La famiglia
Aprile-agosto 1944

«Oh, no! Come vorrei che non avesse risposto lui al telefono!».

Rachel rivolse a sua madre un’occhiata sgomenta. Era davvero angosciata, e tormentava il minuscolo fazzoletto di pizzo con le dita violacee (aveva sempre avuto problemi di circolazione).

«Che ha fatto stavolta?».

«Ha invitato a cena il generale Anderson e la moglie. Di nuovo».

«Ma sono venuti appena dieci giorni fa!».

«Ciò non ha impedito loro di accettare. Mrs Anderson ha perso la sua cuoca, perciò fa i salti di gioia quando riceve un invito».

«E lui pure, visto quant’è noiosa sua moglie. Non importa. Rifaremo il coniglio e di verdura nell’orto ne abbiamo in quantità».

«Potremmo spostare il telefono. Magari non se ne accorge. Se lo togliamo dallo studio non avremo di continuo queste scocciature. Mrs Cripps ha già tanto da fare».

«Ci rimarrebbe male. Crede che il telefono sia suo. Potremmo semmai prendere un altro apparecchio e metterlo da qualche parte, immagino».

«Oh, no. Questo non sarà necessario». La Duchessa aveva sempre reputato il telefono un lusso per gente pigra e decadente, e a suo tempo aveva insistito perché fosse installato nel corridoio che portava in cantina, di modo tale che chiunque lo usasse dovesse starsene in piedi in quello che era probabilmente il punto più gelido della casa. Alla fine l’aveva avuta vinta il Generale, e adesso che era cieco stava tutto il giorno seduto alla scrivania in attesa di sentirlo squillare.

«Be’, mi toccherà affrontare Mrs Cripps, allora. Due piatti in più non basteranno. Ce ne vorranno almeno tre».

«Vuoi che imbuchi io le tue lettere?».

«Non sono mie. Sono di Dolly. Si è messa scrivere a tutte le sue amiche d’infanzia, alcune delle quali sposate, quasi tutte morte. Guarda qua! Mabel Green, Constance Renishawe, Maud Pemberton... su alcune non ha nemmeno scritto l’indirizzo!».

«È una cosa che la tiene occupata e di buonumore».

«Ma nessuno le risponde mai! Mi chiede di continuo, più volte al giorno, se c’è posta per lei. Mi fa così tanta pena che una volta o l’altra le scriverò io! Spero tanto, mia cara, di non soccombere alla vecchiaia e di non darti mai di questi problemi».

Rachel la rassicurò, perché naturalmente – ci pensava mentre camminava sul vialetto e poi giù per la collina verso la cassetta della posta – non c’era nient’altro che potesse fare. Il fatto era che in quella casa il rapporto tra la popolazione anziana e quella giovane cominciava a essere fortemente sbilanciato verso la prima. Ognuno aveva i suoi acciacchi: i reumatismi di Ellen erano andati peggiorando al punto che aveva serie difficoltà a salire e scendere le scale e in generale non aveva più l’energia per stare dietro ai bambini che le venivano affidati. Mrs Cripps aveva problemi alle gambe: le pesanti calze contenitive bastavano a malapena a tenere a bada le varici, e la Duchessa viveva nel terrore costante che una bella mattina la sua cuoca le annunciasse che non ne poteva più. McAlpine non solo era tormentato dall’artrite, ma aveva perso praticamente tutti i denti, e siccome si rifiutava di mettere la dentiera che gli era stata procurata o anche solo di seguire una dieta adatta, soffriva di frequenti attacchi di indigestione che lo rendevano ancora più irascibile. Il Generale, oltre a essere ormai cieco, aveva i bronchi sempre più affaticati, e i sigari che si ostinava a fumare non erano certo d’aiuto; quell’inverno l’aveva passato in gran parte a letto con la bronchite e un paio di volte gli era venuta pure la polmonite e si era salvato solo grazie a quella nuova medicina miracolosa, la sulfapiridina. La Duchessa si manteneva invece miracolosamente in forma: malgrado la sua età – compiva quell’anno settantaquattro anni – aveva sempre i capelli di un bel grigio scuro e la schiena ben dritta, ma Rachel si era accorta che tendeva ad agitarsi anche per piccole difficoltà e per gli inevitabili inconvenienti della vita domestica in tempo di guerra. Miss Milliment, di cui nessuno conosceva l’età esatta ma Villy e Rachel pensavano potesse essere intorno all’ottantina, era diventata di punto in bianco molto debole d’orecchio, circostanza che faceva di tutto per nascondere. Continuava a fare la sua parte insegnando ai bambini più piccoli la mattina e leggendo per il Generale il pomeriggio, ma andava a letto subito dopo cena e la domenica mattina tendeva a restare coricata sempre più a lungo. La si vedeva ancora passeggiare senza una meta precisa, ma Rachel si era accorta che, se per caso urtava qualcosa, faceva piccole smorfie di dolore – i piedi, forse? In casa c’erano ancora quattro bambini: Wills, Roly e Juliet che avevano rispettivamente sei, cinque e quattro anni e da cui non ci si poteva aspettare un aiuto concreto, nonostante Ellen affidasse spesso loro piccoli compiti; e poi c’era Lydia, che aveva tredici anni e durante il semestre se ne stava perlopiù da sola, anche se giocava ancora con Neville quando era in casa. Non le si poteva chiedere di fare la stessa commissione due giorni di seguito. Nel mezzo c’erano Villy, una presenza indispensabile, e Tonbridge, il quale si era assunto un certo numero di piccole incombenze non certo comprese tra le mansioni di uno chauffeur (non batteva ciglio se gli si chiedeva di imbiancare il retrocucina per Mrs Cripps, ma detestava tutti i lavori che avessero a che fare coi cavalli, che gli mettevano una gran paura; del resto, adesso che il povero Wren se ne era andato, qualcuno doveva pur dare loro da mangiare e da bere, oppure abbatterli, e di quest’ultima opzione il Generale non voleva nemmeno sentir parlare). Zoë non era di grande aiuto. A Rachel aveva sempre fatto un po’ pena: prigioniera in campagna, ignara della sorte del marito. Per un po’ di tempo aveva lavorato nella clinica per convalescenti in fondo alla strada, ma per qualche ragione aveva smesso, e adesso andava di frequente a Londra per vedere una vecchia amica sposata che abitava in città, e lasciava Juliet con Ellen. Rachel non riusciva a non considerarlo un comportamento un po’ egoista, anche se si sforzava di trovare tutte le giustificazioni possibili per Zoë: non aveva ancora trent’anni, ben poche occasioni di divertimento, e aveva tutto il diritto di coltivare qualche amicizia al di fuori della famiglia. Tuttavia per Ellen era dura occuparsi da sola di Juliet, che era una bambina molto vivace, e Zoë quando era a casa dormiva fino a tardi la mattina e si dichiarava spesso troppo stanca per accompagnare i bambini a fare la passeggiata pomeridiana.

