Cinque
Felix

«Passa la marmellata al dottor King... No, anzi, lascia stare».

Felix guardò a turno madre e figlioccio. I lineamenti di quest’ultimo si rappresero istantaneamente in una smorfia di rancore e si congelarono così: tirò un lunghissimo sospiro, finito il quale parve prossimo a un’esplosione. L’urlo, la temuta folgore, venne procrastinato: il pubblico era ancora freddino, meglio prendere tempo. Mary gli passò la marmellata e disse arcigna:

«Finisci i cereali, Barney».

Fu l’ultima goccia. Da Barney si sprigionò un suono decisamente sproporzionato alla modesta corporatura che lo produceva. Proprio in quel momento fece il suo ingresso il padre. «Gesù!», esclamò con un biasimo colorato di buonumore. «Gesù!». Prese in braccio il figlio. «Che gli avete fatto? Adesso smettila, Barney!».

La piccola per parte sua, sistemata sul seggiolone, gli rivolse un’occhiata e poi ficcò le mani nella ciotola del porridge, che sparse generosamente sul collo del padre che si era chinato a baciarla. Barney, il cui ululato aveva ora raggiunto frequenze tali da non sembrare più umano, le assestò un calcio con destrezza notevole. Il porridge volò per aria. La piccola si mise a strillare. Squillò il telefono. Mary, incinta di sei mesi, andò a rispondere.

«In questa casa bisognerebbe mangiare in tuta da lavoro e coi tappi nelle orecchie», osservò il padre.

«Parla con la segretaria del dottor Lewis», stava dicendo Mary, mentre apriva un taccuino scompaginato e stappava una biro coi denti.

Felix corse in suo soccorso. Jack Lewis aveva dato una zolletta di zucchero alla bambina e aveva fatto sedere Barney al suo posto. Stava versando il caffè con le mani tremanti. La sera prima erano andati a dormire tardi. «Sempre mettere incinta la segretaria», diceva. «Così sei sicuro che non ti molla».

«Credo che ci vorrà circa un’ora», spiegava intanto Mary. «Ora sta visitando, ma gli farò arrivare il messaggio. Io lo terrei a letto finché non arriva il dottore». Mise giù la cornetta e annunciò: «Mrs Halloway... Ti prendo le uova». E andò.

«Al diavolo Mrs Halloway! A Natale si presenta sempre con quei cioccolatini a buon mercato», disse risentito. «Cioccolatini...», continuò a borbottare distratto. «Lo avrà pur capito che non ci piacciono».

«Li odi tutti, i tuoi pazienti?». Felix come sempre assumeva i panni dell’ospite distaccato ma curioso: era tanto di quel tempo che non aveva una casa sua!

«Dio mio, no! Alcuni di loro sono persone più che ragionevoli: muoiono, oppure in qualche modo guariscono... Poi ci sono quelli che vanno avanti all’infinito: prima hanno l’influenza e poi il morbillo e poi chissà cos’altro... gente con cui non vorresti avere a che fare nemmeno quando scoppia di salute!».

Jack Lewis e Felix si erano conosciuti alla facoltà di Medicina. Jack era il più caro amico di Felix, che del resto di amici ne aveva pochi. Era sempre stato un tipo dal cuore tenero, Jack, caratteristica che cercava di nascondere dietro un flusso costante di discorsi cinici e disfattisti. Mentre Felix era in Corea, Jack si era sposato con una giovane ebrea: «Ha studiato fisica», gli aveva scritto, «e fa ricerche sui transistor alla General Electric. Però non disperare, allego la foto: come vedi, per capire com’è fatto un transistor serve gente d’ogni genere». La foto allegata mostrava una ragazza con una maglia senza maniche e un paio di jeans, seduta su una panchina al parco, che si ravviava i lunghi capelli lisci. «Mary Black», aveva scritto Jack sul retro della foto. «24 anni: 90-60-90». La foto era bastata perché Jack, sulla fiducia, si convincesse che fosse una ragazza bella e intelligente. «Congratulazioni, non vedo l’ora di fare da padrino ai vostri figli», aveva fatto scrivere sul telegramma di felicitazioni, e adesso eccolo sei anni dopo, in quel villino elegante ma scomodo a Bayswater, insieme col mostro, Barney: cinque anni, un’intelligenza straordinaria secondo sua madre, che cincischiava coi cereali e fissava lui, Felix, con una specie di impassibile ferocia. Felix era abituato ad avere intorno bambini e neonati in quantità: ne aveva visti tanti denutriti, letargici e col ventre gonfio, e all’inizio aveva sentito non solo l’impulso ma anche il diritto e il dovere di alleviare quelle sofferenze. Per uscire dalla sua condizione di idealista ignorante, aveva affrontato un percorso lento e doloroso, costellato di situazioni che lo avevano spinto a spiacevoli bilanci su se stesso e che era culminato nella convinzione di non aver amato abbastanza i propri simili: se erano solo feriti o avevano fame, lui era capace di aiutarli ed era ben disposto a farlo, dalla sua posizione privilegiata di forza e salute; ma se per disperazione mentivano, ingannavano o mettevano in atto mezzucci per sopravvivere, lui li disprezzava, era irritato dalla loro stupidità, disgustato dalla loro paura e sdegnato dal loro caparbio egoistico voler esistere...

