Uno
Emma
Un mattino di novembre. È venerdì.
Si era svegliata alle sette e un quarto precise, in una cameretta della mansarda in Lansdowne Road. Di lì a quindici minuti sarebbe squillato il telefono e una voce maschile – tutta carica di quel senso di emergenza reiterata che lei associava ai film di guerra: «Enemy bearing green 320» – le avrebbe annunciato che erano le sette e trenta, cosa che a quel punto le sarebbe stata già nota. Ma quando aveva provato a cancellare il servizio, poi non le era più riuscito di svegliarsi da sola. Quei quindici minuti, sorta di preludio alla giornata, potevano certamente essere impiegati in qualcosa di utile o piacevole, ma il più delle volte invece rimaneva distesa rigida sotto le coperte, soggiogata dall’imminenza di quel trillo lacerante e, quando il trillo veniva per davvero, sollevava la cornetta con una furia tale che trascorreva sempre qualche secondo prima che l’uomo facesse sentire la sua voce.
Dopodiché si alzava, accendeva la stufa a gas – un trabiccolo dell’anteguerra ostinato e rumoroso che con una certa riluttanza riversava il suo modesto calore in quel buco di stanza – e poi andava alla finestra. La mansarda somigliava a una soffitta, di quelle che in campagna si usano per conservare le mele e il vestiario smesso; la finestra, per giunta, aveva subito un blando ampliamento a opera di sventati muratori inclini a considerare gli spifferi un inconveniente inevitabile di qualunque intervento architettonico. Una decisa, densa corrente d’aria fredda si sprigionava dagli angoli dell’intelaiatura, ma la vista su Londra, una volta scostata la tendina color ruggine con calendule e farfalle (dono di sua madre), non era poi tanto male. Schiere di cortiletti scuri e prati malconci, un vecchio pero ora spoglio, ritorto e bagnato; l’aria spessa e sudicia, il sole simile a un grano di pepe e un inatteso gabbiano – quasi bello visto da lontano – tutto intento a descrivere in aria mirabili ma vane traiettorie circolari.
La macchia sul soffitto – di caffè, si sarebbe detto – pareva si fosse ingrandita durante la notte. Le sarebbe toccato dirlo ai Ballantyne, prospettiva infausta perché il tetto era affare loro e non potevano permettersi di ripararlo, perciò avrebbero chiamato quel muratore sciagurato che Bill Ballantyne aveva conosciuto in guerra, uno con la faccia rubizza di chi ha vissuto nell’abbondanza e un sorriso infido sempre stampato in faccia. Sorrideva, sorrideva, diceva di sì a tutto... poi, passate un paio di settimane, metteva insieme alla bell’e meglio il lavoro che gli era stato assegnato e immancabilmente combinava qualche guaio. Doveva aver fatto fortuna, a forza di rompere roba. Quasi tutti i suoi clienti erano gente che aveva fatto la guerra con lui, cosa che tendeva per qualche ragione a offuscarne il giudizio: proprio come nel caso di Bill, si basavano tutti sulla nostalgia di qualcosa che era solo nella loro immaginazione.
Il bagno era tutto color pesca sciroppata, ma siccome era stato ridipinto e piastrellato da Mr Goad, le piastrelle avevano le crepe e la pittura si gonfiava qua e là in grosse vesciche. Pure la vasca era scheggiata, con conseguenze dolorose per chi la utilizzava, ma quando Bill gliel’aveva fatto presente, Mr Goad aveva addotto come scusa che avrebbe dovuto aspettare nove mesi per la vasca nuova e che ne aveva scelta una a buon mercato come favore all’amico Bill, da un ordine rimandato indietro dal Venezuela.
Aprì il rubinetto e ripercorse a ritroso il corridoio fino alla porta opposta a quella della sua stanza. Era chiusa, e quando la aprì fu assalita da un tanfo di muffa, fumo di sigaretta, calore vecchio e ansie irrisolte. Era il loro soggiorno e le bastò accendere la luce per rendersi conto che Cressy aveva avuto una delle sue crisi.
Era una bella mansarda spaziosa, col soffitto spiovente e una grossa stufa nera che al momento non funzionava. Osservò i cuscini sparsi a terra, i grossi fazzoletti bianchi appallottolati e ficcati tra i cuscini del divano, le tazze di caffè nero ancora piene e il pianoforte aperto... grazie al cielo la settimana era quasi finita. Prese la caffettiera per portarla in cucina e preparare la colazione.
