Quattro
Cressida

Quando era sola, Cressy sapeva essere una compagnia originale e piacevole. Aveva uno spiccato senso del ridicolo e considerava se stessa una fonte continua di situazioni che lo sollecitavano. Con gli altri era una sentimentale convinta, che si concentrava su quegli aspetti dell’esistenza che non dipendono dall’intelletto. Perciò assumeva pose da emotiva e poi aveva difficoltà, talvolta insormontabili, a sostenerle fino in fondo: gli altri la provocavano e lei vacillava, e le pose di solito non reggono a lungo. Anche se di solito, dopo l’evento, veniva invitata a proseguire la serata a casa di qualcuno, la situazione le sembrava sempre troppo più grande di lei, e allora si sentiva come una pagliuzza in un vortice, un sassolino bistrattato dalla risacca: eseguiva il suo numero con impegno spasmodico tanto da dimenticare chi era in realtà. Ciò che vi era di meglio in lei non lo conosceva nessuno, ecco perché scandagliava il terreno alla ricerca costante di qualcuno con cui poter comunicare, con cui ridere, con cui essere se stessa nelle sue varie personificazioni. Era affabile, di bel­l’aspetto, aveva una piccola rendita e coltivava un’arte nobile, e sebbene tutto ciò facesse di lei la candidata ideale a un matrimonio con un bravo giovanotto operoso, piacente e di belle maniere (uno le cui illusioni riguardo alla vita fossero già andate in frantumi da tempo), questo non era ancora accaduto. Lo avevano impedito il suo carattere e un paio di sfortunati eventi capitati in passato. A parte questo, le sue notevoli qualità erano naturalmente tali da condurla in più di una direzione. Tutti gli uomini, e gran parte delle donne, sono persuasi che il compito delle donne sia piacere: accessori di lusso dotati di grande versatilità. Cressy, con la sua indole amabile, non tralasciava mai di fare almeno un tentativo in tal senso, ottenendo un successo spesso insidioso. Piacere voleva dire assomigliare al modello ideale di donna che un uomo riteneva di meritare in base alla propria posizione sociale e alla propria intelligenza, e dato che tutti sono assai rigorosi quando si parla dei loro diritti, quell’ideale era di solito insostenibile. Le sue doti fisiche peggioravano la situazione: certe volte era bella di una bellezza fosca, inquieta, disperata, il genere di bellezza che suscita un’ammirazione smisurata e quei tipici commenti ipocriti che fioccano quando si giudica qualcuno in base all’aspetto, e non in base all’esperienza o al desiderio. Lei aveva l’aria di una donna che dovrebbe o potrebbe essere, o è stata in passato, il grande amore di qualcuno, e questa era una sfida irresistibile per molti uomini che avevano già avuto ciò che potevano permettersi. La sua rendita le offriva una discreta varietà di opzioni, e il fatto che fosse una concertista seppur modesta aggiungeva in dote al potenziale consorte la possibilità di consolarsi almeno con la sua arte: un tale balsamo, una tale elevazione! E se non è un piacere quello...

Da vent’anni le sembrava di essere sempre intenta a cominciare qualcosa, con l’idea, l’intenzione, la speranza che fosse duratura, e a lungo andare la capacità di durare nel tempo era diventata una qualità astratta, da applicare indiscriminatamente a qualunque nuova relazione. Sospinta dal bisogno di un pur traballante sostegno emotivo, si era trascinata dietro la propria carriera, persuasa che questa avrebbe potuto darle le soddisfazioni a cui aveva sempre aspirato, ma solo se avesse avuto una solida base (un uomo da amare e che la amasse). Quando pativa una delusione amorosa, di solito ricorreva alla musica (dopo un’angosciosa fase di vuoto totale) e allora incontrava l’uomo successivo, di solito uno che si dichiarava anche lui devoto all’arte. Lavorava indefessamente per settimane, mesi, persino un anno, dando così, senza volerlo, un’impressione del tutto falsa. Una bella ragazza, seria, ombrosa, con un discreto talento da cui cercava di trarre il massimo; senza legami sentimentali e con mezzi sufficienti a coltivare la sua passione, un bello strumento e vestiti di sublime semplicità ed eleganza per i concerti alla Wigmore Hall. Un matrimonio alle spalle: lui era morto in guerra. Niente figli. Triste, ma così seducente e senza complicazioni. Doveva esserci dietro un qualche amante...il classico mascalzone cinico ed egoista che in un paio di serate porta alla rovina ragazze sensibili e intelligenti, fa scempio dei loro sentimenti più delicati parlando nient’altro che di soldi ma è abbastanza bravo a letto da rendere credibili le più sfacciate bugie riguardo al futuro. Invece non c’era mai stato un retroscena simile, perché Cressy era una monogama appassionata, e così chi la voleva se la prendeva, passava con lei un paio di serate (magari di più, ma non poteva saperlo da una settimana all’altra...«in ogni caso ti telefono, perciò resta in casa», e lei, povera sciocca, non sarebbe uscita per nessun motivo al mondo) e faceva scempio dei suoi sentimenti con quello che aveva a disposizione.

