il bambino; d’altra parte si trovò per la prima volta a considerare la possibilità che Michael venisse ucciso.

Qualche sera dopo, quando lui telefonò come faceva di tanto in tanto, le disse che aveva una serata libera e che poteva raggiungerla nel Sussex. «Abbiamo avuto qualche problema al motore e la nave resterà in riparazione per uno o due giorni».

Si sentì il cuore leggero di felicità, tutti erano contenti per lei e la famiglia intera si dedicò ai preparativi per accoglierlo nel migliore dei modi. La Duchessa rimediò una coppia di fagiani per cena. Il Generale passò la mattinata a scegliere il porto e a farlo decantare; Polly ebbe una lite con Lydia che si era messa in testa di indossare, e di farlo fare anche a lei, l’abito da damigella per cena (a Polly sembrava una cosa molto inopportuna ma Lydia, che aveva voluto indossarlo a lezione, per il tè della domenica e qualche volta, in segreto, dopo aver fatto il bagno, era molto determinata). «È proprio la cosa adatta da indossare a una cena», disse. «A Michael ricorderà i vecchi tempi... il suo bel matrimonio e via dicendo».

«Tu non ci sarai, alla cena», le disse Polly.

«Sì, invece! Louise, mi farai venire, vero? Sono tua sorella!».

Ma prima che Louise potesse aprire bocca, s’intromise la loro madre per dire che purtroppo non se ne parlava nemmeno. I fagiani non bastavano per tutti: zia Dolly avrebbe cenato in camera e zia Rach aveva detto che il fagiano lo trovava un po’ indigesto e si sarebbe limitata alle verdure.

«Non posso stare a tavola e mangiare un uovo sodo?».

«No, non puoi. Miss Milliment mangerà nella stanza dei bambini. Ed è quello che farai anche tu».

«Ah, grazie tante. Davvero!».

«Basta così, Lydia. Ti ho detto mille volte di non essere sarcastica».

«Sarà solo una cena come tutte le altre», disse Clary dopo che Villy se ne fu andata.

«Non per me. Non ci sono mai cene, per me! Mi è andata peggio di tutti. A quanto pare a nessuno è venuto in mente che potremmo morire tutti sotto le bombe prima che io abbia l’età per godere del più piccolo privilegio. La mia sarà stata una vita sprecata».

Clary e Polly si scambiarono un’occhiata da donne mature già stanche della vita, poi le rivolsero parole di conforto. Louise aveva colto la nota di irritazione nella voce di sua madre e si trovò a solidarizzare con sua sorella. Lydia cercava solo di cambiare le regole: tutti i bambini lo facevano, lo aveva fatto anche lei, tanto tempo prima. Essere a casa la faceva sentire più vecchia, e però di un’età diversa da quella di tutti gli altri membri della famiglia.

Michael arrivò in treno quella sera stessa e Louise andò a prenderlo alla stazione con Tonbridge, che adesso le si rivolgeva chiamandola Madam. Guidò così piano fino a Battle che Louise temette di arrivare tardi, ma così non fu. Dovette aspettare un solo minuto accanto alla porta della biglietteria, poi il treno arrivò sferragliando. Era buio, ma dal treno partivano sottili lame e nastri di luce giallastra, mentre le porte si aprivano e alcuni passeggeri strizzavano gli occhi nell’oscurità nel vano tentativo di capire dove si trovassero. Nelle stazioni erano stati rimossi i nomi delle città ormai da così tanto tempo che la maggior parte della gente ci si era abituata e aveva imparato a contare le fermate, ma c’era sempre qualche forestiero che si guardava intorno con ansia.

«Che strano vederti qui!».

«Stavo pensando che con tutti i treni che prendo, ormai dovrei conoscere almeno qualcuno tra coloro che scendono».

Le mise il braccio libero intorno alle spalle, la strinse a sé, la baciò. «Non sai quanto sono felice di vederti. Come sta sua altezza?».

«Chi?».

«Il nostro bambino».

«Bene».

«Mia cara! Mi sei mancata».

Le tornò il senso di euforia, di felicità. Lui indossava il cappotto militare che emanava un leggero odore di gasolio, sale e canfora, col bavero sollevato intorno al collo; la targhetta del berretto rifletté un piccolo lampo di luce quando voltò la testa verso di lei. Si sedettero tenendosi la mano e intrattennero una conversazione da adulti per le orecchie di Tonbridge.

«Buone notizie, no? Il buon vecchio Monty...».

«Credi davvero che stiamo per vincere la guerra?».

«Be’», replicò lui. «Pare che il vento stia cambiando davvero, stavolta. I russi tengono duro a Stalingrado. Ma finora il miglior risultato è quello che abbiamo avuto in Nord Africa. C’è ancora tanta strada da fare».

«Cos’ha che non va la tua nave?».