Certo, avevano sempre le impagabili Eileen e Lizzie – quest’ultima dava una mano nelle faccende quando non lavorava con Mrs Cripps – che erano un aiuto fondamentale. E io, che faccio del mio meglio, pensò, ma potrei fare assai di più se non avessi la schiena a pezzi. In realtà era difficile pensare a cosa avrebbe potuto fare di più nell’arco della giornata, anche se la sua schiena fosse stata sanissima. Si occupava di zia Dolly, la quale aveva raggiunto una fase nella quale un’intatta mobilità unita alla totale perdita di memoria la rendevano un pericolo costante per se stessa e una fonte di ansia per tutti gli altri. Da un po’ di tempo si alzava la notte e se ne andava in giro per la casa. Una volta aveva suonato il gong della colazione alle quattro del mattino perché sosteneva che i domestici non erano venuti quando li aveva chiamati, e lei aveva fame. In quel periodo dell’anno poi tendeva a spingersi fino al viale d’ingresso: diceva che doveva incontrare una persona, ma che questa non si era presentata. La cosa la rattristava molto, ma la si poteva confortare offrendole una caramella. Farla alzare la mattina e portarla di sotto per fare colazione era, come diceva Villy, una specie di manovra militare, e se ne occupavano loro due a turno. Quando scendeva doveva portarsi un cardigan di riserva, il libro che a suo dire stava leggendo, l’occorrente per scrivere, le pantofole casomai le scarpe le fossero andate troppo strette, un cappello nel caso in cui fosse uscita al sole e gli occhiali. Bisognava sempre slacciare le sue forbici da ricamo dalla poltrona della sua camera e legarle alla giusta poltrona al piano di sotto. Se tieni le forbici legate, non si stancava mai di ripetere, non le perdi. Dopo aver letto i necrologi sul «Times», con un po’ di fortuna si metteva tranquilla a cucire e la si poteva lasciare da sola. Ma nei giorni brutti tendeva a vagabondare, e per essere un’anziana signora lenta e tremante riusciva sempre a fare un bel po’ di strada. A tutti i bambini era stato spiegato che, se la vedevano, dovevano dirle che Kitty la cercava urgentemente e poi accompagnarla a casa.

Rallentando il passo intanto che s’inerpicava su per la collina, Rachel pensò che ormai Dolly era probabilmente vicina alla fine dei suoi giorni, anche perché dopo la morte di Flo non aveva più molto per cui vivere. Aveva due anni più della Duchessa, cinque meno del Generale. Del resto, chi prima chi poi, presto sarebbero morti tutti e tre. Allora sarò libera. Allora potrò andare a vivere la mia vita con Sid. Aveva una vaga consapevolezza di come quella prospettiva fosse passata dal rango di obiettivo di vita a quello di mera consolazione, e di come questo trasformasse la più piccola apprensione in profonda tristezza. Era una giornata calda, ventosa, non sembrava nemmeno giugno. Il lunedì era il giorno peggiore, perché Edward e Hugh se ne andavano a lavorare a Londra la mattina presto. Sul vialetto incrociò Tonbridge che spingeva una carriola colma di bottiglie da riempire alla fonte di acqua potabile. Portava le ghette di cuoio che gli accentuavano le gambette arcuate, i calzoni grigi da chauffeur e una camicia senza colletto con le maniche arrotolate. Un tempo non si sarebbe mai sognato di farsi vedere da un membro della famiglia vestito in quel modo, e mai e poi mai avrebbe guidato con uno di loro a bordo senza la sua uniforme, ma dati i compiti che gli venivano assegnati adesso, che di certo non facevano parte delle sue mansioni originali, non intendeva sprecare la giacca buona. Quando Rachel gli augurò il buongiorno, ricambiò il saluto col sorriso colpevole di chi è stato sorpreso intento a fare qualcosa di losco. «Che faremmo senza di lei!», gli disse Rachel, e vide la fronte umida farsi color ciclamino dal piacere. Sua madre non doveva averlo trattato bene, pensò Rachel, e poi gli è toccata quella donna tremenda come moglie. Giravano voci di un divorzio, e Lydia diceva che lui sembrava molto affezionato a Mrs Cripps. «L’ho visto metterle un braccio intorno alla vita. Non tutt’intorno, sarebbe impossibile. Un pezzetto soltanto».

Tornata in casa, Rachel fu subito intercettata dal Generale dalla posizione strategica del suo studio.

«Sei tu, Rachel?», la chiamò. «Puoi venire un momento? Proprio la persona che volevo vedere!».

Era seduto all’immensa scrivania a non fare niente.

«È successa una cosa singolare», disse. «Ha squillato il telefono ed era una certa Eileen, o Isla, sembrava... che razza di nome... che voleva parlare con Mr Cazalet. C’è stato un incendio in casa di Diana, ha detto. Io ho detto che doveva aver sbagliato numero, ma quella sembrava sicura del fatto suo. Poi è venuto fuori che voleva Edward. Vive a Wadhurst. Ha detto che doveva andare ad aiutare questa Diana... non capisco che c’entri Edward. Ho provato a chiamare Villy, ma non è a portata d’orecchio, a quanto pare».

Rachel disse: «Non mi pare che c’entri qualcosa Villy. Chiamo Edward, se vuoi».

«Sì, diglielo, anche se non capisco che cosa dovrebbe fare Edward per un incendio in casa di una sconosciuta, che faccia tosta! Forza, chiamalo allora».

Sperando di potersi sbarazzare di lui mentre telefonava ma sapendo bene di non avere speranze in tal senso, Rachel telefonò. Le rispose Miss Seafang che le disse che Mr Edward non era nel suo ufficio al momento. L’avrebbe fatta chiamare non appena lo avesse visto. «Sarete tutti in casa, immagino», disse in un tono di voce che lasciava trapelare vaghe speranze che qualcuno invece non ci fosse.

«D’accordo, grazie, Miss Seafang», replicò Rachel, e poi, preoccupata di aver dato l’impressione sbagliata, aggiunse: «Ma vorrei che mi richiamasse il più presto possibile. Può dirgli che è piuttosto urgente?». Miss Seafang glielo avrebbe detto senz’altro.

«Generale caro, io credo che sarebbe meglio evitare di parlare di questa cosa con Villy».

«Tu credi?», disse lui. «Sì, credo anch’io». Poi si alzò in piedi con tutta la poderosa mole. «Dammi quell’accidenti di bastone», disse. «Un po’ d’aria fresca mi farà bene».

Quando Edward richiamò, e lo fece a stretto giro, Rachel si ritrovò a dirgli che forse era una tempesta in un bicchiere d’acqua, ma si rese conto presto invece non lo era affatto. Edward tacque per alcuni secondi, poi disse: «Lo ha detto a Villy? Il Generale, dico».

«No. Gli ho chiesto di non farlo».

«Bene. Che seccatura! Non so cosa sia venuto in mente a quella donna, la cognata... certo, Villy conosce Diana, ma si sono viste anni fa, non credo che se ne ricordi. Il marito è morto, povera donna, è tutta sola».

«Edward, non credo di voler sapere altro al riguardo». Non sopportava di sentirlo mentre cercava di giustificarsi.

«D’accordo. Grazie per avermi avvertito». E riattaccò.

Edward aveva sempre fatto il cascamorto con le belle donne, pensò Rachel non senza un certo disagio. Era un’abitudine che risaliva a prima del matrimonio, quando di ritorno dalla guerra per un po’ non aveva fatto che andare alle feste, giocare a tennis e comprare ciondoli e cioccolatini per frotte di ragazze. Quando si era sposato, Rachel credeva avesse messo la testa a posto, ma la sua stessa istintiva reazione alle parole del Generale quella mattina le fecero capire che invece aveva sempre saputo come stavano le cose. Di certo non era niente di serio... però era stato chiaramente ansioso di sapere se Villy era venuta a conoscenza della telefonata. Il fatto che spesso non tornasse a casa per i fine settimana – succedeva una volta su quattro, ormai – le appariva ora sotto un’altra luce. Per ragioni che Rachel non aveva capito, se ne era andato da casa di Hugh a Londra. Sul momento non era parso tanto strano, con Polly e Clary che si erano trasferite lì, ma poi se ne erano andate anche loro... Villy del resto era stata nel suo appartamento: aveva detto che era un buco orrendo e anonimo, ma ci aveva dormito una volta o due...

