Tredici
Daniel
Percorse il vialetto a grandi passi perché era arrabbiato e voleva andarsene da quella casa il più in fretta possibile. Arrivato sulla strada però rallentò, perché gli occhi si abituassero al buio. Faceva freddo: aveva i piedi praticamente sulla terra perché le suole erano di gomma, e non si sentivano odori: la temperatura era scesa così tanto che una volpe avrebbe avuto difficoltà a fiutare un pollaio. Il pendio saliva a entrambi i lati della strada; pian piano riuscì a distinguere almeno dove finivano i campi e dove cominciava il cielo. In casa gli erano venuti i brividi per il troppo caldo e per l’atmosfera malsana: adesso c’era silenzio, l’aria era pulita, poteva andare avanti con la sua vita. Non gli piaceva proprio che delle persone potessero condurre una vita di quel genere. Tutto quello spazio a disposizione e quei soldi e tre pasti completi al giorno... e per cosa? La figlia grande era una poco di buono, la coppia che era venuta a cena non aveva un briciolo di educazione e di rispetto per gli altri. E poi quel dottore! Tutti che si impicciavano dei fatti degli altri, come fa la gente in certi libri decadenti. Le donne non sapevano stare al loro posto e si vedeva che erano infelici per questo. Che terribile spreco!, continuava a ripetersi in preda allo sconcerto. E se pensava a lei – lei che non solo accettava ma difendeva a spada tratta il comportamento di sua sorella – gli veniva voglia di prenderla a schiaffi, fino a strapparle un pentimento. Come riusciva a comportarsi da bambina, mentre intorno a lei succedevano certe cose? Forse era tutta scena. Gli era venuto il dubbio quando l’aveva vista entrare in salotto tutta ciarliera, con la gonna lunga... magari non era affatto vero che fosse diversa da loro, era un inganno. Forse aveva solo fatto finta di divertirsi coi fuochi d’artificio. Perché lo aveva invitato? Per attirarlo in una specie di trappola, magari collezionava uomini, proprio come sua sorella. Non è forse tipico delle donne essere diverse da come sembrano? Vampiri, streghe, fantasmi, sirene... più sono perfide, più sono belle, così riescono a mietere più vittime. Lei però non era bella. Aveva una faccia buffa, a pensarci bene, soprattutto se s’indignava... faceva tenerezza.
Del resto non era colpa sua se le era toccato crescere in quella gabbia di matti. Ma a Dan proprio non andava giù vedere i suoi sogni di gloria infrangersi in quel modo. Avesse avuto sedici anni, Dan l’avrebbe presa e portata su una barchetta, loro due soli, con del pollo freddo, cioccolatini e qualunque altra cosa lei avesse desiderato, le avrebbe messo al dito un bell’anello col rubino, le avrebbe comprato un cappello nuovo con un mazzetto di ciliegie e poi, naturalmente, si sarebbero sposati. Ma lei non aveva sedici anni. Ne aveva molti di più. Ormai era troppo grande per redimersi. E se pure l’avesse conosciuta quando aveva sedici anni non sarebbe servito a niente lo stesso, perché sarebbe stato prima della sua malattia, che era andata avanti così a lungo che gli riusciva difficile ricordare di aver vissuto anche prima. E lui era ancora lì, sempre con il problema di una vita da riempire: era stata una falsa partenza, tutto qui. Forse, se fosse andato dritto al sodo fin dall’inizio, adesso non avrebbe provato tutto quel risentimento. Probabilmente lei si aspettava proprio quello: che lui la buttasse su un letto e le strappasse via i vestiti: sesso, emozioni forti, uno di quei drink complicati e poi via, avanti il prossimo...
Arrivò una macchina, e la strada era così stretta che istintivamente si fermò e si appiattì contro il bordo. L’auto si fermò. Era lei.
«Dan?».
Non vedeva bene la sua faccia, però sembrava molto in ansia.