Barney invece rappresentava una fattispecie del tutto nuova per Felix. Per prima cosa il suo stato di salute era tale da incutere soggezione. Felix aveva incautamente tentato di prenderlo in braccio quando si erano incontrati la prima volta: sembrava avesse le ossa fatte di ghisa e del piombo al posto della carne. Era di una robustezza sorprendente e pesava come un vitello. I capelli, la pelle, gli occhi rilucevano di salute e benessere, e di indole era arrogante e ingegnoso: sembrava davvero convinto, pensò Felix, che qualunque cosa avesse fatto, se la sarebbe cavata. Adesso, per dirne una, al semplice scopo di attirare l’attenzione del suo padrino, aveva messo il cucchiaio sporco di latte sulla manica di Felix e gli domandava (per la seconda volta): «Sei mai stato punto da un serpente velenoso?».

Mary lo corresse: «Si dice morso, Barney. I serpenti non pungono».

«Sei mai stato morso da un serpente velenoso?».

«No. Veramente no».

Squillò il telefono. Jack brontolò e Mary corse a rispondere.

«Metti giù quel cucchiaio, Barney... Parla la segretaria del dottor Lewis».

Barney posò il cucchiaio senza staccare gli occhi da Felix. Sebbene Mary stesse parlando al telefono, il bambino riusciva a creare una sfera di silenzio intorno a loro. «E come mai?», insistette.

Jack scostò la sedia dal tavolo e si alzò. «È fissato coi serpenti. Torno fra un minuto. Felix, potresti dirle di tirare fuori dal frigo due fiale di vaccino?».

La bambina voleva scendere dal seggiolone. A questo scopo si era buttata di lato, cosicché tutta la parte superiore del corpo penzolava pericolosamente. Mary gli fece cenno di liberarla: ma quando Felix provò a sollevarla, sebbene il suo corpo gli sembrasse tutto compatto, c’era qualcosa che lo bloccava a metà. La piccola diventò tutta rossa, ma restò inamovibile. «...solo liquidi, finché non la vede il dottore. Arrivederci, Lady Birdneck». Mary mise giù la cornetta e si precipitò in soccorso. «Felix! Sei proprio un disastro... le si è incastrato il piede, non vedi?». Come Felix già sapeva, Mary era il tipo di persona che può dire queste cose apparendo affettuosa anziché offensiva.

«Le servirebbero più piedi», osservò Barney. «Oppure una bella coda squamosa». Si rivolse a Felix. «E non ha niente per fare pipì, lo sapevi? Le esce così, direttamente sul pannolino», allargò le mani in un gesto teatrale. «Dal nulla! Bisognerebbe sopprimerla secondo me».

«Basta così», lo zittì Mary. «Tu eri insopportabile da neonato».

«Davvero? E com’ero? Insopportabile come?». L’idea lo deliziava.

«Stupido e sempre sporco», rispose lei sbottonandogli i pantaloni. «Non sapevi dire una parola e non eri capace nemmeno di metterti seduto. Una vera frana. Un neonato come tanti. Va’ di sopra adesso, e chiamami quando hai fatto».

Mary si mise a sparecchiare. La piccola intanto era uscita dal perimetro del tappeto e procedeva con entusiasmo sul pavimento di linoleum verso la ciotola piena di cibo per gatti che stava accanto al lavandino. Il telefono squillò; riapparve Jack; Felix stette a guardare mentre Mary rispondeva al telefono, prelevava i vaccini dal frigorifero e consegnava al marito la lista delle chiamate di quel mattino.