Villy non era una persona facile, ma Rachel le era affezionata e la ammirava molto per la capacità che aveva di imparare a fare qualunque cosa. Era certa che per lei sarebbe stato un duro colpo venire a sapere che Edward aveva storie con altre donne. Forse, pensò, Hugh poteva scambiare due parole con lui. Mentre cercava la Duchessa per controllare che fosse sopravvissuta alla riunione mattutina con Mrs Cripps, si accorse di punto in bianco di non aver rivolto un solo pensiero a quella Diana a cui era morto il marito e andata a fuoco la casa. La cognata doveva essere davvero in pensiero, altrimenti non si sarebbe azzardata a chiamare Edward. Dopotutto questa Diana poteva anche essere la vedova di un commilitone di Edward alla RAF. Sarebbe stato proprio da lui promettere di vegliare sulla poverina! Forse aveva paura che Villy lo scoprisse perché poteva esserne gelosa anche senza che ce ne fosse motivo... L’idea di qualcuno che vegliava su qualcun altro pose l’intera questione sotto una luce molto più rassicurante.

* * *

«Me l’hanno detto».

«Che cosa?».

«Tua cognata ha telefonato a Home Place questa mattina, per informare tutti dell’accaduto».

«Non è possibile!».

«Ti assicuro di sì. Le ha risposto mio padre... che per fortuna l’ha detto a mia sorella e non a mia moglie. Rachel mi ha telefonato».

«Ma come le è venuto in mente di fare una cosa del genere?».

«Come ci è riuscita, soprattutto? Devi averle dato il numero».

«Edward, come ti viene in mente? Glielo avrà dato il servizio informazioni».

«Le avrai detto dell’incendio».

«Certo che gliel’ho detto. Ho dovuto dirglielo. La casa è un disastro, dovevo chiederle di tenermi i bambini mentre cercavo di fare qualcosa». Dopo una pausa aggiunse: «In soggiorno ci sono trenta centimetri d’acqua, dopo l’intervento dei pompieri».

«Ma com’è successo?», domandò; sembrava ancora arrabbiato.

«Il camino. Una grossa trave ha preso fuoco ed è bruciata pian piano, senza fiamma. Sono andata di sopra perché mi era parso di sentire Susan e ho trovato la camera dei bambini piena di fumo. È stata una fortuna incredibile che ci sia andata... potevano morire».

«Cristo! Che razza di sfortuna! Dove sei adesso?».

«Al pub, in paese. Il telefono di casa non funziona. Isla è venuta a prendersi i bambini, grazie al cielo».

«Spero tu le abbia detto di non telefonare più a casa mia».

«Non potevo dirglielo! Per cominciare non ne avevo idea, inoltre se glielo avessi detto avrebbe sospettato qualcosa».

«È evidente che sospetta già qualcosa, o non avrebbe cercato di creare problemi. Bisogna che ci parli. Del resto, cosa può farti?».

«Edward, non ho chiuso occhio tutta la notte. Sono a pezzi, i bambini hanno rischiato di morire e la casa è in condizioni indescrivibili. Speravo che tu potessi essere un po’ più...». La comunicazione fu chiusa all’improvviso. No, non poteva averlo fatto, pensò. Aspettò alcuni secondi sperando che richiamasse, poi si rese conto che non era possibile, non conosceva il numero. L’orgoglio le impedì di farlo lei: temeva di sentirsi dire cose che l’avrebbero fatta soffrire di più. Non potrei sopportarlo, pensò affranta mentre pedalava controvento verso casa.

In casa regnava un forte odore di legno bruciato. Parte dell’acqua era defluita, ma un sudicio residuo ricopriva per intero il pavimento del piano terra: il soggiorno, la piccola cucina e il gabinetto. Prese lo straccio e il secchio e si mise al lavoro.

Passò e ripassò lo straccio, spostò i mobili e fece su e giù per svuotare secchi e secchi di acqua sporca. Il risentimento verso Edward le dava la carica. Si accorse che tutte le caratteristiche positive di quella casa (positive per lui: riservatezza, privacy eccetera), che gliela avevano fatta apparire come la soluzione ideale, adesso le si ritorcevano contro. Non aveva vicini e dunque nessuno che l’aiutasse, e in paese, che distava un chilometro e mezzo, non c’era nessuno con cui fosse abbastanza in confidenza da chiedergli di poter usare il telefono. La casa, costruita come alloggio per un guardacaccia, sorgeva in fondo a una mulattiera, con il bosco alle spalle. Non c’era elettricità e l’acqua veniva pompata in casa da un pozzo per mezzo di un motorino rumoroso, ma costava davvero poco, e questa era la ragione principale per cui aveva accettato di andarci. Anche se i genitori di Angus pagavano metà delle rette scolastiche dei ragazzi più grandi, restavano comunque a suo carico il vestiario – uniforme scolastica, attrezzature sportive –, il dentista, la paghetta e il viaggio fino alla Scozia per le vacanze; dopodiché doveva provvedere a Jamie, a Susan e a se stessa. I soldi erano un grosso problema, e non c’erano soluzioni all’orizzonte. Anche se la guerra si avviava verso la fine, le sue probabilità di sposare Edward erano le stesse di quando lo aveva conosciuto. Aveva quarantaquattro anni ed era intrappolata in quel posto da lupi, mentre lui che ne aveva quarantotto (per un uomo è diverso, si sa) viveva praticamente separato da Villy in un appartamento tutto suo a Londra, pieno di opportunità di incontrare persone più giovani e più disponibili. Edward passava a trovarla ogni settimana, mentre andava a Home Place, e circa una volta al mese riuscivano a trascorrere il fine settimana insieme. Ma era evidente in quelle occasioni che la casa gli risultava scomoda e il posto noioso, e che preferiva che fosse Diana a raggiungerlo a Londra. Questo lei poteva farlo solo se trovava qualcuno che fosse disposto a tenerle i bambini. A volte lo faceva Isla, quando Diana riusciva a rabbonirla a tal punto, e una o due volte era venuta la vecchia bambinaia che si era occupata dei due ragazzi più grandi quando erano in fasce. Ma capitava spesso che non riuscisse a organizzarsi, e allora Edward doveva rassegnarsi alla campagna, al fatto che lei fosse impegnata a far da mangiare e che avessero qualche momento intimo solo una volta messi a letto i bambini. Questo le fece pensare che probabilmente Isla aveva mangiato la foglia perché Jamie le aveva parlato di Edward che veniva a trovarli a casa. Una confidenza innocente, ma dall’esito catastrofico.

Tolta tutta l’acqua, il pavimento era comunque da pulire, era già pomeriggio e le girava la testa dalla stanchezza e dalla fame. Aprì tutte le finestre e anche la porta davanti e quella sul retro, poi andò in dispensa a cercare qualcosa da mangiare. Non c’era granché, sarebbe dovuta andare a fare la spesa quella mattina: solo un avanzo di pane e dei cereali, ma niente latte perché lo aveva dato a Jamie e Susan per colazione. Si fece del tè e mangiò i cereali con dell’acqua, una cosa disgustosa. Doveva andare a fare la spesa se voleva mettere in tavola qualcosa per cena, ma ormai aveva stabilito di pulire come si deve il pavimento. Quando fu a metà del lavoro, il rubinetto della cucina si rifiutò di fornire altra acqua, e quando riprovò ad azionare la pompa non ci riuscì. Dev’essere entrata dell’acqua nella batteria, pensò, ma in quelle condizioni non sarebbe riuscita a finire di lavare il pavimento. Non poteva nemmeno lavarsi, ed era sudicia. Inoltre ormai erano le sei, e i negozi erano chiusi di sicuro. Andò a prendere lo straccio e la spazzola che aveva lasciato in soggiorno, scivolò sull’avanzo di sapone che aveva usato e prese una brutta storta. Era troppo. Crollò a terra e scoppiò in lacrime.