Sono lo zimbello del mondo, pensava ora, in piedi accanto alla finestra della sua camera. Credo a tutto. Non c’è nulla che loro dicano e che io non accetti istantaneamente come verità rivelata, magari un po’ abbellita perché m’illudo anche che abbiano a cuore i miei sentimenti.

Era rimasta lì dove Emma l’aveva lasciata: aveva smesso di piangere, ma poi la tentazione di telefonargli l’aveva assalita. Cominciava sempre con un’idea casuale: perché non chiamarlo? Mi basterà sentire la sua voce per sapere come stanno le cose. L’idea veniva di solito scartata con spregio: un po’ d’amor proprio, idiota, così sembrerà che prendi tutto troppo sul serio. E il pensiero successivo era: ma io non ne ho, di amor proprio, e prendere le cose troppo sul serio è proprio da me, che sono in effetti un’idiota. Che male poteva fare una telefonata? A quell’ora in casa c’era solo lui, in ufficio non andava mai prima delle dieci. Fosse stata sua moglie, si sarebbe dedicata ai piccoli rituali di coppia che nella sua immaginazione rendevano deliziosa la vita della gente sposata (e innamorata, va da sé). Lei invece non ci era riuscita, nemmeno nel periodo in cui aveva avuto un marito. Qualche volta lei e Miles avevano provato a immaginare una vita insieme dopo la guerra, ma erano sempre piani grandiosi, volutamente vaghi e iperbolici. Avevano mantenuto un reciproco riserbo; si erano sempre separati, se ne rendeva conto ora, con l’acuta e fondata consapevolezza che quello sarebbe potuto essere il loro ultimo incontro, e questa paura, che non veniva mai nominata se non in modo ellittico, aveva ridotto la loro unione a una sequela di ripensamenti, piani a breve termine, insomma alla semplice accettazione dell’emergenza. Si era sposata appena diciottenne e in stato di shock: suo padre era morto da poco, e non c’era stato nessun altro a consigliarle di pensarci bene. Aveva voluto sposarsi a tutti i costi per fuggire da un ambiente in cui tutto le suscitava associazioni intollerabili, dove le persone a lei più vicine, d’un tratto e senza motivo apparente, avevano abbandonato i ruoli consueti per mostrarle una faccia nuova e spaventosa, irriconoscibile, perfida.

Era stata una diciassettenne inesperta e persa nei suoi sogni, un’anima che si contentava di poco, con preoccupazioni semplici, tutta concentrata sulla musica. A quei tempi le emozioni non avevano sfumature: le persone intendevano dire quello che dicevano e dicevano tutto quello che dovevano dire. Ci si muoveva lungo la linea della vita, che allora appariva lunghissima, verso una destinazione sconosciuta e nondimeno favolosa: ma la direzione da prendere era decisa in partenza, come per un treno che si muova lungo il suo binario. Diventare una concertista, avere dei genitori nei quali si esaurisse il suo orizzonte sociale, una sorella più giovane con cui godere del piacere e del privilegio di essere grande e poi... la scoperta delle gioie e dei dolori di un amore segreto.

In seguito si sarebbe concessa il ruvido conforto di non essersi, almeno, mai resa ridicola. Oggi invece una parte di lei cominciava a sospettare di non aver fatto altro in vita sua.