«Io vado. Ciao a tutti. Passa un bel fine settimana, Felix... o mio Dio, che altro le hai lasciato fare adesso?».

La piccola aveva raggiunto la ciotola di cibo per gatti e se lo stava spargendo sulla faccia con quei movimenti rallentati che nei bambini suscitano tanta tenerezza.

«Metti giù», le intimò Mary. «Metti giù!».

«Non vedo l’ora che arrivi la prossima settimana», disse Jack. Baciò l’orecchio di sua moglie e guardò la figlia con aperto disgusto. «Bestiola venuta su a vitamine! Vedrai come ti farò vivere a lungo». Posò con disinvoltura la mano sul pancione della moglie. «Non è meravigliosa, la fecondità?».

«Ho fatto!», annunciò Barney dal piano di sopra. «Ho fatto!», gridava come se gli fosse venuto in mente qualcos’altro, qualcosa di completamente diverso.

Mary si sistemò la bambina sul fianco destro e seguì Jack nell’ingresso. Felix restò da solo nell’ampia cucina. I Lewis la utilizzavano anche come sala da pranzo, ma le sue funzioni originarie erano state chiaramente altre: probabilmente era servita da stanza dei giochi per qualche famiglia vittoriana. Due ampie finestre a saliscendi con le sbarre all’esterno; un largo caminetto rivestito di brutte piastrelle bianche e blu; vecchie, massicce credenze a incasso lungo due pareti della stanza; soffitto alto con un complicato fregio a foglie di acanto dalle linee gonfie e ammorbidite dalle ripitture. Pareti e soffitti erano ora dipinti di un giallo intenso al confronto del quale pareva che fuori fosse sempre sera. Felix si avvicinò a una finestra. Era il tipo di giornata di cui, quand’era laggiù in Asia, aveva avuto un’acuta nostalgia: l’aria ferma e umida che ti entra in bocca col suo inconfondibile saporaccio; il sole più simile a una luna scarlatta che sembra emanare freddo anziché il solito noioso caldo; il gelo, la nebbia, la fuliggine, i fari delle auto accesi in pieno giorno. Pensò con piacere al soggiorno nel Sussex che l’attendeva. Al viaggio in macchina, almeno. Non sapeva bene cosa aspettarsi, anzi non sapeva nemmeno perché aveva deciso di andare. Senso del dovere? Semplice curiosità? O magari c’entrava il suo recente, inedito bisogno di aggrapparsi a situazioni che gli permettessero di ritrovare una sua dimensione? Ne aveva abbastanza di cose grandi, voleva solo stare a guardare Jack e Mary nel loro piccolo mondo indaffarato, per rendersi conto che servivano un sacco di energia e di intelligenza per mandare avanti un’impresa modesta come una famiglia. Adesso, invece di combattere fame e carestia dall’altra parte del mondo, avrebbe dedicato due settimane della sua carriera di medico per dare a un vecchio amico e a sua moglie la possibilità di passare la prima vacanza insieme da che erano sposati. I bambini li avrebbe tenuti la sorella di Mary, mentre lui avrebbe prestato servizio a titolo gratuito come sostituto di Jack, che non avrebbe mai potuto permettersi di pagarne uno. Non era poi un gran sacrificio, avrebbe potuto farlo chiunque, ma di fatto l’unico disposto a farlo era lui. Jack si era ostinato a rilevare lo studio da un vecchio tiranno malfermo, che era andato in pensione di malavoglia poco più di due anni prima. Felix aveva sviluppato una tale diffidenza nei confronti di se stesso da sospettare di aver accettato quell’incarico (che sarebbe iniziato lunedì) al solo scopo di procurarsi una via di fuga di inattaccabile rispettabilità nel caso in cui le cose giù nel Sussex si fossero messe male. Lei del resto era il tipo di donna che si fatica a immaginare vecchia o povera: tutto quel che era riuscito a scoprire a riguardo (con una telefonata anonima all’azienda del marito) era che non si era risposata e che viveva sempre nella stessa casa. Così le aveva scritto dicendole che per caso, quel fine settimana, si sarebbe trovato proprio in quella parte di mondo (non era vero) e che gli sarebbe piaciuto passare a trovarla. La lettera doveva esserle arrivata il giorno prima, ed erano intesi che lei gli avrebbe scritto un telegramma oppure gli avrebbe telefonato in caso di intoppi, vale a dire nel caso in cui non avesse avuto voglia di incontrarlo. Non l’aveva sentita. La sera di quel giovedì era rimasto in casa per assicurarsene: il telefono funzionava, perché Jack aveva ricevuto una chiamata a tarda sera, e lei non si era fatta sentire. Pensò, non per la prima volta, a quanto fosse rozzo quel modo di accordarsi. Jack, messo giù il telefono, disse: «Mi dispiace molto, ma non era per te. Ora vado...Ma guardala, è così sensuale quando è incinta! Lasciami un po’ del tuo ottimo scotch». Quando fu uscito, Mary disse: «Perché non ne offri un po’ anche a me, di quel tuo ottimo scotch?». E gli allungò il bicchiere.