Edward la trovò così (Diana non aveva sentito la macchina nel vialetto a causa degli aeroplani che continuavano a rombare sopra la campagna).

«Tesoro! Diana! Dio mio, che è successo?».

La sorpresa di vederlo comparire così all’improvviso la fece piangere ancora di più. Lui si chinò per aiutarla, ma quando lei fece per alzarsi la caviglia le doleva tanto da strapparle un piccolo grido. La adagiò sul divano.

«È una distorsione alla caviglia», disse e lei annuì, battendo i denti.

«È finita l’acqua. Non posso pulire il pavimento!». La tristezza della situazione la fece piangere di nuovo.

Lui le prese il cappotto, che era appeso a un gancio accanto alla porta, e glielo sistemò sulle spalle.

«Whisky ne hai?».

Scosse la testa. «Lo abbiamo finito l’altra volta».

«Ne ho portato un po’ io. È in macchina. Tu resta qui tranquilla».

Nei minuti in cui prese il whisky, trovò un bicchiere, le diede il suo fazzoletto di seta verde chiaro e prese una sedia per sedersi accanto a lei, Edward parlò incessantemente, incoraggiandola e rassicurandola. «Povero tesoro, quante ne hai passate! Sono venuto il prima possibile. Quando sono riuscito a trovare il numero di quel pub – non mi veniva in mente come si chiamasse! – ormai te ne eri andata. Non so come mai sia caduta la linea. Sono stato un mostro... con tutto quello che è successo! Non hai dormito, e scommetto che non hai neanche mangiato. Quando hai finito di bere, ti fai un bagno caldo e ti porto fuori a cena».

Ma lei rispose, quasi irritata: «Non posso! Non posso fare il bagno. E comunque non c’è più acqua, nemmeno una goccia».

«Be’, in tal caso saltiamo in macchina e ti porto in albergo».

Il risentimento, che all’apparizione di Edward si era dissolto in puro sollievo, riprese a cristallizzarsi. Lui era così: pensava che tutto si risolvesse con qualche modesta, temporanea comodità materiale. La invitava fuori a cena e poi la riportava in quella landa desolata dove avrebbe continuato a vivere così, senza poter scambiare due parole con adulti che non fossero commessi di bottega o il tecnico che, sperava, sarebbe venuto a riparare o sostituire la batteria della pompa idraulica. Tutto sarebbe tornato come sempre: con lei sola e povera e sempre più angosciata dal pensiero del futuro e del fatto che inevitabilmente sarebbe invecchiata e lui, ne era certa, l’avrebbe lasciata. Avrebbe voluto rispondergli: «E dopo?», ma una cautela innata, istintiva, la trattenne. Sentiva che ne andava della sua vita e decise che era meglio dire qualche falsità piuttosto che commettere un passo falso. Alzò lo sguardo verso di lui, i begli occhi viola ancora bagnati e disse: «Oh, caro, sarebbe davvero un sogno!».

* * *

Fin da quel primo incontro sul treno Zoë aveva sentito che la sua vita si stava spaccando in due pezzi, e non due pezzi uguali. Da una parte c’era Juliet, e con lei la famiglia Cazalet col suo carico di privazioni, giornate tutte uguali, doveri e affetti, e dall’altra c’era Jack. La parte di Jack occupava certo meno tempo, fatta com’era di giorni e notti rubati, ma era così piena di romanticismo, senso di avventura e piaceri vari del tutto nuovi per lei, tanto da assorbire la gran parte della sua attenzione e occuparle la mente a esclusione di tutto il resto. All’inizio era stato diverso, certo: decidere di non tornare subito a casa ma di fermarsi a Londra per cenare con lui, un affascinante sconosciuto che manifestava con tanta semplicità il suo interesse era eccitante, sì, si era detta, sarebbe stato divertente... erano anni che non andava al ristorante con un uomo, un lusso che sulle prime le era parso leggermente peccaminoso. Ora non più. Il fatto di dover andare a pranzo con Archie – un appuntamento che per le stesse ragioni aveva atteso con ansia – di colpo non aveva più importanza. A pranzo con lui ci andò, ma dopo aver resistito con fatica alla momentanea tentazione di raccontargli l’episodio di quella mattina con lo sconosciuto, fu distratta e a corto di argomenti. Archie era la gentilezza fatta persona: le aveva portato un regalo per Juliet e aveva ascoltato con comprensione il racconto del tedioso soggiorno da sua madre. Mentre bevevano piccole tazze di caffè amaro nell’apposita sala al suo club, vi fu un breve silenzio e Archie disse: «Povera Zoë! Stai vivendo in una specie di limbo, vero? Vuoi parlarne? Perché immagino che a casa tu non possa farlo».

«Non saprei cosa dire. Solo che... tu non credi che Rupert sia ancora vivo, vero?».

«No, non lo credo. Ormai è passato davvero troppo tempo. Certo, è sempre possibile che lui...», lasciò la frase a metà.

«A me sembra di avere il dovere di crederlo vivo. E non ci riesco. Vorrei tanto sapere... Mi fa sentire... be’, ecco...».

«Arrabbiata, direi», disse lui. «Mi dispiace per questo pessimo caffè. Vuoi un brandy per sciacquarti la bocca?».

Le tornò la voglia di raccontargli dell’incontro in treno. Gli rispose di sì. Aspettò che il cameriere avesse posato i bicchieri sul tavolo, poi gli raccontò tutto. «Ho voglia di andare a cena fuori con lui», disse alla fine. «Sembra, ecco... un’avventura».

«Sì».

«Credi sia stato brutto da parte mia?».

«No».

«Il fatto è che perderò l’ultimo treno».

Si perlustrò le tasche e ne estrasse una chiave. «Puoi stare da me, se vuoi. Se dovessi averne bisogno».

«Archie, sei così gentile. Non lo dirai... a nessuno, vero?».

«Lungi da me».

Mentre uscivano dal club le disse: «Che farai di te stessa prima della cena?».

«Oh, pensavo di andare a cercarmi un vestito. Da mamma non ne ho portato nessuno... adatto alla circostanza». Sentì che stava arrossendo.

«E la valigia?».

«L’ho lasciata al deposito bagagli a Charing Cross. Ho tenuto solo la borsa più piccola». L’aveva preparata nel bagno delle signore, con giusto l’occorrente per truccarsi e le scarpe buone.

«Be’, se vuoi venire a cambiarti a casa mia, sei la benvenuta. A proposito, il mio indirizzo lo conosci?».

«Meno male che lo hai detto, Archie! In effetti non lo conosco».

Lui tirò fuori l’agendina, la poggiò a un pilastro e scribacchiò qualcosa.

«Elm Park Gardens. Vicino Kensington Gardens. Non perderla, la chiave, mi raccomando. Non disturbarti a chiamare. Vieni o non venire, a seconda di quello che vuoi fare». Le diede un bacio sulla guancia. «E divertiti».