Alla domanda di Emma – avrebbe sposato Dick, se non avesse già avuto una moglie? – aveva dato una risposta prefabbricata (quella domanda se la sentiva ripetere ormai da diversi anni), ma nelle ore seguenti la sua eco l’aveva come risvegliata, gettandola nella confusione. E così quella mattina, sapendo che la situazione con Dick era giunta al capolinea e che la giostra di scenate e riconciliazioni aveva ormai logorato entrambi (anche se sapeva che, tornato da Roma, sarebbe di certo tornato anche da lei), decise di capire in che modo si potesse dirottare in una direzione nuova quel copione arcinoto. Già se lo immaginava mentre, con quel misto di senso di colpa, stanchezza rabbiosa, paternalismo e disinvoltura, le domandava: «Allora, che hai fatto di bello?». Lei gli avrebbe riservato una freddezza che a malapena conteneva la violenza dei suoi veri sentimenti. Gli avrebbe risposto con qualche noncurante bugia che lui ben presto avrebbe smascherato, insieme alle giustificazioni livorose e alla finta indifferenza, restando esposta nel suo risentimento come in un orrendo costume di lusso. E dietro il risentimento (ormai reciproco perché inesorabilmente contagioso: lui le avrebbe teso la mano e lei gliel’avrebbe sfiorata con dita gelide di perdono negato) cosa c’era? Ciò che per anni si era ostinata a chiamare amore, magari con un po’ di chiaroscuro in più. Ma la parola “amore” serviva ormai più che altro a stendere una patina di nobiltà su quel genere di situazioni. Che ora cominciavano ad apparirle come semplici risposte al suo bisogno di esserci agli occhi di qualcuno, perché essere vista per lei era importante al pari di essere. Era da questa posizione che aveva sempre immaginato di amare qualcuno: essere elogiata come ricca senza aver regalato mai niente a nessuno, godere di tutti i benefici del dubbio, essere costantemente sotto lo sguardo comprensivo di un altro...da questo doveva nascere l’amore. E nel frattempo sforzarsi di imitare qualche virtù poteva anche essere considerata una forma d’incoraggiamento, piuttosto che un raggiro. Eppure l’intero edificio puntualmente crollava perché né lei né Dick (né Edmund, Joe, René, Gilbert, Tom, Sebastian, Nils, Graham e Harry) erano riusciti a tenere in vita le rispettive illusioni: a un certo punto non avevano saputo sostenere il peso dell’immagine che avevano costruito l’uno a beneficio dell’altra. Cressy sentiva che l’unico obiettivo da perseguire e poi mantenere con tenacia era l’amore; poi però le era stato d’intralcio il fatto di non avere le idee chiare su cosa fosse l’amore, e così si era ostinata a vederlo un po’ dappertutto, tanto per non sbagliare, o per sbagliare a colpo sicuro. Se fosse rimasta sposata, tutto questo le sarebbe successo? Difficile dirlo, perché di quei pochi mesi non aveva ricordi legati al matrimonio, e la morte di Miles aveva posto un sigillo di irrealtà su tutta quella parte della sua vita.

Se le avessero chiesto quale era il ricordo più vivido che aveva del suo breve matrimonio con Miles, avrebbe risposto senza alcuna esitazione: la nostalgia di casa. (Non che nessuno glielo avesse mai chiesto davvero, perché la gente aveva in testa tutta un’immagine edulcorata e nostalgica dei coraggiosi ragazzi e delle valorose mogli e vedove dell’ultima guerra, e la banale nostalgia di casa gli sarebbe sembrata una cosa troppo meschina). Non si sarebbe mai aspettata di sentirsi in quel modo, e sul momento naturalmente soffrì in silenzio, senza farne mai parola con Miles né con altri.

Miles era stato messo al comando di un cacciabombardiere ancora in costruzione a Cowes, e finché era in corso il collaudo la sera poteva tornarsene sulla terraferma da sua moglie. Questo voleva dire che cenavano e dormivano insieme, poi lui la lasciava al mattino, calda come un uccellino e, secondo il suo quadretto idillico, felice e contenta. Ma Cressy non aveva mai abitato in albergo in vita sua. La prima mattina le ci vollero cinque minuti buoni per capire che lui sarebbe rimasto fuori per tutto il giorno, che non lo avrebbe rivisto prima di sera. «Ma io che farò?», gli aveva chiesto in preda al panico.

Miles era rimasto perplesso. «Io darei un’occhiata all’isola. È molto bella, sai?». C’era stato prima della guerra.

«E per pranzo?».

«Va’ in sala da pranzo e ordinalo, che diamine... Accidenti!». Si stava radendo in fretta con il rasoio a mano libera, e quella domanda così disarmante lo aveva distratto, cosicché si era tagliato. «Che domande», aveva borbottato poi premendo sulla ferita un pezzetto d’ovatta.

Lei se ne stava a letto a guardarlo mentre si vestiva, lesto ed efficiente: mutande e canottiera – così sembrava uscito dal cinegiornale; calze nere e giarrettiere gli donavano un tocco circense; poi infilava i gemelli nelle asole di una bianca camicia inamidata: una volta abbottonato, eccolo trasformato nel classico ufficiale belloccio e un po’ tonto delle commedie americane; dopo si pettinava i sottili capelli biondi con la riga al centro, si faceva il nodo alla cravatta piuttosto unta e, infine, controllava la propria immagine nello specchio con quello sguardo intenso e cieco di certi autoritratti. S’infilava e allacciava i pantaloni neri tintinnanti di monete, a cui le bretelle donavano un’aria sdegnata e insieme farsesca. Solo con la giacca nera e le due spighette dorate assumeva l’aspetto un po’ anonimo che gli era tipico nelle ore diurne. Lei lo aveva osservato sperando che quel rituale si protraesse un altro po’ e chiedendosi come avrebbe fatto ad affrontare la giornata con così poche informazioni; poi lui si chinò su di lei, le baciò un orecchio e una ciocca di capelli. «Buona giornata». E se ne andò lasciandola lì a fissare la porta chiusa. Come i cani, pensò. Non è che amino davvero le persone: è che soli in casa, senza di loro, si sentono persi.