«Indietro non ci torno», disse Dan.
«Non ti chiedo di farlo. Andiamo a vedere il mare».
Cercava di comportarsi come se non fosse successo nulla. O forse era il contrario: si comportava come se pensasse che fosse successo qualcosa, ma in realtà per lei non era successo niente. Non m’importa, pensò Dan, e salì in auto senza dire una parola. Arrivata in fondo alla strada girò a sinistra. Era un viale molto più ampio, con una fila di catarifrangenti nel mezzo, ma era difficile contarli perché andavano troppo veloci. Chiuse gli occhi e si sforzò di pensare a Violet per togliersi dalla testa Emma.
Aveva conosciuto Violet al sanatorio, era una paziente come lui. Le avevano fatto le stesse cose che avevano fatto a lui, solo tre mesi prima. Quando Dan aveva cominciato a stare meglio, avevano preso l’abitudine di starsene seduti nel grande, squallido giardino dell’istituto, a parlare. Lei aveva l’aria fragile, magra e debole come un uccellino caduto dal nido, eppure non smetteva mai di parlare. Aveva una vita piena e misteriosa di cui continuava a raccontargli cose nuove che lui faticava a mettere nel giusto ordine. Era stata in prigione due volte, in un numero imprecisato di ospedali, in riformatorio, aveva lavorato in un night club sull’Isola di Man e come cameriera in un grosso albergo, aveva avuto un bambino ma era morto; quando era più giovane, un anziano la pagava dieci sterline la settimana per andare al cinema con lui senza le mutande addosso; era stata coinvolta in un incidente ferroviario; aveva passato un fine settimana di bagordi a Ostenda e una volta si era bruciata tutti i capelli con una stufa rotta. Queste peripezie gliele aveva raccontate tutte nella stessa identica maniera: le cose si somigliavano tra loro, diceva. Le andava bene tutto, sopportava tutto, la sola cosa che temeva era stare a casa sua: suo padre le aveva messo le mani addosso quando aveva quattordici anni, e dopo quella volta era stato sempre violento con lei. Tra fratelli e sorelle erano troppi, sua madre era sempre depressa e non sapeva come aiutarli. Degli episodi che gli aveva raccontato, non ce ne era uno che si potesse definire felice: la sua vita sembrava una serie infinita di sventure. Aveva un faccino smunto e due occhi bellissimi, i capelli parevano paglia secca, le ossa le spuntavano fuori da tutte le parti nonostante mangiasse con grande appetito tutto ciò su cui riusciva a mettere le mani. Il sanatorio le piaceva, non voleva andarsene, nella vita ne aveva viste abbastanza da sapersi accontentare, diceva. Dopo diverse settimane che la conosceva, Dan aveva scoperto che aveva solo vent’anni. Le piaceva avere qualcuno con cui chiacchierare e fare pasti buoni e regolari. Dan si era innamorato di lei piano piano, perché Violet gli aveva permesso di arrabbiarsi per quel che le era capitato. Lei sembrava al di sopra di se stessa: non dava la colpa a nessuno, non cercava giustificazioni; era una compagnia meravigliosa, e Dan immaginava vagamente quanto sarebbe stata felice se solo la vita le avesse fatto qualche bel regalo. Si sentiva capace di trasformare le cose per lei, perché di lei non avrebbe cambiato nulla. Era sempre buona e gentile, e lui cominciò a desiderarla molto. Nel sanatorio giravano molte voci sulle voglie dei pazienti, il “vigore della convalescenza” lo chiamavano pudiche le infermiere, e in fondo era vero. Dan voleva qualcuno e, nello specifico, voleva Violet. Non che flirtassero: lei non faceva mai allusioni sessuali e non ridacchiava voltata dall’altra parte come facevano certe