Si era distesa scalza sul vecchio sofà, con addosso la consunta vestaglia color cammello del marito e dei semplici orecchini d’oro, dono di nozze di Jack. I capelli erano tirati indietro da un nastro di chiffon rosso; aveva un’aria sana, a suo modo elegante, incredibilmente giovane.

«Sembri stanca», le disse.

«Non mi ricordo qual è stata l’ultima volta in cui non sono stata stanca. È terribile, eh? Credo che durante la vacanza non farò che dormire e dormire e dormire!». Sorrise in quel suo modo amabile e beffardo e disse: «Penserai che siamo dei vegetali domestici!».

A Felix venne in mente che da quando Jack glieli aveva regalati non si era mai tolta quegli orecchini e che, a detta dell’amico, la sera in cui avevano deciso di concedersi quella vacanza non aveva chiuso occhio. «Non ha dormito un solo minuto!».

Sorrise di nuovo, si stiracchiò e disse: «Era una vita che non bevevo, e ancora di più che non mi stendevo sul divano a oziare in compagnia di un bell’uomo che non fosse mio marito. Ha ragione Jack. La gravidanza ha i suoi risvolti erotici. Perciò racconta, forza».

«Cosa devo raccontarti?».

«Ecco, per cominciare... se la signora avesse telefonato, sarebbe stato un bene o un male? Vuoi davvero incontrarla o ti senti solo in dovere? Come mai hai rinunciato a salvare il mondo e sei venuto qui a salvare me e Jack? Perché non sei sposato? Perché fai il dottore? Ti senti distaccato e superiore, oppure dipendente e spaventato?».

«E tu come ti senti?».

«Per me è semplice. Io amo Jack: non devo pensare a dove questo mi porterà. Ci vado e basta. E non è che tu dovessi proprio salvarci...», si corresse. «Però ci ha semplificato moltissimo le cose! Oh, ma allora parli! Forza, racconta. Non conosco le persone coinvolte, perciò puoi dire quello che ti pare».

«No, non le conosci. È una storia di quando ero gio­vane».

E così gliela raccontò, quella storia, sapendo di ometterne una parte ma accorgendosi, parlando, che nella memoria serbava molto più del ricordo privato, sintetico e sommario di quando rievocava tra sé quella relazione. La quantità dei dettagli che gli venivano in mente era stupefacente: non solo la nuda successione degli eventi – come il fatto di averla incontrata all’aeroporto di Nizza mentre cercava di scegliere un profumo da regalare a sua sorella – ma anche la voce di lei quando gli aveva detto: «Questa è una fragranza deliziosa... ecco», e aveva teso il braccio verso di lui. Portava una giacca bianca con le maniche a tre quarti e corti guanti dello stesso colore che le coprivano appena i polsi. Gli offriva da annusare la striscia di pelle scoperta, abbronzata. Ricordava con precisione il senso di adrenalina, l’eccitazione e la sfida di quando si era chinato a odorare la sua pelle ambrata. Questa non era una ragazzina complicata persa in fantasticherie: Esperienza, Verginità, Futuro... Questa era una donna di mondo, una donna vera, di quelle che, nelle sue fantasie di adolescente, gli avrebbero riempito la vita. «È diretto a Londra?», gli aveva domandato. «Sì, con lei». «Cosa le fa credere che io viaggi da sola?». «Lei non viaggia da sola». Ripensò a quando era andato con passo danzante nel bagno degli uomini rivivendo nella mente questa conversazione insolita e sofisticata. Lei era scoppiata a ridere, ma era chiaro che a colpirla non era stato solo il suo umorismo. Davanti allo specchio del bagno si era pettinato i capelli e aggiustato il nodo della cravatta cercando di somigliare a un quarantenne fosco e con molta esperienza alle spalle; poi si era messo a provare un certo sorriso tipico di chi è stanco della vita, che non sempre gli riusciva bene, e in quel momento era stato brutalmente interrotto dall’ingresso di un forestiero dalla stazza impressionante che si era tolto il cappotto col collo di pelliccia, lo aveva dato in mano a Felix e si era chinato a vomitare l’anima per un tempo che a Felix era parso interminabile. «Uh, che botta!», aveva detto in italiano. Poi si era dato qualche colpetto allo stomaco, il più vasto che Felix avesse mai visto, e aveva aggiunto: «Niente di grave!», dopodiché si era rifilato i baffi con certe minuscole forbicette estratte da un piccolo astuccio di pelle di lucertola.