I primi minuti della lunga assenza di lui li aveva trascorsi a letto. Stare coricata di schiena le risultava innaturale: era la posizione in cui dormiva e che in quel momento – con il senso di abbandono che provava, aggravato dal buio e dal silenzio – si prestava a una serie di pensieri di morte: la guerra, Miles che poteva restare ucciso e lei che era sua moglie, non ultimo il fatto di trovarsi di fronte all’enigmatica prospettiva (una delle tante a dire il vero) di vivere in albergo. Erano solo le otto e cinque: quasi dodici ore da passare in qualche modo. Non era particolarmente piccola come camera, eppure dava la sensazione che là dentro non si potesse fare altro che stare a letto. Meglio alzarsi e dare un’occhiata all’isola.

In giro però c’erano solo uomini: circa sessantamila in effetti, come avrebbe scoperto in seguito, ma sembravano anche di più perché di donne se ne incontravano pochissime. Risalì la stretta strada principale di Cowes pensando che, se fosse arrivata al fiume, avrebbe potuto vedere Miles sulla sua nave. Ma l’onnipresenza degli sguardi maschili, così insistenti e irresponsabili, la indusse a tornare indietro. Essere fissata da gente sconosciuta era ancora peggio dei fischi, dei gridolini, dei borbottii incomprensibili e delle risate che sembravano suggerire una conoscenza di lei che non poteva né voleva essere reciproca. Nella mente le sfilò una successione di pensieri come: “Ho le gambe nude, Ho i capelli troppo lunghi, Ho pur sempre l’anello al dito, Certo però che potevo chiudere anche l’ultimo bottone della camicetta”. E infine: “Non conosco nessuno su quest’isola, nessuno a parte Miles. E non so dove sia”. Quegli uomini, inattaccabili in quanto maschi e protetti dall’anonimato delle loro divise tutte uguali, sembravano sapere con esattezza chi fossero e cosa dovessero pensare di lei... Le gambe le tremavano come se non conoscesse la distanza fra i propri piedi e il pavimento; aveva il fiatone e non sapeva dove posare gli occhi senza correre rischi. Non stava vedendo nulla dell’isola: tanto valeva tornare all’albergo (“ma non posso passare tutto il giorno a letto!”).

Rifare la strada significò incontrarne alcuni per la seconda volta: adesso fingevano di conoscerla, cosa che forse le risultava ancora più molesta.

Svoltato l’angolo, si ritrovò di fronte a un negozio di dolciumi: la porta era aperta e, siccome dietro al banco c’era un’anziana donna, decise di entrare e comprare delle caramelle alla frutta. Era il primo acquisto che faceva coi soldi di Miles e non era certa che lui sarebbe stato d’accordo. “Forse non devo dirglielo per forza”. A lui non piacevano i dolci, ma del resto mezzo scellino non era una gran spesa.

Quando tornò in albergo, la cameriera stava rifacendo la camera; vagò per l’edificio e si ritrovò infine in un ambiente denominato “salotto”. Salotto? Era pieno di sedie scomode, grosse foto incorniciate di barche da corsa classe J di nome Rainbow, Endeavour, Astra e via dicendo; c’era anche un piano verticale, col coperchio chiuso a chiave. Si sedette con una copia vecchia di due mesi di «Yachting World» – non doveva essere particolarmente interessante nemmeno appena uscita – e una caramella di colore rosa. Una pendola emetteva un ticchettio noioso. Erano le nove e un quarto e quando una ciocca di capelli le restò impigliata in una delle borchie d’ottone della sedia l’assalì la nostalgia di casa, le venne la nausea, sentì lancinante la mancanza di Emma, della sua stanza e del loro labrador giallo, e poi quella del bellissimo, soave Blüthner che era stato l’ultimo regalo di suo padre, del senso d’intimità domestica in cui la privacy era una caparbia conquista quotidiana e non questo isolamento in un luogo sconosciuto, interrotto dalle visite di un estraneo gentile ma imperscrutabile. Iniziò così la “nostalgia di casa”, che le provocava nausea, spavento e tristezza. Forse era la guerra a oscurare il senso del matrimonio; dopotutto di gente che si sposava a diciotto anni ce n’era stata sempre. Non può essere un fatto di età. Be’, in casa sua non avrebbe potuto restarci comunque, perciò non aveva senso struggersi a quel modo. Prese una matita che aveva in tasca e si mise a stilare una lista di cose da fare in quel limbo. Leggere, fare un maglione per Miles, provare a farsi aprire il pianoforte, riprovare a fare una passeggiata. Non le venne in mente altro, ed erano solo le nove e venti...

 

Erano le dieci, ormai Dick doveva essere arrivato in ufficio: fu un sollievo sapere che non poteva più telefonargli. Fece il bagno e dovette farsi forza per mettere piede in sala da pranzo, dove avevano trascorso quella sera interminabile girando intorno a una cosa dolorosa, vera e piccola, così piccola che nessuno dei due aveva avuto il coraggio di toccarla.