altre persone. Sembrava che l’idea non la sfiorasse nemmeno. Poi un giorno erano andati a passeggio in giardino, si erano seduti su un praticello spelacchiato fuori dalla proprietà dell’istituto e lei gli aveva detto: «Tu mi vuoi, vero?». E tanta era la confidenza tra loro, che a Dan era bastato fare di sì con la testa. «Fa’ pure», gli aveva detto. «A me non dispiace». E si era stesa supina con le braccia sotto la testa. Lui aveva appallottolato la giacca e gliel’aveva sistemata a mo’ di cuscino. L’aveva fatto e gli era parso di provare tutte le sensazioni del mondo, tutte tranne il dolore: e con tutto il dolore che aveva alle spalle, fu come bere acqua fresca dopo aver attraversato un deserto aridissimo. A cose fatte, Violet gli aveva chiesto: «Ti è piaciuto?». E lui aveva detto: «Sì, mi è piaciuto molto». Il viso di lei era benevolo ma indifferente, e lui le aveva detto: «Grazie». Allora sì, si era commossa: «Nessuno mi aveva mai ringraziata prima». Gli era sembrato che stesse per piangere. Così le aveva detto che avrebbe fatto in modo che non dovesse più dire grazie a nessuno, che non dovesse essere buona con le persone senza che lei ricevesse mai un atto di bontà. Le disse che l’amava, che voleva sposarla e che avrebbero avuto una vita bellissima. Lei lo stava a sentire, sorrideva ma non diceva mai niente...
«...cosa stai pensando?».
«È una domanda che non si fa. È stupida e anche da maleducati».
«Scusami», disse lei, umile.
Le osservò il naso dritto, mentre guidava e non lo guardava: no, la sua ansia non era una finzione, ma la cosa non finiva lì.
«Puoi prendere il primo treno da Hastings se vuoi», gli disse. «Posso darti le chiavi dell’appartamento e puoi andare a dormire lì... di giorno, intendo».
«Non lo so. Forse vado all’estero».
«Ma non puoi...», fece per dire Emma.
«Cos’è che non posso?», reagì lui, scattando sulla difensiva.
«Voglio dire... che prima devi andare a Londra».
«E perché? Sto andando in un posto di mare. Mi sembra una stupidaggine andare a Londra per poi tornare qui. Per andare all’estero bisogna mettersi in mare, di questo sono certo. Viaggiare in aereo non m’interessa», aggiunse per mettere bene in chiaro che era al corrente di quella possibilità.
«Be’, per cominciare ti serve un passaporto».
Che rabbia. Se ne era scordato: la vita era così piena di ostacoli che era impossibile viverla. Ogni singola cosa andava pensata con largo anticipo, le sorprese erano fuori questione e quando riuscivi a fare quello che volevi avevi già smesso di volerlo da un pezzo.
«Ma non ci vuole molto a ottenerlo», disse lei.
La guardò con sospetto. Che faceva adesso, tentava di sbarazzarsi di lui? Dan era deciso a levare le tende solo quando e come voleva lui.
«Una volta che hai il passaporto, puoi andare in un sacco di posti quando ti pare, anche senza pianificarlo in anticipo».
«Tu ce l’hai?».
«Sì».
Ma certo, lei aveva tutto. Probabilmente ce l’aveva fin da prima di venire al mondo.
«Siamo quasi arrivati», disse.
Dan, in effetti, aveva la sensazione che la terra stesse per finire. Così disse: «Lo so». Provò ad aprire il finestrino per annusare l’aria. Lui non era abituato alle macchine e il finestrino non voleva scendere. Emma si allungò su di lui e riuscì ad aprirlo. Un’aria nuova, che gli era sconosciuta: non poteva dire che sapesse di sale, come si legge nei libri, ma aveva in sé il gusto dell’oceano.
«Forse sarà troppo buio per riuscire a vedere qualcosa».
«Speriamo di no. A ogni modo qualcosa vedrai di certo. Il mare non è mai uguale a se stesso», spiegò.
«Mai?».