«Abbiamo avuto problemi col motore di babordo. Ogni volta dicono di averlo sistemato e ogni volta torna a bloccarsi. Adesso devono fare una revisione come si deve. Poi ci sono stati anche altri problemi, naturalmente. Ma l’equipaggio se la cava bene. Turner, il piccoletto, mi ha dato del formaggio, ce l’ho in valigia. Ho rimediato anche un barattolo di burro. Spero di rendermi popolare».

«Lo saresti comunque», disse lei. «Non vedono l’ora di incontrarti. Lydia voleva mettersi l’abito da damigella in tuo onore! Potresti fare il ritratto a Juliet? Zoë ne sarebbe così contenta».

«Posso provare. Non è facile perché a quell’età non stanno fermi. La mia modella migliore sei tu. Juliet chi è?».

«La mia cuginetta più piccola».

«Oh, sì. Deliziosa! Ci proverò. Certo, il tempo non è molto».

«Quando devi rientrare?».

«Domani nel pomeriggio, purtroppo».

Ciò che non le disse subito e che venne fuori solo a cena, quasi incidentalmente, era che il giorno dopo non sarebbe andato sulla nave ma in Germania, per partecipare al bombardamento. «Vengono a prendermi a Lympne, che a quanto pare è l’aeroporto più vicino, ma è anche minuscolo per uno Stirling. Comunque hanno detto che possono farcela... Sarebbe magnifico», aggiunse quando Villy si offrì di accompagnarlo in macchina. «Sarebbe splendido avere qualcuno di famiglia da salutare alla partenza».

«Perché vai su un bombardiere? Non te l’hanno chiesto loro, vero?».

«No. Mi è sembrata una buona opportunità. E al momento una copertura mi serve. Ho detto che per me sarebbe stato utile fare quel viaggio. E loro hanno detto di sì».

L’orgoglio le impedì di far sapere ai suoi familiari che ne sentiva parlare per la prima volta. Ma quando furono soli in camera, mentre si spogliavano, gli disse: «Perché non mi hai detto niente?».

«Stavo per dirtelo. L’ho fatto».

«Non capisco perché tu voglia fare una cosa del genere! Potresti... potresti restare...».

«No, cara. Questo è molto improbabile. Dov’è il bagno? Ho perso l’orientamento».

Glielo indicò e lui ci andò. Rimasta sola, fu assalita da ricordi frammentari di notiziari recenti: «Scomparsi tre dei nostri aerei», «Due dei bombardieri non sono tornati alla base». Era una follia andarci se non doveva farlo per forza; ed era pericoloso eccome. Non era giusto da parte sua rischiare la vita di propria iniziativa, visto che era sposato e tanto ansioso di mettere su famiglia.

«Zee lo sa?», domandò al suo ritorno. (Questo forse l’avrebbe fermato. Era certa che Zee sarebbe stata contraria).

«Sì. Naturalmente l’idea non le piace, così come non piace a te. Anche lei mi vuole bene, lo sai. Ieri però mi ha abbracciato e ha detto: “Devi fare ciò che vuoi”... anzi», si corresse ripensando alla scena con un sorriso: «ha detto così: “Un uomo deve fare quello che deve fare”. Ah, che donna!».

«L’hai vista ieri sera? È venuta a Cowes allora?».

«No. È venuta a Londra per una notte. C’era una commedia di Jack che desiderava vedere».

«Jack?».

«Jack Prestley. Così ci siamo andati. Bella davvero. Entrambi abbiamo pensato a te, a quanto ti sarebbe piaciuta».

Era davvero troppo. Aveva avuto due... no, anzi, tre serate libere e aveva deciso di trascorrere la prima con sua madre e la terza a un bombardamento contro la Germania! Scoppiò in lacrime.

«Su, cara», disse. «Non devi rattristarti. Davvero, non devi. È la guerra, lo sai. Bisogna sempre fare cose che comportano un certo grado di pericolo, la guerra è così. Devi imparare ad avere coraggio».

Michael passò metà della mattina seguente a fare il ritratto a Juliet e l’altra metà a insegnare a Louise un codice in modo che, se fosse stato fatto prigioniero, potesse farle conoscere i suoi piani di fuga in lettere apparentemente innocue. Scrisse un compendio del codice nella sua bella grafia elegante e le disse di chiuderlo in un posto sicuro. «A meno che tu non riesca a impararlo a memoria», disse. «Quella sarebbe la cosa migliore».