«Perché le cose devono restare così come uno le ha lasciate?», sospirò dopo aver aperto la porta. I cuscini avevano le loro forme, c’erano ancora i fazzoletti appallottolati e le tazze con uno strato di zucchero sul fondo, le sonate di Haydn aperte sul leggio – la pagina cominciava con un do maggiore. Tutto poteva restare così com’era per altri cent’anni: intatto, immutabile, un trionfo dell’inanimato da far pensare a Miss Havisham, alla regina Vittoria, a quel senso di isteria patetica. Prese a rassettare con un’energia che si faceva più furiosa di minuto in minuto, finché non venne il turno dello spartito. Ma non si poteva trattare a quel modo un’apertura tanto sublime: si fermò a leggere altre pagine. Haydn non va d’accordo coi brutti sentimenti. È così bello, pensò, così calmo, così rispettoso. Se solo, la sera prima, avesse detto semplicemente: «Tu mi ami?», forse lui sarebbe stato capace di rispondere: «Non abbastanza». Perché non lo aveva chiesto? Avrebbe potuto scoprire che tutto sommato non era così terribile e anzi forse era meglio così: lui non l’amava ma almeno la cosa era chiara a entrambi. Di certo lo avrebbe preferito a quella giostra emotiva, alla ricerca di posizioni sempre più improbabili. Lui la voleva, ed era il tipo d’uomo per cui affezionarsi agli oggetti di desiderio è un punto d’onore. «Sono pazzo di te!», le aveva detto con l’aria sorpresa e compiaciuta di chi ha appena scoperto di possedere un raro talento: lui indietreggia, lei avanza. Non che lei fosse migliore: anche lei lo voleva e voleva che lui l’amasse, e vedersi negato quell’amore erodeva e vanificava qualunque sentimento puro, qualunque considerazione di lui, figuriamoci l’amore. In fondo sapeva che non era l’uomo adatto a lei, ma quando erano insieme o anche quando semplicemente parlava di lui con Emma, qualcosa (una perversione? Il semplice bisogno?) la spingeva a far finta che invece lo fosse. Esigeva premura e compassione per questo, dato che la sua ferita pulsava troppo in profondità perché qualcuno potesse vederla, e trovarsi da sola con quella ferita la spaventava più di ogni altra cosa. Ciò che è davvero buono dà sempre un’impressione di naturalezza, pensò con malinconia, e rivolse con fermezza la propria attenzione a Haydn.

Il telefono squillò alle dodici. Si era esercitata per due ore; le doleva di nuovo il muscolo del braccio destro, sopra il gomito – colpa senz’altro di quel trillo su quattro note che aveva eseguito troppe volte – e poi doveva andare a pranzo con sua cognata. Alzò la cornetta e parlò: ci fu un silenzio, poi uno scatto e il tintinnio di alcune monete. Dick! Di colpo era tornata ai primi minuti di quella mat­tina.

«Cressy, sei tu? Ho pensato volessi sapere che la conferenza finisce alle quattro del pomeriggio di sabato. Prenderò il volo di ritorno alle sei. Ci vediamo al mio arrivo. Non restarci male se non dovessi fare in tempo».

«No, non preoccuparti». Una parte diabolicamente stupida di lei le fece aggiungere: «Però ci proverai, vero?».

«Ma certo. Va tutto bene?». Benissimo, non c’è che dire.

«Sì».

«Bene». Il suo tono era molto scettico. «Le cose mostrano sempre un volto migliore, al mattino».

Oh, no, ti sbagli. Ma disse: «Non saprei».

«Abbi cura di te».

«Credo che... andrò via per il fine settimana».

«Che bella idea! Io probabilmente cenerò in aereo, perciò non devi preoccuparti di questo». Si ricordò di quando Dick aveva usato l’aggettivo “avvilente” a proposito della vita da scapolo nel suo appartamento di città: adesso lo odiava, lo odiava profondamente.

«C’è qualcosa che posso portarti?».

«Una bottiglia di Alpestri». Sapeva che sarebbe stato un grosso incomodo.

«Alpestri?».

«Al-pes-tri».

«Ci proverò. Devo andare ora...È un profumo?», domandò infine.

«Un liquore. Digestivo».

«Hai difficoltà a digerire?».

«No. Sto benissimo. Tutto a posto».

«Tutto a posto», ripeté. «Adesso devo proprio andare». Ma andare dove, perdio, a mezzogiorno passato?

«Buon pranzo», le disse un attimo prima di riattaccare.

Non è affatto tutto a posto, pensò. Sto diventando una strega. Lo odio quando finge che vada tutto bene; non sono capace di farlo anch’io. O sono triste o divento una strega. E scommetto che lui mi preferisce strega. Dobbiamo smetterla: smetterla di desiderare ognuno che l’altro sia una persona nuova. Però sarebbe bello se lui fosse diverso, pensò poco dopo mentre rovistava nel disordine dei suoi cassetti in cerca di una cintura. Sarebbe bello se fossimo diversi entrambi: due persone completamente diverse e follemente innamorate.