Come al solito svegliare sua sorella fu un’impresa. I primi segni di vita si udirono quando Emma aveva già messo giù il vassoio della colazione, acceso la stufa, tirato le tende e spento la luce. Cressy dormiva prona, voltata verso il muro, ma appena la luce si spense stese un braccio immacolato e aprì le dita: un altro fazzoletto sgualcito rotolò sul pavimento.
«Caffè», disse Emma asciutta, ma col cuore colmo di pena.
Cressy si rigirò e la guardò. Non disse nulla, ma le lacrime che ancora le gonfiavano gli occhi tracimarono bagnandole il viso. «Dio santo». Si tirò su a sedere.
Emma raccolse il fazzoletto. Era zuppo.
«Ne vuoi un altro?».
Cressy scosse la testa e prese un vecchio cardigan rosa scolorito, se lo mise sulle spalle e vi si strinse come in uno scialle. Poi prese il bicchierino da sherry pieno di succo di limone che Emma le spremeva puntualmente la mattina e lo bevve. Emma, che aveva i brividi solo a guardarla, iniziò a versare il caffè domandandosi se fosse meglio per Cressy parlare e piangere ancora oppure calmarsi per un po’ e ricominciare a piangere più tardi. Il bicchiere da sherry venne rimpiazzato da una grossa tazza di ceramica Wegdwood colma di caffè, ed Emma disse senza troppa speranza: «Non hai freddo, vero?».
Cressy fece di no con la testa e le lacrime ripresero a scorrere. Poi disse: «Va a Roma per il fine settimana. Roma!», ripeté amara.
«E non potevi andare con lui?».
«Non vuole! Potrebbero vederci. Erano mesi che aspettavo questi due giorni...Dio mio, due miseri giorni...e ci mancava la conferenza improvvisa a Roma!».
«Immagino che la cosa non dipenda da lui».
«Oh, lo so. È la vita!». Lo disse con una specie di familiarità rabbiosa, come se sapesse che quella frase l’attendeva al varco comunque, pronta a farla a pezzi. «Avrebbe potuto portarmi con sé, se lo avesse voluto davvero. Ma non appena le cose si fanno difficili, lui rinuncia. Non gli importa poi così tanto».
E se le cose non si facessero difficili, non importerebbe nemmeno a te, non poté fare a meno di pensare Emma; ma come sempre con Cressy (e probabilmente con chiunque), questa non era l’esatta verità.
«Quando torna?».
«Sabato sera... probabilmente. Il fatto è che lo desideravo tanto... era solo... solo...».
«Un po’ di tempo con lui».
«È strano... sembra che a loro non importi. Per loro è come andare ai concerti senza sapere niente di musica. È una specie di passatempo, una cosa senza importanza. La vita vera è un’altra».
«Se non fosse sposato, vorresti sposarlo?».
«Sposarlo», ripeté sognante. «Non lo so. Mi sono sempre sforzata di essere realista, sai, e lui ha sempre avuto una moglie. È questo il punto».
«Ma se trovassi la persona giusta, vorresti sposarti?». Emma fu colta dall’improvviso timore che sua sorella le desse la risposta sbagliata, togliendole ogni via d’uscita e ogni possibilità di provare verso di lei un minimo di simpatia e compassione.
Invece Cressy rispose senza esitare:
«Non chiederei altro! Se trovassi la persona giusta, ce la metterei tutta per far funzionare le cose. Il fatto è che qualcosa in me non va. Tu sei diversa. Deve essere per questo che io ho delle relazioni e tu no... Tu ti sposeresti, vero, se incontrassi qualcuno?».
Si strinse nelle spalle, come se la cappa quasi tangibile di una speranza svanita le fosse scesa addosso al suono di quella domanda. «Oh, be’, io credo che l’uomo che avrei dovuto sposare, chiunque fosse, sia morto in guerra».
Cressy parve sconcertata. «Ma Em, questa è una tua fissazione! Hai tutto il tempo. Hai dieci anni meno di me, che diamine!».
«Sono molto più vecchia di com’eri tu quando ti sei sposata. A ogni modo, non sono certa che il matrimonio mi avrebbe resa così pazzamente felice. Senti... fra un minuto devo andare. Torni a casa per il fine settimana?».