Poi ci fu il pranzo, coniglio in fricassea e dolce d’uvaspina, ma lei non riuscì a mandare giù nemmeno un boccone mentre ascoltava stordita le solite chiacchiere su chi si sarebbe unito alla scorta che avrebbe condotto Michael all’aeroporto. Lydia voleva andarci a tutti i costi e Wills moriva dal desiderio di vedere un aeroplano, ma a Louise non interessava più di tanto, perché in un modo o nell’altro non avrebbe avuto la possibilità di stare sola con lui. Michael aveva con sé delle tessere per il carburante (evidentemente, pensò, aveva già messo in conto che gli avrebbero dato un passaggio); ebbe la netta sensazione che ogni decisione che pure la riguardava direttamente le restasse sconosciuta fino al momento in cui veniva attuata. Si sedette con lui sul sedile posteriore, mentre i bambini chiacchieravano e si azzuffavano su quello davanti. Di colpo era molto passiva, accettava quello che veniva, ma dentro si sentiva raggelata, terrorizzata. Fra un’ora, pensava, Michael se ne andrà e forse non lo rivedrò mai più. E lui non sembrava minimamente consapevole né preoccupato di ciò che questo avrebbe comportato. Che assurdità: poteva essere l’ultima ora che trascorreva con suo marito e lui la passava consultando una mappa, mentre qualcuno sul sedile davanti giocava a “è arrivato un bastimento carico di...“.

Alla fine arrivarono accanto alla pista di decollo battuta dal vento ma rilucente di erba verdissima, e tutti i passeggeri scesero dall’auto. Cadeva una pioggia leggera ma tenace. Michael fu accolto col saluto militare da un ragazzo in uniforme della RAF e furono tutti accompagnati in una baracca dove regnava il puzzo intenso di una stufa a petrolio, che dava un po’ di requie dal gelo.

C’era un ufficiale che annunciò di essere il comandante della stazione e si disse assai scettico circa le possibilità che uno Stirling potesse atterrare su quella pista. «Dubito fortemente che possano riuscirci».

Per un momento Louise sperò che l’atterraggio non riuscisse e che l’aereo sparisse all’orizzonte lasciando Michael a terra. Un secondo dopo però sentirono il rombo vibrante dei motori e in un tempo sorprendentemente breve l’apparecchio fu sopra di loro. Sembrava enorme. Descrisse un cerchio sopra le loro teste, toccò terra a un’estremità della pista e terminò la sua corsa all’altra estremità, superandola di poco col muso.

«Bene», disse lui. «Ci siamo. Non devo farli aspettare». Diede un bacio affettuoso alla suocera, si chinò a baciare sulla guancia Lydia, che sbatté le palpebre e arrossì, fece un cenno di saluto a Wills che fissava trasognato lo Stirling e infine si volse verso di lei, le mise le mani sulle spalle e le diede un bacio che sembrò finire prima ancora di essere cominciato. «Cerca di stare allegra, mia cara», le disse. «Ti chiamo domani, quando posso. Promesso».

Sua madre rimise in macchina i bambini: Wills aveva dato in escandescenze non appena aveva capito che non sarebbe salito sull’aereo. Lei restò in piedi a guardare Michael mentre saliva sul bombardiere, guardò mentre tiravano su la scaletta, guardò la porta o la botola o quello che era mentre si chiudeva facendo sparire Michael dalla sua vista, guardò l’immenso velivolo senza grazia mentre invertiva la rotta e iniziava la sua corsa lungo la pista.

«Il vento soffia a est», le disse il comandante, «supereranno la costa e poi torneranno a sorvolarci. Potrà fargli un altro saluto».

Così attese qualche minuto per potergli rivolgere quell’ultimo cenno, senza avere nessuna certezza che lui l’avrebbe vista o che avrebbe guardato nella sua direzione.

Sua madre fu molto gentile e non sbagliò una parola: disse che doveva essere dura per lei, ma non aggiunse altro.

Lydia desiderava andare a fare merenda in una sala da tè a Hastings. «Dato che abbiamo fatto tutta questa strada... Sarebbe così bello!».

Villy si voltò a interpellare Louise che era seduta accanto a lei. «Tu vuoi andarci, cara?».

Scosse il capo. Come ormai le capitava sovente, era pericolosamente vicina alle lacrime.

«Andiamo a casa, allora».

Fecero il viaggio di ritorno in una luce crepuscolare, e quella sera Louise rimase col resto della famiglia ad ascoltare il notiziario. «La flotta francese è stata affondata dal proprio equipaggio al porto di Tolone», fu la notizia d’apertura, ma alla fine passarono a parlare dei pesanti bombardamenti su Kiel e Colonia. Si rese conto che non avrebbe avuto notizie dell’operazione in cui Michael era coinvolto fino a che lui stesso non le avesse telefonato. Anche se alcuni aerei fossero risultati scomparsi, non dovevano per forza avere a che fare con lui. Presto tutte le premure e i gesti di conforto che la famiglia le prodigava le diventarono intollerabili e corse a letto a farsi quello che i suoi avrebbero definito “un bel pianto”. Aveva paura che Michael non l’amasse e che potesse restare ucciso.