La sorella di Miles si chiamava Ann Jackson. Era alta, ossuta e scialba: anche quand’era una ragazzina (e tale era quando Cressy l’aveva conosciuta) aveva quell’aspetto un po’ incolore che le donne che non amano la competizione chiamano buon gusto. Aveva i capelli sottili come quelli di Miles, ma di un castano senza vita; gli occhi né azzurri né grigi, abitati da una varietà minima di espressioni; la voce era calma e piatta, la corporatura esile e informe con splendide mani e belle caviglie che non bastavano però a compensare il resto. Quando lei e Cressy si erano conosciute, Ann era sposata da sei mesi con un certo maggiore Jackson. Portava un maglioncino azzurro, una gonna di flanella grigia con l’orlo irregolare e una fila di piccole perle che diventavano più grandi al centro. Suo marito era in missione nelle truppe speciali e qualcuno, probabilmente Miles stesso, l’aveva compatita apertamente perché, dopo sposati, avevano passato insieme appena tre settimane. In seguito, a Cressy era rimasto il vivo ricordo della voce bassa e neutra di Ann mentre rispondeva: «Siamo stati fortunati ad averle, quelle tre settimane». Il maggiore Jackson si trovò coinvolto nel bombardamento di Saint Nazaire, sotto il comando di Ryder: non tornò coi suoi compagni e fu dato per disperso. Ann lo attese finché qualcuno le disse che forse qualcun altro poteva averlo visto a bordo del cacciatorpediniere Hunt che era stato fatto saltare al porto. Della nave non erano rimasti che detriti, nessun sopravvissuto. Così una sera Ann era andata sulla spiaggia vicino Lewes e aveva raggiunto la riva senza voltarsi. Fu solo grazie a un pescatore, il quale aveva notato un paio di scarpe di buona fattura lasciate in bell’ordine sul bagnasciuga, che fu ripescata all’ultimo momento e rianimata suo malgrado. Cressy ricordava bene il proprio stupore dinnanzi a quella vicenda: aveva modificato profondamente le sue convinzioni sull’amore, sulla morte, sull’apparenza delle persone, su Ann stessa. Poi il maggiore Jackson aveva fatto ritorno: che cosa straordinaria doveva essere vivere accanto a una persona che aveva dimostrato con il suo gesto di preferire la morte a una vita senza di lui... quel pensiero aveva ossessionato Cressy al punto che aveva sempre avuto un po’ di soggezione nei confronti di entrambi. Era morto due anni dopo di polmonite bilaterale, a bordo di una nave d’assalto diretta nel Mediterraneo. Miles era già morto. Da quel giorno, Ann le aveva riservato una bontà illimitata e un po’ disumana agli occhi di Cressy, che non sarebbe mai stata capace di ricambiarla. Cressy aveva capito in fretta di essere necessaria ad Ann, costituendo l’esempio vivente di come si potesse continuare a vivere anche con un dolore totale e implacabile, ed era riuscita a ricambiare la sua bontà. Cressy non aveva altre amiche come Ann. Ann non aveva altre amiche come Cressy, e in vent’anni non è che avessero esplorato più di tanto le loro considerevoli differenze. Però sapevano quasi tutto di ciò che accadeva a entrambe. Cressy rispettava Ann anche se in fondo la vita della cognata le sembrava di una noia intollerabile (prestava servizio come giudice onorario al tribunale dei minori e si prodigava per i bambini ciechi), e Ann provava un istinto di protezione nei riguardi di Cressy, la cui vita le sembrava una giostra troppo veloce di estenuanti eventi mondani.

Arrivò a pranzo in ritardo, ma solo quel tanto che Ann si aspettava da lei. Si baciarono, Cressy si scusò, Ann le indicò il soggiorno, dove un tavolino basso era apparecchiato con cura davanti al fuoco, vicino al quale il gatto birmano di Ann sonnecchiava in voluttuoso abbandono.

«Beviamo un goccio di sherry».

Al tintinnio dei bicchierini contro il collo della bottiglia, il gatto sollevò il capo e le rivolse la sua leggendaria occhiata sprezzante color topazio, quella che riservava ai perfetti estranei. Poi tornò a poggiare con delicatezza la guancia sul tappeto: lo sherry non faceva per lui. Cressy si ricordò d’un tratto che era tutta la mattina che aveva voglia di fumare una sigaretta, e ne prese una dalla scatola d’argento, omaggio del reggimento al maggiore Jackson inaspettatamente tornato da Saint Nazaire. L’appartamento era pieno di oggetti del genere. Ann era una fumatrice accanita, e quando uscì dalla cucina reggendo un vassoio, aveva la sigaretta abilmente sospesa tra le labbra. Le chiese ansiosamente: «Saki è stato gentile?».

«Come sempre. Finge di non avermi mai vista».