Più tardi, mentre un taxi la portava al negozio di Hermione, aveva ripensato alle sue parole, al fatto che non riteneva che sarebbe andata a dormire a casa sua. Credeva forse che lei fosse il tipo di persona che passa la notte con un perfetto estraneo col quale non ha condiviso che una cena? Lo trovò offensivo.

Ma i dubbi di Archie si erano rivelati più che fondati. Aveva passato la notte o quel che ne rimaneva in un monolocale di Knightsbridge. «Le mie intenzioni sono delle più onorevoli. Intendo sedurti», aveva detto a cena il suo accompagnatore.

Durante la cena le era sembrata un’idea folle sebbene lusinghiera: non aveva nessuna intenzione di cedergli. «Di solito non vado a letto con un uomo il giorno stesso in cui l’ho conosciuto», aveva detto.

«Ma io non voglio da te quello che fai con gli altri uomini», aveva risposto lui senza scomporsi.

Dopo cena l’aveva portata all’Astor: avevano bevuto altro champagne e ballato. Il vestito che si era comprata da Hermione si era rivelato un’ottima scelta, una guaina di morbida seta nera lunga appena sopra il ginocchio, con lo scollo quadrato e profondo e le spalline spesse. Era elegante e alla moda e valeva ogni singolo penny delle ventidue sterline che era costato. Aveva approfittato dell’offerta di Archie ed era andata a casa sua, dove aveva trascorso un’ora di puro piacere: fare il bagno, vestirsi, truccarsi, tirarsi su i capelli e poi scioglierli e poi tirarli su un’altra volta intrecciando lo chignon col filo di perle che era l’unico gioiello che avesse con sé. Non aveva un profumo, non aveva una borsetta da sera e sopra il vestito avrebbe indossato il solito cappotto invernale, ma l’avrebbe fatto andare bene. Più di tutto, in quel momento, si stava godendo il fatto di farsi bella per una serata fuori e, quando Archie tornò, sfilò davanti a lui come se fosse un genitore e lei una ragazzina che usciva per il suo primo ballo.

«Santo cielo!», disse Archie. «Questo sì che è un vestito! Sei splendida, davvero. Vuoi bere qualcosa prima di uscire?».

Disse di no. Aveva appuntamento con lui alle sette. Lasciò la sua valigetta da Archie e prese un taxi per andare al Ritz.

Lui l’aspettava, si alzò dal divano, la salutò con un sorriso nervoso.

«Cominciavo a credere che non saresti venuta».

«Hai detto alle sette».

«Ed eccoti qua». Le offrì il braccio e la portò al bar per bere qualcosa.

Durante l’aperitivo e poi a cena le fece una sfilza di domande, sulla sua famiglia, la sua infanzia, gli amici, gli interessi, in quali paesi era stata, che cosa voleva fare da grande quando era bambina, ma le domande si perdevano le une nelle altre... Che cosa voleva mangiare? Come si mangiava in Inghilterra in tempo di guerra? E che ne pensava, lei, della guerra? Aveva paura durante gli attacchi aerei? No, aveva risposto lei, le facevano molta più paura i ragni e lui aveva riso, e gli occhi quasi neri, che luccicavano mentre la fissava – cosa che fece quasi per tutto il tempo –, si addolcirono suscitando in Zoë un moto di affetto. Questo accadde diverse volte e ogni volta aumentò di un grado la loro intimità.

Quando ebbero terminato di cenare, lui le offrì una sigaretta e al rifiuto di lei osservò: «Mi chiedevo se proprio non fumi o se semplicemente non accetti sigarette dagli sconosciuti».

«E tu sei uno sconosciuto, in effetti. Non mi dici molto di te».

«Rispondo alle tue domande».

«Sì, ma...». Di lui aveva saputo che era giornalista e fotografo, al seguito di non so che parte dell’esercito americano, che era cresciuto a New York, si era sposato e aveva divorziato (questo glielo aveva detto in treno), e che i suoi genitori erano divorziati anche loro. «Non mi stai dicendo niente di sostanziale».

«Che cosa vuoi sapere?».

Ma non seppe dirlo. O meglio, le curiosità che aveva le sembravano inopportune da manifestare a uno che conosceva appena. Sentì che stava arrossendo e scrollò le spalle.

Quando il cameriere servì il caffè, lui gli chiese una tazza grande e del latte caldo e le domandò se voleva del liquore.

«Ora», le fece quando il cameriere fu tornato e se ne fu andato lasciandoli soli, «Devo chiederti una cosa. Tuo marito è prigioniero?».

«Cosa te lo fa credere?»

«Non lo so. È una sensazione. Non parli per niente di lui. È insolito. Hai parlato della tua famiglia, ma su di lui nemmeno una parola».

«Perché non so cosa dire».

Seguì un breve silenzio, poi lui disse con semplicità: «Devi dire solo le cose come stanno».

E glielo disse. Dunkerque, la fuga in Francia, Rupert dichiarato disperso, le speranze che lo avessero fatto prigioniero, poi due anni di completo silenzio, le speranze che svanivano e lei che cominciava a crederlo morto, poi l’arrivo di quel francese con le sue notizie e il giubilo generale. E adesso altri due anni senza una parola, un segno, nulla.

«Non ha mai visto sua figlia», aggiunse. «Se non si fosse fatto male alla caviglia per saltare in quel fosso ed evitare il camion dei tedeschi, sarebbe tornato. Perciò non so... non so niente. Un po’ mi ci sono abituata, o almeno credo».

Alzò gli occhi e di nuovo incrociò quello sguardo silente, espressivo. Lui non disse nulla.

«Ormai credo di essermi rassegnata all’idea che sia morto».

Lui restò in silenzio qualche altro istante; poi disse: «Ora capisco cosa intendevi quando parlavi di essere abituati a qualcosa ma non smettere di pensarci».

«Ho detto così?».

«In treno, questa mattina. È una situazione indefinita, o sbaglio? Non puoi piangere la sua morte, ma non puoi nemmeno sentirti libera... un limbo micidiale insomma».

Sì, aveva risposto lei. Si soffermò qualche attimo sulla bizzarria del fatto che avesse usato la stessa parola che era venuta in mente ad Archie quella mattina, mentre per tanti anni non l’aveva detta nessuno: la situazione non era oggetto di conversazione, meno che mai di tentativi di definizione.

Poi lui si chinò sul tavolo, guardandola. «Zoë! Ti va di ballare con me?», e senza aspettare la sua risposta le prese la mano. «Andiamo allora».

Più tardi quella sera le disse che il locale notturno era l’unico luogo in cui potesse legittimamente tenerla tra le braccia.

Ballarono per ore. Non si dissero molto: Zoë si accorse fin dai primi secondi che lui era un ottimo ballerino e sulle prime lo seguì passivamente, poi prese ad anticipare le sue mosse. Aveva quasi dimenticato quanto le piacesse: non ballava con nessuno da quando era incinta di Juliet. Lui era poco più alto di lei – di tanto in tanto sentiva il suo fiato sul viso – e quando i loro sguardi s’incontravano le rivolgeva un sorriso vago, sognante. Quando l’orchestra si fermò per una pausa, tornarono al tavolo e bevvero altro champagne, che nel frattempo si era intiepidito nel secchiello pieno di ghiaccio sciolto. Sul loro tavolo, come su tutti gli altri, c’era una piccola lampada con un paralume rosso intenso. Faceva abbastanza luce perché potessero vedersi l’un l’altra ma non tanta da poter distinguere le facce di chi sedeva agli altri tavoli: questo creava un romantico senso di solitudine, un po’ come stare seduti in riva a un’isola minuscola. Sulla pista i fari fissati al soffitto, d’intensità variabile, illuminavano di una luce livida i volti dei ballerini e le spalle nude delle donne; occhi lucidi, diamanti e medaglie militari luccicavano e poi sparivano in vortici che attraversavano rapidi le pozze di luce.