«Forse... ci penso. Può darsi che ci sia la nebbia... ti chiamo». Soffriva della cronica incapacità degli innamorati di concepire un piano al di fuori dell’orbita del proprio amore. Emma la lasciò che almeno aveva esaurito le lacrime e si stava pettinando i folti e lucidi capelli neri che le scendevano in riccioli rigogliosi sulle spalle, dandole l’aspetto di una giovane strega. I suoi anni non li dimostrava di certo.
Povera cara, quanto soffriva, pensò Emma mentre si vestiva. Forse non per la ragione che immaginava lei e che, così credeva, era sempre rimediabile, ma per un motivo assai peggiore, più profondo e insidioso. Quando uno è incline a prendere troppo sul serio la propria ossessione, è facile che diventi noioso per gli altri. Decise di mettere alla prova questa teoria: cibo, poesia, politica, amore. Più o meno funzionava per le prime tre cose... ma prendere sul serio un argomento significa considerarne tutti gli aspetti, nel qual caso un lato risibile deve emergere giocoforza. Che Cressy non prenda la questione abbastanza sul serio? Chi si prende sul serio, del resto, difficilmente s’imbatte in qualcosa di cui ridere, il che vuol dire che la sua visione è parziale. Ecco cosa mi piacerebbe, pensò mentre spegneva lo strenuo focherello che in sua assenza doveva aver avuto una specie di collasso e si era ridotto a una fiammella violacea e intermittente. Mi piacerebbe trovare più cose di cui ridere. Vorrei che la gente venisse a dirmi: «Ecco, questo fa ridere». E lo pensasse davvero.
Si era messa una gonna a pieghe, un maglione blu pesante dal taglio maschile e quelle nuove calze traforate blu che la facevano sentire al caldo ed elegante allo stesso tempo. Prese dall’armadio il cappotto rosso pesante, controllò le carte che aveva nella borsa e poi guardò fuori dalla finestra per vedere se aveva cominciato a piovere. Il gabbiano s’era posato su un comignolo e sembrava bagnato, sporco e solitario; non pioveva ma l’aria era impregnata di umidità grassa, scura; s’immaginò le gocce sospese sulle sue piume e prese un grosso foulard di lana quadrato da mettersi in testa. La testa le fece pensare al soffitto e decise di tornare a dare un’occhiata a sua sorella.
Cressy era seduta alla finestra, scalza e infreddolita e, quando si voltò verso di lei, Emma vide che le lacrime avevano ricominciato a scorrere.
«Credevo fossi uscita. Sembra nebbia, però. C’è un po’ di speranza. O ti sembra vile da parte mia sperare che ci sia nebbia?».
«Certo che no. Ma non c’è nebbia, vieni, dai. Ne saremmo felici in tanti. Potresti tornare sabato».
«Lo so. Ci avevo già pensato. Non è che hai una sigaretta? Una sola. Le mie se le è fumate tutte Dick stanotte».
Mentre rovistava nella grossa borsa stracolma, disse: «Se vedi Ballantyne, gli dici del mio soffitto? Sta peggiorando. E in un punto diverso dall’altra volta. Oddio, non ne ho. Chiedine una a Bill».
«Così mi ricorderò del tuo soffitto. Vuoi davvero ritrovarti Goad che si aggira per la tua stanza mentre tu non ci sei?».
«No, ma ho pensato che la prossima settimana... devo scappare. Lascia stare. Non importa. Ciao... e non ti disperare. Dopo il temporale viene sempre il sereno. Pensa alla tua carriera. Provo a prendere il treno delle quattro e venti». E corse via.