«Mai, secondo me. In giornate simili il mare può essere uguale così come lo sono due persone che si somigliano molto. Possono essere simili, ma non sono la stessa persona, no?».
«Non lo so se ho visto abbastanza persone da poterlo affermare con certezza», rispose Dan con cautela. Nonostante il giudizio che si era fatto di lei, Emma gli piaceva: era profonda, si disse indispettito. Non la si può giudicare in base alle cose che dice, pensò. È proprio quello che vuole lei. Ma perché?
Adesso aveva rallentato, stavano scendendo giù per una collina piuttosto ripida. Dan si aspettava di trovare il mare in fondo alla discesa, ma così non fu.
«Manca poco meno di un chilometro», disse lei. Ogni tanto Dan aveva la sensazione che gli leggesse nel pensiero: un’idea pericolosa che non gli piaceva affatto.
Poi attraversarono quello che pareva un piccolo deserto, banchi di sabbia, erba tagliata, piccoli cespugli mossi dal vento.
«Che posto è?», domandò dopo un po’.
«Un campo da golf. Ora viene la spiaggia», rispose Emma.
Fece una brusca svolta a destra e fermò l’auto di fronte a un cancello che dava accesso a un campo. «Per aprire devi tirare la cordicella».
Spense i fari dell’auto e per un momento furono al buio completo. La luna era di una luminosità appena sufficiente a poterla indicare, lì, incastonata tra nuvole spumose. Aspettò che gli occhi si abituassero un po’ all’oscurità, poi si voltò verso il mare. Una striscia nitida distesa di fronte a lui, scurissima e lucente di riflessi oleosi.
«Andiamo più vicino».
Emma lo precedette superando il cancello e Dan si accorse solo allora che portava ancora quella lunga gonna sotto il cappotto.
«Attento ai cardi di mare», gli disse. «Pungono».
Dan inciampò un paio di volte, perché il mare rapiva tutta la sua attenzione. Camminarono lungo la boscaglia sabbiosa, fino ai ciottoli in riva. Adesso l’odore di mare era forte. C’era una fila di cabine: per i bagnanti, gli disse lei, ma stavolta non erano chiacchiere per intrattenerlo. Dan vedeva le creste bianche delle onde a pochi metri dalla riva, ma proprio non riusciva a distinguere l’orizzonte: sembrava che il cielo svanisse semplicemente nel mare. Il rumore era incessante e irregolare, l’aria era mossa appena da un vento leggero. Si avvicinò all’acqua, si chinò, ci mise una mano dentro: era fredda e densa, con un buonissimo sapore. Un’onda per poco non gli lambiva le scarpe e lui fece un salto indietro, poi si voltò per vedere se lei aveva visto, ma Emma era seduta su uno scoglio e guardava dritto verso il cielo: la luna adesso sembrava più luminosa, o forse erano i suoi occhi che si erano adattati. Camminò per un tratto lungo la riva e trovò una piccola area sabbiosa, con le onde che la coprivano e la scoprivano: c’erano dei grossi sassi conficcati nella rena, l’acqua li sommergeva e si ritirava al ritmo delle onde, la sabbia intorno scintillava e sembrava ogni volta una sabbia nuova. Si soffermò a pensare alla spiaggia che era dall’altra parte. Doveva essere molto diversa: scogliere nere magari, con prati brillanti in cima, sabbia come zucchero e vaste foreste. Già quel posto era totalmente diverso da ciò che conosceva lui, ed erano ancora in Inghilterra. Immaginò di attraversarlo, quel mare. Arrivare in Francia. Provò una fitta di panico al pensiero che forse i francesi gli avrebbero fatto lo stesso effetto delle pecore, e cioè gli sarebbero sembrati tutti uguali tanto erano nuovi e diversi da lui. Poi pensò a Charles Boyer e si tranquillizzò. Del resto lui li voleva diversi da lui, ma li voleva anche diversi tra loro. Gli piaceva l’aria viva tutt’intorno, sarebbe stato bello avere più luce, vedere il sole sorgere sul mare. Si avvicinò piano al punto in cui era seduta Emma e si sedette accanto a lei. Era taciturna.