Felix aveva pensato che la scenetta l’avrebbe fatta ridere, e questo era stato l’inizio della loro intimità. Tutti quei dettagli! Se ne scusò, ma Mary disse:

«Non scusarti. È una bella storia. Dovevi esserne innamorato».

«Non lo so... ero così giovane. Infatuato di certo...».

Mary lo interruppe. «No, no. Innamorato. Perché quando uno è innamorato non si ricorda solo dell’altra persona, ma anche di tutto ciò che la circonda... e poi cos’è successo?».

«Oh, dopo... siamo rientrati a Londra insieme. Abbiamo cenato in un ristorantino. Arrivati al brandy, avevo la sensazione che sapesse già tutto di me, nonostante i miei sforzi di apparire misterioso. Non era solo brava ad ascoltare, sapeva anche fare le domande».

«Più brava di me?».

«Questo non lo so», rispose lui con un moto di tenerezza. «Come faccio a saperlo?».

«Dove avete passato la notte?».

«Aveva un appartamento a Londra. Il marito era via. Dentro di me avevo sperato che non fosse sposata, anche se avevo visto che portava l’anello... quando scoprii che c’era di mezzo un marito, mi convinsi che doveva essere una specie di bruto».

«E invece?».

«Tutto il contrario. Lei me lo disse subito. La cosa non mi piacque per niente, e misi il broncio. Tutte le mie aspettative romantiche... sai, essere il suo salvatore... andarono a farsi benedire. Poi seppi che aveva delle figlie e capii che non lo avrebbe lasciato, per amor loro. Lui di certo la trascurava e lei era una che le attenzioni le ripagava. E comunque io avevo ventitré anni, puoi immaginare che effetto mi faceva la sola idea di avere un’amante! Era acuta, divertente, bella ed elegante e poi, anche se questo magari ti sembrerà volgare, il sesso tra noi le piaceva da matti!».

«E a te?».

«Io ero molto ingenuo al riguardo. Per me avere una relazione con una donna voleva dire andarci a letto e basta, e quando poi mi sono accorto che era bello anche stare insieme, sono andato in confusione, ne ho concluso di essere follemente innamorato. Vedi, non avevo mai preso in considerazione la possibilità che una donna mi piacesse davvero... mi era stato insegnato a credere che, a parte un po’ di sesso rimediato qua e là, un giorno avrei incontrato una donna e avrei capito all’istante che dovevo passare con lei il resto della mia vita. Naturalmente pensai subito che quella fosse lei».

«Vi vedevate spesso?».

«All’inizio no. Ci scrivevamo molto. Lei risiedeva quasi sempre in campagna, e certi giorni che il marito non c’era potevo spedirle le mie lettere. Era brava a scrivere. Mi raccontava quello che succedeva. Andava a molte feste ed era brava a descrivere le persone. Se mi diceva qualcosa che riguardava il marito, mettevo su certe scenate...».

«Poveretta!»

«Al principio era così. Alla fine però credo che quelle scenate la lusingassero. Mi invitava a casa sua in campagna quando il marito era via, ed era via quasi sempre. Naturalmente non dormivo lì, per via delle bambine. Facevamo scampagnate e andavamo in postacci come Camber Sands e Pett Level... era la primavera del ’40. Durante l’inverno invece era stata sempre lei a raggiungermi a Londra, oppure ci si vedeva in posti tipo Tonbridge, nelle sale da tè. Ci sedevamo con un piatto di orrendi dolci assortiti e immaginavamo di poter andare all’estero. Quell’anno venni bocciato agli esami, perché il tempo che non passavo insieme a lei, lo passavo pensando a lei...».