Scese le scale e raggiunse il pianerottolo che dava accesso alle camere, con la sua nube odorosa di bagnoschiuma, le crepe sui muri giallastri e il linoleum verde scuro, poi scese un’altra rampa dove a ogni gradino la parete era adorna di una bruttissima incisione raffigurante un angolo diverso di Venezia (quante deve sopportarne Venezia! Un po’ come i Vangeli, Mozart o il cielo sui calendari) fino al vestibolo, dipinto di un color caffè che però era tale solo a luci spente; superò gli effluvi sensuali delle colazioni altrui e il tavolo dell’ingresso gremito di bollette sormontate da un cappello di feltro a tesa larga; si lasciò alle spalle fucili, mazze da golf e un elmetto tedesco (prima guerra mondiale), oltre a una polverosa testa di tasso dall’aria torva che spuntava dal muro grigiastro come un’irsuta gargolla. Sulla lunetta sopra la porta era dipinto a vernice il numero civico: visto da dietro appariva sformato e bizzarro. Dovette usare entrambe le mani per aprire la porta, e le si rovesciò tutto quanto. Percorse di slancio il vialetto ricurvo, superò la siepe di ligustro grondante e raggiunse il cancello, che quasi a farlo apposta sembrava sempre unto di olio per motori. Imboccò la strada, che in primavera e in estate era bordata di bei giardini traboccanti di lillà, laburni e ciliegi, oltre a pruni, iris e biancospini, con gatti pasciuti che s’infilavano tra le inferriate e anziani portati a spasso dai loro terrier vittoriani ancora più vecchi di loro. Ripensava con nostalgia a questa scena vivace e profumata, mentre si affrettava nell’aria fredda e gocciolante verso la metropolitana, e non le venne affatto in mente lo strazio di dover trascorrere in un ufficio senza aria le poche giornate davvero belle. Stava facendo tardi al lavoro, e quando si è in ritardo tutto il resto passa sempre in secondo piano.
Mentre camminava verso la Holborn, pensava a Cressy. Consapevole che a quella sciocca e avventata domanda sul matrimonio avesse risposto in un modo che serviva solo ad alleviare le sue ansie, era tuttavia molto in pena per l’incerto futuro di sua sorella. Trentasette anni le sembravano un’enormità, anche se mai e poi mai lo avrebbe detto ad alta voce; era difficile emergere come promessa del pianoforte a quell’età, soprattutto per una donna incline a struggersi per uomini distaccati e per di più sposati: il guaio era che gli uomini le impedivano di concentrarsi sulla musica, col risultato che la musica non era mai diventata quel porto sicuro, fonte di conforto e ispirazione, che Emma era certa dovesse essere. Forse Cressy non era uscita immune dal primo disastroso matrimonio. Né dalla morte del loro padre. Aveva voluto sposarsi poco dopo...era stato forse una specie di contraccolpo edipico che l’aveva spinta a fidanzarsi così di punto in bianco con un tale che conosceva appena? Povero Miles: quindici anni più vecchio di Cressy, con tutto quello che già doveva sopportare in Marina. «Niente orari, cibo scadente, per non parlare del mal di mare...», era stato il suo commento durante una delle brevi licenze. Il matrimonio era durato appena un anno perché lui era rimasto ucciso durante il bombardamento di Dieppe. Ripensò al fragore dell’artiglieria che le aveva fatto tremare le viscere e le ossa mentre scuoiava i conigli sul prato nel Sussex insieme a Cressy, la cui faccia era diventata verde chiaro. Allora aveva otto anni e le era parso incredibile che in un qualunque pomeriggio d’estate potesse aver luogo un bombardamento. «Ti farò un paio di guanti, Em», aveva detto Cressy, ed Emma l’aveva fissata per un po’ mentre appendeva il pellame a un’asse di legno in pieno sole e lo cospargeva di una polvere bianca. In seguito, però, aveva pianto molto e suonato il pianoforte, soprattutto Brahms – pezzi cupi, tristi, impetuosi. Dei guanti si era dimenticata presto. Gli spari di quel pomeriggio erano stati quelli di Dunkerque. Emma non aveva memoria di un tempo prima della guerra, e di suo padre aveva solo qualche immagine sporadica, tutti ricordi di quando era nel mezzo di qualcosa, mai all’inizio, mai alla fine. Stavamo cercando una palla finita fra l’erba. E non si ricordava di come l’avesse persa, né se l’avessero ritrovata, ma solo l’improvviso delizioso profumo del fazzoletto di papà – lavanda e cedro del Libano – che le asciugava il viso, la seta liscia come il vetro delle bottiglie. «Guarda come ti sei conciata». L’erba alta le arrivava al petto, non poteva avere più di quattro anni. E poi una volta in cui lui, stringendole le guance, le faceva fare qualcosa che si chiamava “paperi nel fango”: non sapeva che rumore facesse di preciso un papero nel fango, ma a quei tempi pensava che fosse un suono spassosissimo e difficile da imitare. Aveva sette anni quando lui era morto, pochi giorni dopo il suo compleanno. Una mattina era andato a Londra e non era più tornato. «È rimasto a Londra per il fine settimana», aveva detto la prima volta in cui lui non era con loro per la colazione: in realtà era mercoledì, ma per lei fine settimana significava semplicemente due notti, non aveva mai fatto caso che cominciasse sempre di venerdì. La cosa peggiore di tutta la faccenda era stata la faccia di sua madre, che da quel giorno era precipitata in qualcosa che agli occhi di Emma non era semplice lutto: i singhiozzi strazianti che la notte provenivano dalla stanza della mamma la tenevano sveglia e la terrorizzavano (possibile che sua madre potesse ridursi in quello stato?) così tanto che Emma si era rifiutata di toccarla per molto tempo...