La musica ripartì. Si voltò verso di lui pronta ad alzarsi, ma lui sollevò una mano per farla restare seduta. «Questo è il momento in cui ti faccio la corte», disse. «Non ti ho detto che sei bellissima perché credo che tu lo sappia già. Tu mi abbagli, davvero, ma probabilmente ci sei abituata. Mi sono innamorato di te verso le undici di questa mattina, perciò è già passato un bel po’ di tempo. Sono andato oltre la tua bellezza ore fa al ristorante, quando mi hai raccontato di Rupert. Sembri il tipo di ragazza a cui piacciono certi giochini, tipo far impazzire gli uomini per soddisfare la propria vanità. Però non lo fai. È tutta la sera che aspetto che tu lo faccia, ma non ti passa nemmeno per la testa».

«Una volta lo facevo», ammise, improvvisamente conscia di quel cambiamento. «Una volta lo facevo». Si arrestò: il ricordo di quella che era stata la colpì con violenza ottundente. Un tempo, pensò, tutto il suo piacere in una serata come quella sarebbe dipeso dalle reazioni del suo accompagnatore alla sua bellezza. Se queste non erano abbastanza frequenti da soddisfare la sua vanità, allora gli forniva piccoli agganci per farsi fare complimenti più sperticati. Pensarci le diede la nausea.

«...perciò, intendi farlo? Mi spiace chiedertelo in questo modo, ma ho bisogno di sapere».

Cominciò a dirgli che non sapeva nemmeno lei cosa provava, se era innamorata, del resto si erano appena incontrati... ma le parole le morivano in gola o perdevano di senso non appena le pronunciava. Restò in silenzio e gli prese la mano.

Quando si era svegliata la mattina dopo, il sole era alto, il telefono squillava e di Jack non c’era traccia. Era insonnolita e le dolevano le ossa per aver ballato e fatto l’amore così a lungo. Si voltò sopra il cuscino vuoto accanto a sé e trovò un biglietto: «Sono io al telefono. Sono dovuto andare al lavoro». Alzandosi dal letto per rispondere, si accorse di essere nuda, ma lui le aveva lasciato la vestaglia poggiata sulla sedia accanto al telefono.

«Mi dispiace tanto svegliarti, ma ho pensato che forse ti avrebbe fatto comodo sapere che ore sono».

«Che ore sono?».

«Sono appena passate le dieci. Ascolta, posso chiamarti a casa?».

«È complicato, temo. L’unico telefono è nello studio di mio suocero e lui è quasi sempre lì».

«Puoi chiamarmi tu, allora?».

«Ci posso provare. C’è una cabina telefonica al pub del paese, ma non c’è molta privacy».

«Potremmo passare il prossimo fine settimana insieme. Dobbiamo capire come fare per restare in contatto. Che dici, puoi farlo?».

«Ci proverò. Ti farò sapere».

«Ti do il mio numero dell’ufficio. Sarà una cosa piuttosto formale. Io sono il capitano Greenfeldt, nel caso dovessi chiedere di me. È ridicolo, vero? Doversi comportare come spie o come bambini che hanno commesso una marachella».

«Non si può fare altrimenti».

«Porti la mia vestaglia? L’ho messa lì per te».

«Sì, ce l’ho sulle spalle».

«Per favore vieni, questo fine settimana. Non mi capitano spesso dei giorni liberi».

«Ci provo. M’inventerò qualcosa».

«Sei l’unica donna al mondo», disse. Poi tagliò corto. «Devo andare».

Quello era stato l’inizio. L’inizio delle bugie, delle scuse fantasiose (si era inventata una vecchia amica dei tempi della scuola con tre figli che la invitava in continuazione); la Duchessa la guardava con affetto e diceva che cambiare aria le faceva bene. Era stato l’inizio dei telegrammi in codice, delle telefonate nel suo ufficio, in cui lui certe volte era formale ai limiti del gelo, ma dopo la prima volta le aveva detto che l’avrebbe sempre chiamata John quando ci fosse stato qualcun altro in ufficio. Quando passavano lunghi periodi senza che potessero vedersi, lei gli indirizzava le sue lettere al monolocale – lui le rispose una volta sola. La sua energia la lasciava di stucco. Jack lavorava sodo e andava spesso in aereo a visitare le truppe americane sparse per il paese. Quando si vedevano, un fine settimana ogni tanto, si buttavano a letto affamati l’uno dell’altra: lei si accorse allora di quanto l’amore e il sesso le fossero mancati. Poi facevano il bagno, si vestivano e uscivano: qualche volta andavano a teatro ma per lo più a cena e poi a ballare fino alle tre, le quattro del mattino. Quando tornavano nel piccolo appartamento – un luogo piuttosto spoglio con un pianoforte, un divano basso e sgangherato, un tavolo con due sedie e un’enorme finestra esposta a nord e sempre mezza oscurata –, lui la spogliava piano, le toglieva le forcine dai capelli, l’accarezzava e le diceva che voleva fare l’amore con lei fino a farla impazzire. Aveva dimenticato o forse non aveva mai conosciuto quel momento successivo all’amore in cui il corpo sembra pacificato, il suo peso disperso in modo così uniforme sulle lenzuola al punto da non esserci più, e allora il sonno la coglieva in modo talmente naturale e repentino che nemmeno se ne accorgeva. Il risveglio, al sabato mattina, era pieno di voluttà: chi tra loro che si svegliava per primo guardava l’altro ancora addormentato con un’intensità tale che questi non poteva restare incosciente. L’amore, quelle mattine, era una cosa del tutto diversa: leggero, giocoso, pieno di piccole intimità e gesti affettuosi; si sentivano ricchi per il solo fatto di avere davanti due intere giornate da trascorrere insieme. Fu un periodo di pura felicità per lei. Quando l’autunno lasciò il passo all’inverno, l’appartamento diventò un luogo gelido: c’era una stufa ma non di che alimentarla. Lui brontolava allegramente per la mancanza di riscaldamento e della doccia; c’era però una piccola vasca con uno scaldabagno che a fatica forniva di tanto in tanto piccole quantità di acqua calda. Mangiavano le scatolette che lui portava dallo spaccio militare: stufato, manzo, tacchino e tavolette di cioccolato. Nei giorni di bel tempo vagavano per Londra e lui scattava fotografie: chiese e case bombardate, negozi abbandonati con sacchetti di sabbia alle finestre, basi della contraerea camuffate, il casotto gotico a Hyde Park Corner dove, le disse, i tassisti si riunivano per giocare a carte – era una miniera d’informazioni di quel genere. «Vanno a Warwick Avenue quando vogliono fare un pasto decente», raccontò. «E vengono qui per giocare a carte». Inoltre le faceva delle foto, decine e decine di foto, e una volta, siccome Zoë insisteva, lasciò che fosse lei a fotografarlo. Non venne molto bene: non aveva la mano abbastanza ferma e lui strizzava gli occhi perché aveva il sole in faccia ma, dopo averla fatta stampare, Zoë la tenne sempre nella borsa. Il pomeriggio andavano al cinema, a tenersi per mano nel buio. Nei fine settimana, di giorno, lui vestiva abiti civili, ma la sera indossava l’uniforme. Un po’ alla volta, Zoë portò nell’appartamento una parte dei suoi vestiti. La domenica mattina la passavano a letto coi giornali, e lui preparava il caffè che riusciva sempre a rimediare. Erano ore rabbuiate dall’ombra dell’imminente separazione, e questo creava spesso tensioni. Una volta litigarono a proposito della figlia di Zoë. Lui insisteva perché la portasse con loro per un fine settimana a Londra, ma lei non voleva. «È grande. Parlerebbe di te a casa... non potrei impedirglielo».