«Mi piacerebbe essere su una barca laggiù. È lì che è andato tuo padre, no?».
«Sì... non esattamente lì, ma in un punto in mezzo al mare».
«Ti rattrista pensarci?».
«Non è che ricordi molto di lui. Provo solo un vago rimpianto. A te è mai morto qualcuno che conoscevi bene?».
«Più o meno». Quella risposta la zittì, e lui prese a guardare con intenzione di fronte a sé, deciso a trovare la linea che separava il cielo dal mare.
Violet. Era morta Violet. Pochi giorni dopo quel pomeriggio era stata dimessa dal sanatorio. Era guarita, dicevano. Doveva tornare a una vita normale. Lei non voleva andare via. Perché l’unico posto dove poteva andare era casa sua, e la semplice idea la terrorizzava. Non era ancora abbastanza forte da lavorare a tempo pieno, le avevano detto che doveva condurre una tranquilla vita domestica. Lui sarebbe uscito di lì a qualche mese, Violet doveva tenere duro fino a quel momento, poi avrebbe pensato a tutto lui. «Sei malato anche tu», aveva detto lei. «Non puoi occuparti di nessuno». Le disse di scrivergli, lei rispose che forse l’avrebbe fatto. La supplicò e lei gli disse che ci avrebbe pensato. Poi Dan le disse che le avrebbe scritto lui, e lei lo guardò rassegnata, come se Dan avesse voluto evitare l’argomento di cosa sarebbe stata la sua vita, in un appartamento di quattro stanze da dividere con la madre e il padre e tre tra fratelli e sorelle. «Non sarà per molto, vedrai», le disse Dan, e lei si era fatta forza come faceva sempre. «No, non sarà per molto. Credo che altrimenti impazzirei». Sembrava stupefatta di dover andare via, in preda a un’inerte disperazione. Era partita in una mattina di pioggia, diretta alla stazione dei taxi: non si era nemmeno voltata a salutarlo, ma Dan sapeva che si stava sforzando di non piangere.
Dieci giorni dopo era morta. Era sul giornale, ma le infermiere glielo dissero prima che lo venisse a sapere in quel modo. Ovviamente erano al corrente di loro due. Il giornale diceva solo che era stata trovata in una camera di una pensione di St Pancras, vicino a dove abitava. Aveva preso la stanza per una notte e l’avevano trovata a mezzogiorno del giorno dopo, quando erano saliti per le pulizie. Aveva fumato venti Craven A, bevuto una bottiglia di porto australiano e ingerito una scatola intera di sonniferi sottratti a sua madre. Non aveva lasciato nessun biglietto. Dan non aveva capito quanto le facesse paura tornare a casa sua; non aveva capito che non aveva mai creduto alle sue promesse. E se pure gli avesse creduto, forse non avrebbe fatto nessuna differenza. Quella volta imparò che si può amare qualcuno e non sapere proprio niente di cosa è importante per lui o per lei. Dava la colpa a se stesso; la dava al sanatorio. Poi si era ricordato che a lei le colpe non interessavano. Non le erano mai interessate. Aveva sempre temuto la solitudine, e per Dan era un supplizio immaginarsela che entrava tutta sola in quella stanza. Eppure non riusciva a smettere di pensarci. Era stato allora che aveva cominciato a scrivere poesie: non parlavano di lei, ma delle cose che avrebbe voluto mostrarle: piccole meraviglie, gioie della vita di tutti i giorni che lei non aveva mai conosciuto. Aveva cercato di descrivere quelle cose con un linguaggio che lei potesse capire, e poi il gioco aveva cominciato a piacergli, e le poesie che scriveva non riguardavano tutte Violet. Non erano per nessuno in particolare, aveva solo voglia di scriverle. Era un po’ come deporre un uovo avendo in mente l’uccello già adulto. Una poesia, quando ci pensi per la prima volta, è rotonda e pulita come un uovo, ma poi c’è da pensare alla struttura ossea, a tutti i dettagli del piumaggio, bisogna sempre tenere a mente l’insieme ed era una cosa da diventare matti per l’ansia. Le altre forme di scrittura a lui sembravano troppo vicine al semplice parlato: non valevano lo sforzo che richiedevano. Comunque era cominciato tutto per lei, per Violet, e poi l’infermiera lo aveva convinto a spedire i suoi scritti alla Speedwell and Grace, e adesso ecco che si ritrovava in riva al mare, una notte di novembre, con quella ragazza.