Ann lo prese in braccio e lui si contorse, assumendo un’aria da martire e leccandosi i baffi, gesto che per lui era la massima espressione di disgusto consentita a un gatto beneducato. Cressy sentì il dovere, nei confronti di Ann, di fare una carezza al folto pelo color cioccolato, un’iniziativa che Saki tollerò con regale disapprovazione.

«Questo tempo lo disturba», disse Ann prendendo posto su una delle due poltrone di fronte al tavolo.

«Non deve mica uscire».

«Però sa che c’è, là fuori. Hai l’aria stanca, Cressy».

Cressy sapeva che quando Ann diceva questa frase, in realtà voleva dire: “Hai pianto troppo”. Mentre cominciavano a mangiare, fu lei a prendere di petto l’argomento:

«Devo lasciare Dick».

«Lascialo, allora».

«Lo sai che non è così semplice». Ann la guardò, pronta ad ascoltare, e la sua disponibilità colpì Cressy.

«Sarai stufa di ascoltare i miei problemi».

«Non li ho mai capiti fino in fondo».

«Che vuoi dire?».

«Be’... l’idea di lasciare Dick ti preoccupa per te o per lui?».

Cressy finì il suo sherry.

«Per me, immagino... sta diventando tutto spiacevole. E poco importante».

«Se non ti rende felice, dovresti farla finita».

«Ma come si fa a rendersi felici? È questo che vorrei sapere. Non saperlo mi spinge a tentare di arrangiarmi con quello che ho. Una prospettiva davvero meschina».

«Vorresti sposarlo?».

Ci risiamo, pensò. Ma cos’è, un assillo morale? Una premura nei miei confronti? Davvero tutti, o per meglio dire tutte, credono che qualunque relazione valga un matrimonio? Disse in tono piatto:

«Lui non mi ama. Sarebbe insostenibile. Tempo un anno e mi ritroverei in una bomboniera georgiana in mezzo alla campagna del Sussex a chiedermi perché mio marito si fermi a Londra per lavoro tutte le sante sere. Perché me lo domandi, poi?».

Ann si accese una sigaretta e soffiò via il fumo che stava per lambire il musetto imbronciato di Saki.

«Non so... forse per avere un’idea dell’intensità dei tuoi sentimenti. Se ami qualcuno tanto da volerlo sposare, puoi anche sopportare che quel qualcuno ti faccia del male; se invece non vuoi, perché perderci del tempo?». A meno che in qualche modo tu non voglia che ti facciano del male, pensò senza dirlo.

«A meno che io non creda che non si possa essere innamorati senza farsi del male».

Gli occhi scialbi di Ann la fissarono con un affetto un po’ ironico.

«Sul serio... che faresti tu al mio posto?».

«Non me lo stai chiedendo sul serio, vero?».

«L’ho appena fatto!», insistette Cressy.

Ann spense la sigaretta e si tagliò una fetta di camembert.

«Prendine un po’... e che mi dici del resto della tua vita? Sei pur sempre una pianista...».

Cressy la interruppe. «Non sono brava. Poco più che una dilettante, ecco tutto».

«Be’, è pur sempre una tua passione. Ti piaceva insegnare... e non m’interrompere: me l’hai chiesto tu». Offrì a Saki la sua fetta di formaggio che l’addentò grato mettendosi a ronfare. «Per la maggior parte della gente, la vita si divide fra le cose che uno fa da solo e quelle che fa con gli altri. Io credo che la tua vita sia un po’ carente per quanto riguarda il rapporto con le altre persone». Guardò Cressy e poi distolse lo sguardo leggermente troppo in fretta.

«Vedi... le persone come me e te sono costrette a organizzare la propria vita a partire da una mancanza: hai presente... preoccuparsi di come rimediare alla solitudine, e nel frattempo pensare anche a come essere un buon amministratore pubblico, mettiamo. Entrambe le cose, a volte...».

Andò avanti per un po’ su questa china: con una costante delicatezza nei suoi confronti che rendeva fumosi i suoi discorsi, finché non ammise, con una risata piacevolmente autoironica, di essersi ingarbugliata e si alzò per fare il caffè. Ma Cressy sapeva cosa aveva voluto dirle. Non stava parlando delle cose che uno fa da solo o con altre persone, ma delle cose che uno fa per se stesso o per altre persone. Era questo che intendeva. Se si chiedeva ad Ann come stava o quali erano le novità nella sua vita, quasi di sicuro si sarebbe messa a parlare dei suoi ragazzi ciechi: di quello che era riuscita a far iscrivere a una scuola normale e di quello che, grazie a lei, aveva potuto nuotare per la prima volta; dell’incontro assai costruttivo che aveva avuto con il responsabile per l’inserimento di nuovi simboli nel codice Braille, col risultato che uno dei suoi ragazzi ciechi, che sognava di diventare uno scienziato, avrebbe avuto buone possibilità di essere ammesso in qualche università...se uno poi insisteva: «Ma tu, tu, come stai?», Ann probabilmente avrebbe detto qualcosa a proposito di quell’insopportabile felino, Saki. La sua persona, i suoi sentimenti erano cose di cui sembrava non curarsi affatto, e di sicuro non ne parlava: ciò spiegava come mai, anni prima, nessuno aveva avuto nemmeno il blando sospetto che avrebbe tentato di ammazzarsi.