«Sarebbe così terribile?»

«Sarebbe complicato. Non posso dire di te. Li sconvolgerei».

«Non vedrebbero di buon occhio il fatto che tu abbia una relazione con un ebreo?». Era la prima volta che nominava la propria razza.

«Jack, ti prego. Non si tratta certo di questo!».

Lui non rispose. Camminavano lungo il Serpentine Lake. Era un gelido pomeriggio domenicale, e Jack si lasciò cadere di colpo su una delle panchine di ferro che guardavano sull’acqua.

«Siediti. Voglio chiarire questa cosa. Davvero mi stai dicendo che se io fossi stato inglese – un lord o un duca o quello che avete qui – non mi avresti portato a conoscere la tua famiglia? Con tutto il tempo che è passato? Ci conosciamo da tre mesi ormai e non ti è mai nemmeno passato per la testa?».

«Questo non c’entra niente», disse lei. «È perché sono ancora sposata con Rupert».

«Credevo amassi me».

«E ti amo. È proprio perché ti amo. Se ne accorgerebbero subito e... davvero non capisci? Penserebbero che l’ho tradito! Secondo loro dovrei aspettare, nel caso in cui Rupert tornasse».

«Capisco. E se dovesse tornare è così che finirebbe tra noi, vero? Ti stai tenendo aperte tutte le strade...».

«Non ti stai sforzando di capire...».

«Ho paura di farlo! Messa alle strette, sceglieresti la tua famiglia alto borghese con la grande casa di campagna e una schiera di domestici, e non ti sogneresti nemmeno di rinunciare a tanta fortuna per un ebreo della classe media che possiede una bella macchina fotografica e nient’altro. Se poi le cose andassero male, un’alternativa pronta ce l’hai già. Sposeresti quel suo amico, Archiecomesichiama, e allora la tua preziosa famiglia sì che approverebbe. Lui ci va, alla casa di campagna, no? Me lo hai detto tu... insomma, è già un membro della famiglia».

Lei tremava di freddo e di paura; non lo aveva mai visto così, arrabbiato e amaro e implacabile. Sapeva che aveva torto.

Disse: «Quando ti ho detto di Rupert, quella prima sera, mi era parso che tu avessi capito. Che cos’è cambiato?».

Lui si voltò e le prese le mani in una stretta dolorosa. «Te lo dico io che cos’è cambiato. Cosa credevo fosse cambiato. Ci siamo innamorati. O almeno lo credevo. Innamorati davvero. Non riguarda solo il presente, riguarda le nostre vite. Così credevo. Io ti voglio sposare. Voglio i tuoi figli. Voglio vivere con te e voglio che tu sia mia. Non sopporto l’idea che un altro ti metta le mani addosso. Non sei una bambina, Zoë. Sei una donna adulta, puoi fare le tue scelte: non devi vivere la tua vita aspettando l’imbeccata dagli altri. O forse per te le cose non stanno come per me? Ho davvero bisogno di saperlo».

Lei era confusa dalla sua collera e da quel risentimento che erano venuti fuori con tanta foga, e anche dall’essere chiamata a rendere conto di un futuro su cui, se ne accorse ora, non aveva ancora riflettuto a dovere, e per un attimo restò a fissarlo senza parlare.

«Io ti amo», disse alla fine. «Di questo devi essere sicuro. Ed è vero che non ho pensato al futuro... non è vero, volevo dire...». Le tremava la voce e così ci riprovò. «Non ho prime e seconde opzioni, come hai detto tu. Ti amo. Solo di questo sono sicura. Credo di aver vissuto in una specie di isola con te... non mi sono preoccupata di nessun altro». Poi aggiunse, in tono appena udibile. «Ma ora devo farlo».

Lui le lasciò le mani e lei se le portò al viso, mettendosi a piangere come fosse stata in compagnia di un estraneo. Pianse molte lacrime, come se gli anni di lutto trattenuto, incertezza e angoscia la stessero travolgendo tutti insieme, come se il suo mondo fosse crollato e non ce ne fosse un altro a sostituirlo. Lui le cinse le spalle e la tenne abbracciata. Alla fine fu gentile e tenero – e pentito –, le tolse le mani dal viso, le asciugò le lacrime con le dita, la baciò, le chiese perdono. Fecero la pace: perdonarsi fu facile, ma quella felicità pura e immacolata che avevano vissuto diventò un che di volatile e incerto, il cui presente scivolava nel passato ed era infettato dal futuro. Quella lite le diede la misura di quanto lo amasse e di quanto poco lo conoscesse.

A Natale si sentì lacerata: non poteva lasciare la famiglia, ma sapeva che lui sarebbe rimasto da solo. «Non hai qualche amico dell’esercito con cui stare?», gli domandò e lui le rispose che sì, ce l’aveva, ma non aveva voglia di stare con loro. «Comunque il Natale non è così importante per me». Però comprò un regalo per Juliet: un piccolo cuore di turchesi con una catenina. Passarono insieme il Capodanno e lui la coprì di regali: calze, una borsetta da sera nera e un profumo di nome Beige di Hattie Carnagie, arrivato da New York, e poi un mazzo di rose rosse, una vestaglia da uomo che secondo Zoë doveva essere costata una fortuna e due romanzi di Fitzgerald. Lei aveva impiegato settimane per fargli una camicia. Non solo perché era stato un lavoro più difficile di quanto pensasse, ma anche perché doveva farlo di nascosto dalla famiglia. «L’hai fatta tu?», disse ammirato. «Davvero l’hai cucita con le tue mani?». Ne fu profondamente commosso e la indossò subito.

Le parve il momento giusto per proporgli di andare insieme a trovare Archie. Aveva deciso di farlo per fugare le gelosie di Jack, ma desiderava anche mostrare a qualcun altro il suo amore e Archie era discreto e affidabile, oltre a essere l’unica persona al corrente della sua esistenza.

Così quel giorno andarono a trovarlo a casa (dove lei era stata una volta sola, il giorno in cui era andata lì a cambiarsi per uscire con Jack. Sembravano passati anni) e i due uomini andarono subito molto d’accordo. Non stette ad ascoltare quello che si dicevano perché erano i solito discorsi sulla guerra. Osservò invece con attenzione la stanza: le pareti bianchissime, il vasto ritratto di una donna mezza nuda distesa su un divano con accanto un vaso di rose (la donna era brutta, ma i colori stupendi). C’era un tavolo con un vaso di giacinti e una lampada ricavata da una bottiglia di vetro nero. A entrambi i lati del camino c’erano scaffali che quasi s’inarcavano sotto il peso dei libri. Una parete più piccola era occupata da un baule di quercia rosicato dai tarli dove, le aveva detto quel giorno, erano riposte le lenzuola di riserva. Il ripiano era coperto da un telo di seta verde e viola, con ricami e pezzetti di vetro cuciti sugli orli. Di fronte, delle tende a larghe strisce rosse e panna piuttosto sporche guarnivano i due lati della finestra che guardava sul giardinetto quadrato. Quella sera, mentre si metteva il suo bel vestito nero, non aveva fatto caso a tutto questo.