«Che succede?», le domandò, come realizzando all’improvviso che lei fosse lì.
«Fa un freddo tremendo», disse, ma stava piangendo. Era infagottata nel cappotto, ma si vedevano le lacrime rigarle le guance.
«Andiamo, allora», disse Dan. Allungò una mano per aiutarla, ma lei finse di non farci caso. È un gioco che si fa in due, pensò lui fingendo a sua volta di non aver raccolto la provocazione. Entrambi si affrettarono verso la macchina, salirono a bordo e sbatterono con energia le portiere. Emma restò zitta per alcuni secondi e poi disse:
«Dan! Mi dispiace molto per quello che è successo questa sera, ma non è stata colpa mia! Non capisco perché tu te la prenda tanto con me... non è colpa di nessuno, a parte forse Jennifer Hammond!».
«E tua sorella?», sbottò Dan. «Lei non c’entra niente, vero?».
«Certo che no! Non sapeva che sarebbero venuti a cena quei due. Non sapeva che sarebbe venuto lui, finché non se lo è ritrovato davanti. Per lei è stato un colpo! Devi essertene accorto per forza».
«Sarà stato un colpo anche per Mrs Hammond, non ci hai pensato? Nemmeno lei sapeva cosa l’aspettava, non credi?».
«Capisco... e ammetto che si trova anche lei in una brutta situazione, ma non c’era bisogno di fare quella scenata e mettere in imbarazzo tutti quanti».
«Perciò per te non conta quello che uno fa, finché non viene scoperto? Come ti saresti sentita tu, al posto di Mrs Hammond?».
«Non lo so. Malissimo, credo. Di sicuro sarei stata malissimo».
«E avresti potuto benissimo trovarti tu al posto di tua sorella, no? Solo che il caso ha voluto che sia toccato a lei?».
«Che cosa vuoi dire?».
«Voglio dire che tu non ci vedi niente di strano nel fatto che tua sorella vada a letto col marito della vicina di casa di tua madre. Nel tuo ambiente è una cosa normale, no?».
«Senti... io non ho il diritto di giudicare il comportamento degli altri e non ce l’hai nemmeno tu. Non mi piace il modo in cui parli di Cressy. È una persona come le altre, buona, gentile, che sta male. È mia sorella e le voglio bene. In questo non c’è proprio niente di male o di strano, come sembri suggerire tu».
«Se a te piace qualcuno, ci vai a letto e basta?».
«Ma certo», disse lei in tono più pacato, ma non meno convinto. «Sono stanca di parlare di questo. Andiamo via».
Mise in moto e partì di scatto.
Dopo qualche minuto domandò. «Devo portarti a Hastings?».
«Eh?». Dan era sprofondato in pensieri cupi.
«Vuoi prendere il treno da Hastings?».
«Preferirei andare in macchina con te».
«Fino a Londra?».
«Perché no?».
«Oh». Emma parve rilassarsi. «È una buona idea. Potremmo fare colazione a casa».
«Perché no? Se sono stato offensivo con te, ti chiedo scusa».
Lei si voltò a guardarlo, raggiante. «Tutto a posto, Dan».
«Tutto a posto», ripeté lui. Almeno ci avrebbe guadagnato qualcosa.