«E la guerra?».

«In che senso?».

«Non ha influito per niente? Non l’hai nominata nemmeno...».

Felix ci pensò su qualche istante. «Ma sì, certo che ha influito. Anche se al momento non sembrava... se non per il fatto che ce ne servivamo come scusa per fare delle cose, dicendo che per un sacco di tempo non ne avremmo avuta più la possibilità. No... certo che ha contato. La mattina in cui fu dichiarata la guerra, con l’annuncio del buon vecchio Chamberlain, fu lei a telefonarmi. Io allora alloggiavo a Londra, dalle parti di Victoria, e il telefono era in un corridoio dove avevo sempre paura che tutti sentissero tutto. Mi disse: “Felix, non puoi restare a Londra stanotte”. E io dissi: “Dove altro potrei andare?”. Mi disse: “Vieni qui. Puoi stare qui. Londra sarà bombardata, e se lo faranno lo faranno di certo stanotte. Devi venire qui! Capiranno, tutti quanti. È un’emergenza”. Poi, così senza preavviso, diede la cornetta alla figlia maggiore, una ragazzina in età scolare così timida che non l’avevo mai sentita aprire bocca... Mi disse: “Se vieni, puoi dormire nel mio letto, Felix”. Poi riprese la cornetta lei... “Più di mille aeroplani, Londra sarà rasa al suolo!”. Aveva già detto al marito che sarei arrivato, mi aveva spacciato per un vecchio amico di sua zia... gli aerei avrebbero tirato dritto sopra la loro casa, diretti a Londra... lei non sarebbe riuscita nemmeno a guardarli... e allora pensai di colpo: “Magari le bombe invece cadranno proprio lì, e io non la rivedrò mai più”. Così andai».

«E la tua famiglia? O è una domanda troppo da ebrei?».

«Loro stavano a Easter Ross. Non eravamo in buoni rapporti... non ero riuscito a entrare ad Aberdeen, e poi ero andato male agli esami del primo anno. Non erano per niente contenti. Il fatto era che tutte le preoccupazioni si concentravano su Londra... il resto del paese non sembrava in pericolo immediato. Inviai loro un telegramma, salii in macchina e andai nel Sussex. Ci vollero ore. Comunque fu quel giorno che conobbi suo marito. Stava scavando un rifugio antiaereo in giardino».

«E che tipo era?».

«È strano, sai... dopo tutte le fantasie strampalate che mi ero fatto su di lui, eccolo lì, nient’altro che un uomo che scava una fossa. Molto più vecchio di me, s’intende. Era tutto il giorno che lavorava, insieme al giardiniere e alla bambina più piccola che scavava con la paletta da spiaggia. La più grande arrivò poco dopo, a portarci uno spuntino, bibite e olive ripiene, mi pare».

Poi restò in silenzio, accigliato e pensoso, col bicchiere vuoto che si passava di mano in mano. A Mary parve di colpo che ci fosse molto altro, che però non poteva dirle.

«Restai da loro una sola notte», riprese. «Quella sera a cena mi chiese che cosa pensassi di fare. Dissi che non ci avevo ancora pensato. Poi gli venne in mente che come studente di Medicina sarei stato messo automaticamente tra le riserve. Mi chiese quanti anni avessi, e glielo dissi. Replicò: “Dio, quanto vorrei avere anch’io la tua età”. Per la prima volta in vita mia mi resi conto di non avere nessun senso di responsabilità collettiva. Non l’avevo voluta io la guerra, non aveva niente a che fare con me. Lui invece si struggeva perché era troppo vecchio per dare un contributo, era questo che voleva, “fare la sua parte”».

«Era molto più vecchio di lei?».

«Dodici anni. Lui ne aveva quarantanove».

Squillò il telefono e Mary andò a rispondere. Era Jack, fu una conversazione breve: doveva portare in ospedale un caso di appendicite. Mentre Mary tornava a sedersi, Felix disse a voce più alta: «È rimasto ucciso tornando da Dunkerque il maggio successivo, a bordo di una piccola barca. Non era sua e lui non era un marinaio esperto. Aveva raccolto dalla spiaggia tre uomini. È stato l’unico contributo che poteva dare. È morto e poi mi sono arruolato anch’io».