La conversazione s’interruppe perché Archie doveva andare a pranzo a Chelsea. «Si mangia tardi perché la padrona di casa è spagnola, ma potrei riuscire ad arrivare in ritardo lo stesso!».

Le diede un bacio su una guancia e li ringraziò entrambi per la visita, e Zoë si accorse che non aveva mai fatto nemmeno un’allusione a Home Place o alla famiglia Cazalet o a nulla che potesse far sentire escluso Jack.

Per strada lui le prese la mano e disse: «Sono contento di averlo conosciuto. È bello vedere qualcuno della famiglia».

«Be’, lui non è proprio della famiglia».

«Ma è come se lo fosse. Comunque è un tuo buon amico».

L’anno nuovo cominciò con giornate miti, asciutte e assolate, nemmeno una goccia di pioggia. Più tardi non ebbe più memoria di quando ne avessero parlato per la prima volta: non parlavano spesso della guerra, ma l’imminente sbarco in Francia e l’apertura del secondo fronte erano argomento di conversazione costante a Home Place, sui giornali e tra la gente in treno. «Quando credi che succederà?», gli domandò un giorno con indolenza.

«Presto, spero. Ci vuole il bel tempo però. E da queste parti a quanto pare bisogna aspettare l’estate. Non preoccuparti, cara. Ci vorrà ancora un po’».

«Preoccuparmi? Perché? Tu ci andrai?».

«Sì», disse lui.

«In Francia?».

«Ma certo».

«Per quanto tempo?», domandò scioccamente.

«Per tutto il tempo che ci vorrà», disse. «Sta’ tranquilla. Sono solo un giornalista, una specie di testimone oculare. Non combatterò».

«Ma potresti...». La invase il terrore e non riuscì a proseguire.

«In gennaio sono stato in Italia. A fotografare gli sbarchi».

«Non me ne hai mai parlato!».

«No, ma sono tornato sano e salvo. È il mio lavoro. Non ci saremmo mai incontrati se non facessi questo lavoro». La scosse con dolcezza per le spalle. «Basta, adesso».

«Però me lo dirai... mi avvertirai... prima di partire?».

Lui restò in silenzio.

«Jack! Ti prego...».

«No», disse lui seccamente. «Non lo farò».

Poi aggiunse. «Finiremo per litigare se non stiamo attenti. Non parliamone più».

Da allora erano passati tre mesi ed era cominciata l’estate. In campagna fiorivano le rose selvatiche e in città, in mezzo ai ruderi delle case bombardate, crescevano gli epilobi. Mentre attraversava il fiume prima di entrare in stazione, il treno rallentò sul ponte, come capitava spesso, e le si offrì di colpo la vista dello sbarramento di palloni antiaereo che ondeggiavano scontrandosi nel cielo già ingombro di nuvole in fuga, che gettavano una luce inquieta sul fiume grigiastro. Il treno arrivò alle sei del pomeriggio ed ebbe il tempo di prendere il 9 per Knightsbridge e arrivare all’appartamento prima di lui. Era lunedì, un giorno della settimana in cui non erano soliti vedersi, ma quella volta i loro piani per il fine settimana erano andati a monte: lui aveva lavorato molto ed era andato spesso a Sud, sulla costa. Anche il fine settimana precedente era stato interrotto da una chiamata in servizio. Quel lunedì però era andata a Londra per un appuntamento dal dentista, la mattina del giorno dopo, e avevano stabilito al telefono di passare insieme la notte precedente.

In casa c’era odore di chiuso. La finestra grande non si apriva. Per cambiare un po’ l’aria dovette spalancare quelle più piccole in cucina e in bagno. Jack non le apriva mai: in casa gli piaceva il caldo, le aveva detto, ma quando beveva un drink voleva che fosse bello gelato e soffriva per la mancanza di ghiaccio e congelatori. Era tutto in bell’ordine, il letto rifatto, non una tazza sporca in giro, solo mezza bottiglia di latte sopra lo stipo che usava come dispensa. Si preparò un tè leggero. Poi decise di fare un bagno e cambiarsi prima che Jack arrivasse. Perché quella era ormai casa, pensò. Non era più spoglia come i primi tempi: Jack aveva accumulato dei libri, lei aveva portato dei vestiti e c’erano due manifesti della Shell che aveva comprato lui, uno di Ted McKnight Kauffer e uno di Barnet Friedman.

Quando ebbe finito di cambiarsi erano quasi le sette e mezza, e lasciò la porta socchiusa in modo da sentire quando Jack avrebbe salito le scale. C’era una pila di numeri del «New Yorker» che si era fatto spedire, e cercò di calmarsi con quelle, ma cominciava a essere davvero in ansia. Aspettò fino alle otto e poi compose il numero del suo ufficio. Era un numero diretto, non dovette passare per il centralino. Lo lasciò squillare e squillare, ma nessuno rispose. Dev’essere per strada, pensò senza crederci.

Aspettò a lungo e Jack non arrivò. Alle otto e mezza si versò del bourbon con un po’ d’acqua, trovò il pacchetto sgualcito di Lucky Strike che lui teneva sempre nella tasca della giacca e ne fumò una solo per il conforto che le dava l’odore. Doveva essere stato chiamato, ormai era improbabile che tornasse a casa. Il cielo si fece color lavanda, il vento si calmò ma le nuvole restarono. Si sedette vicino alla finestra e stette a guardare la luce che calava finché non fu buio. Solo quando sentì in lontananza i rintocchi del Big Ben dalla finestra aperta della cucina, mentre si versava un secondo bicchiere di bourbon, le venne in mente che poteva trattarsi dello sbarco. Forse era questo: era andato via senza farle nemmeno un saluto, per chissà quanto tempo, incontro a chissà quali pericoli – su questo non si faceva illusioni. Migliaia di uomini che scendevano dalle barche e raggiungevano a piedi spiagge dove i tedeschi li stavano aspettando... come poteva non essere una carneficina? Jack poteva dirle quello che voleva sul fatto che lui era lì solo come “testimone”: i proiettili potevano raggiungerlo né più né meno degli altri. Non poteva restare lì dentro tutta la notte, senza sapere. Decise di andare al pub in fondo al vicolo, ordinare qualcosa e chiedere se c’erano state notizie: di sicuro qualcuno avrebbe saputo risponderle. Non era mai andata in un pub da sola in vita sua, e in circostanze normali avrebbe fatto di tutto per evitarlo, ma era troppo disperata per preoccuparsene, e quando ogni singolo uomo nel piccolo locale saturo di fumo la guardò con quel misto di curiosità e riprovazione riservato alle donne che entrano in posti simili senza un accompagnatore, li ignorò, andò dritta al banco e chiese un whisky, e dopo aver pagato domandò al barista se c’erano state novità. Novità proprio no, disse quello. Che gli Alleati erano entrati a Roma di certo lo sapeva, no? Il re Vittorio Emanuele, chiunque fosse, aveva abdicato in favore di un tale di cui non conosceva il nome. «Non posso dire che m’importi. I reali degli altri paesi non sono affar mio».

Nessuna notizia. Avrebbe potuto dargli un bacio. Trangugiò il whisky in un sorso solo. Tornata nell’appartamento, si spogliò, si avvolse nella vestaglia di Jack e si addormentò.

Seppe che lo sbarco era cominciato quella mattina mentre era sulla poltrona del dentista, con la bocca piena di batuffoli d’ovatta. Chiuse gli occhi perché le lacrime non scendessero, ma fu uno sforzo vano.

«Coraggio, coraggio, Mrs Cazalet. Non le farò alcun male, non ho ancora nemmeno cominciato. Una piccola iniezione e non sentirà nulla».