Ann fu di ritorno col caffè ed entrambe aprirono bocca nel medesimo istante:

«Dovrei lasciare Dick».

«Dovresti sposarti».

Ann mise giù il vassoio. «Non ho detto che devi lasciarlo. Ho detto che...».

«Non ne verrebbe niente di buono: pensa alla conversazione che abbiamo appena avuto. La domanda è: che devo fare? Non che non mi piaccia chi sono. Il problema è che non sono felice. Io vivo da sempre in una specie di futuro prossimo che, quando si avvera, rende tutto meschino. È come viaggiare in treno e aver già visto ogni singolo palo del telegrafo che ti scorre davanti. Vorrei un’occasione da cogliere, anche brutta, se di meglio non ce n’è. So benissimo di apparire, o meglio di essere, molto egocentrica e anche noiosa, ma il fatto è che da sola non riesco a darmi degli obiettivi. Voglio dire, se trovassi un uomo che vuole salvare il mondo o che è convinto di poterlo fare, non mi dispiacerebbe lavargli i calzini, ma invece sembrano tutti andare avanti per la loro strada, e ben remunerati per giunta. Io non vado mai a dormire con la sensazione di aver fatto qualcosa di buono o utile, ma solo con la sensazione di essere più vecchia di ventiquattro ore o preoccupata per qualcosa che non ha nessuna importanza, e sapendo esattamente come sarà il mio risveglio il mattino dopo. L’insegnamento! Non sono brava a insegnare, perché non mi importa abbastanza né degli altri né della musica. Non ho niente da perdere, ecco la cosa spaventosa. Anche la mia sofferenza non va mai oltre la mia soglia di sopportazione, una specie di tolleranza cronica. Se pure avessi qualcosa o qualcuno per cui vivere, sarei capace di portarne il peso, la fatica?».

In realtà non era una domanda, ma lo sforzo di non mettersi a piangere l’aveva fatta suonare tale.

Ci fu un silenzio che parve lunghissimo a entrambe.

Ann le spinse davanti la tazza di caffè, aprì il cofanetto appartenuto a suo marito e accese una sigaretta per ciascuna. Poi Cressy disse:

«Credi che potrei venire a lavorare con te?».

«Certo che puoi. Però non credo che ti piacerebbe».

«Non importa. Probabilmente mi farebbe bene».

Ann disse in tono gentile: «Vedi, Cressy, quando si tratta dei miei ragazzi, la priorità che mi do è quello che fa bene a loro».

Cressy la fissò per qualche momento, poi si mise a ridere con gli occhi gonfi di lacrime. «Oh mio Dio! Devo essere completamente impazzita, eh?».

Ann fu sollevata da quel blando scoppio isterico – Cressy che finalmente rideva di se stessa proprio quando nessuno ci sperava più – e disse: «Stai benissimo. È solo che ci hai pensato troppo. Comunque è per te stessa che devi imparare a vivere».

Cressy scostò le mani dal proprio viso rigato di lacrime:

«Lo credi davvero?».

«Non vale solo per te, ma per tutti quanti. Dobbiamo capire che cosa è più adatto a noi; altrimenti non siamo utili a nessuno».

«Sei una persona tanto migliore di me». Si soffiò il naso. «Pensi sempre agli altri. E oltre a essere buona, hai senso pratico».

«È che mi manca il senso dell’umorismo. Non ci riesco, a pensare a me stessa. Ci ho provato, e non mi ha mai fatto ridere».

Questa battuta mise fine alla conversazione. Cressy disse che sarebbe andata nel Sussex e chiese il permesso di telefonare a Emma in ufficio per vedere se voleva un passaggio. Ma Emma non era ancora tornata dalla pausa pranzo. Alle tre meno un quarto. «Magari è un pranzo particolarmente piacevole». Ann sperava sempre che Emma trovasse un uomo da sposare. Cressy le raccontò la risposta che le aveva dato sua sorella quella mattina – che l’uomo che doveva diventare suo marito probabilmente era morto in guerra – e Ann senza troppa convinzione aveva detto: che sciocchezza! L’idea però aveva smosso in lei oscure superstizioni che voleva scacciare il più in fretta possibile.

Mentre si salutavano, Cressy le disse: «Devo lasciare Dick. Lo farò domenica sera. Almeno una cosa è decisa».

E questa fu la ragione principale per cui, quel pomeriggio, mentre preparava la valigia, il telefonò squillò tre volte e lei non rispose.