Ecco che si era allontanata da Cressy e dai suoi problemi. Il vantaggio nell’avere una mente disciplinata era che, una volta scelto un pensiero, lo si poteva inseguire ininterrottamente per un certo lasso di tempo, ma oltre a non possedere una mente del genere, Emma non conosceva nessuno che ce l’avesse. I pensieri, per la maggior parte delle persone, anche nei momenti di cosiddetta concentrazione, saltellavano qua e là con la mansueta apatia dei conigli domestici. Il massimo che era riuscita a fare da questo punto di vista era stato pensare a ondate: immergersi in un pensiero, esserne trascinata via e poi riportata indietro, spostandolo giusto un poco in avanti ogni tre ondate. Era successo quando si era cimentata nella pittura, e solo con un quadro in particolare. Anni e anni prima. In seguito, avendo fallito in ogni campo che considerasse degno di qualche valore, eccola a cercare di fare del suo meglio almeno come lettrice e redattrice nella casa editrice di famiglia. La Holborn. Si alzò e percorse la breve e familiare strada per Great Queen Street.
Gli addetti all’imballaggio, nel seminterrato e sul retro del piano terra, lavoravano senza sosta, coi programmi della BBC a tutto volume. La ragazza del centralino aveva completato il suo maglioncino rosa salmone e al momento era intenta ad applicare una guarnizione in lurex a un non meglio identificato indumento viola acido. Nel piccolo atrio all’ingresso c’era sempre odore di libri nuovi – un vago sentore di giunchiglie – mischiato a quello del riscaldamento centralizzato e a blande zaffate di papavero della California. Augurò il buongiorno ai presenti e imboccò le scale, che erano tante. Al primo piano c’era la contabilità, un territorio per lei misterioso con cui entrava in contatto solo quando Miss Heaver, che lavorava là da ben ventotto anni, passava a raccogliere i soldi per il regalo di pensionamento di qualche dipendente. Al piano superiore – l’unico con dei bei soffitti e caminetti integri – c’erano gli uffici di suo zio e degli altri soci, e relative segretarie. Più in alto ancora, nel piano che un tempo doveva aver ospitato le camere da letto, c’erano i reparti produzione, grafica e pubblicità, ognuno gelosissimo dei propri spazi. Infine, dopo una perigliosa ascesa, si arrivava alla redazione: tre stanzette di cui una era la sua, e un ambiente più piccolo, una specie di cubicolo dove ogni settimana i promotori librari venivano a tenere i loro fumosi e spassosi comizi: proprio non capiva come riuscissero a trovare tante cose di cui ridere, di settimana in settimana. Così come i ragazzi degli imballaggi, erano sempre di buon umore, almeno ogni volta che lei aveva modo di vederli o sentirli.
Il suo ufficio affacciava a sud, sulla strada, e aveva un parapetto dove spesso i piccioni sostavano a becchettare i resti di una brioche rafferma. Era piccolo, sempre sporco, molto caldo o molto freddo a seconda di quel che si vedeva fuori dalla finestra. Ma poiché, a quanto sembrava, in lei non c’erano abilità creative (i suoi tentativi in diversi campi, oltre alla pittura, non le avevano lasciato dubbi al riguardo), questo era il luogo, letto a parte, in cui trascorreva gran parte della sua vita.
Quella mattina poteva scegliere tra un bruttissimo romanzo d’amore che parlava di aztechi, il resoconto di una traversata del Sahara a bordo di un taxi londinese (un polpettone scritto coi piedi che la faceva sbadigliare solo al pensiero) e le meditazioni di un fosco giovanotto che viveva una vita di tale autoimposta libertà che di fatto non gli succedeva mai niente, circostanza di cui si doleva almeno una volta per pagina. E lì dove aveva preso queste tre perle, ve ne erano molte altre in paziente attesa. Oh, datemi da leggere qualcosa di buono!, pensò. Uno, un solo scrittore la cui abilità sia pari all’impegno, e che non si nutra solamente dell’esperienza degli altri...