Lei non capiva il suo tono sdegnato. «Non c’è niente di cui vergognarsi, no?».

Non le rispose: si alzò impacciato e riempì di scotch i bicchieri di entrambi.

«Scusa. Sono noioso».

«Non sei affatto noioso». Lui le sorrise e si sedette. «Oh, be’, è una vecchia storia». Non era la fine della storia, ma solo delle confidenze che era disposto a farle.

«E la signora di cui aspettavi con ansia la telefonata?».

«È proprio lei».

«Felix! Ma deve avere...».

«Cinquantotto il luglio scorso».

Lo fissava con un’espressione incredula, o forse di biasimo, difficile dirlo. Felix sostenne il suo sguardo e disse lentamente, con tono ponderato: «Non lo so. Forse avrei dovuto sposarla anni fa e adesso avremmo alle spalle vent’anni di vita... si tratta di questo. Voglio vederla e sincerarmene».

Lei aprì bocca per replicare, ci ripensò, bevve un sorso di liquore e poi si sentì scattare la serratura della porta. Era Jack.

«Oh, Gesù, Gesù! Tornare da una grave emergenza medica... un semplice caso di appendicite per giunta già correttamente diagnosticato dalla madre del paziente... e trovarmi di fronte a una sordida scena di passione sfrenata tra il mio migliore amico e mia moglie!». Prese un bicchiere vuoto e cercò la bottiglia. «Ora capite perché devo andare al cinema tutte le settimane. La mia vita è così vuota e arida! È come se la natura umana qui non funzionasse. Tutto va così come deve andare: mi domando il perché».

«Non sei divertente. Nient’affatto».

Si voltò dopo essersi versato dello scotch.

«Forse qualcosa andrà storto durante la nostra vacanza», disse Jack. Lei alzò gli occhi di scatto.

«Santo cielo, non potrei sopportarlo».

«Sì che potresti. Ma non accadrà». Le cinse le spalle col braccio e Felix vide il viso di Mary rilassarsi e addolcirsi di piacere.

«Vi prometto che, per quanto mi concerne, nulla andrà storto nella vostra vacanza», li rassicurò. Un impegno. A non deludere le aspettative di una bella ragazza che va in vacanza col marito. Ci sei dentro, King. Ormai hai cominciato: in un mese sei riuscito a prendere due grosse decisioni e a farti curare i denti... oh, e ti sei pure comprato una macchina di seconda mano e due completi invernali... immagino che tempo un anno e sarò bello e sistemato, come sarei già stato da tempo se avessi sposato Clara. Finché non aveva conosciuto lei non aveva creduto possibile che una bacchettona fosse sensuale... doveva raccontarlo a Mary: questo sì che l’avrebbe fatta ridere...

 

Mary fu di ritorno e Felix venne via dalla finestra per aiutarla a sparecchiare.

«Dei bambini che ne hai fatto?».

«La piccola è nel suo recinto e Barney passa la mattina nella vasca da bagno. È lì con la sua portaerei», aggiunse a mo’ di spiegazione. «Mette in scena battaglie, naufragi... devo solo aggiungere un po’ d’acqua calda ogni tanto e lui è contento così. A che ora te ne vai?».

«Nel pomeriggio. Posso andare a fare la spesa, ma devi darmi una lista a prova di cretino».

«Oh, Felix! Così potrò pulire per bene la casa e tenere il telefono acceso».

«Che donna fortunata».

Gli diede un borsellino usurato e una lista scritta nella sua grafia nitida, un po’ maschile. «Prendi due aringhe in più se ti fermi a pranzo con noi. Scusa, è un sacco di roba, ma è la spesa per tutta la settimana. Sai dove andare, vero?».

Lo sapeva. Nel borsellino c’erano due sterline: molto meno di quello che si spende per portare a cena fuori una ragazza. Era una delle cose che Clara diceva spesso, sebbene poi la cena se la lasciasse offrire ogni volta: sottolineava certe disuguaglianze con un puntiglio accorato, come per farlo sentire responsabile. E all’inizio ci era riuscita. Nella sua decisione di andare a lavorare in un campo per rifugiati coreani, sicuramente aveva avuto la sua parte la ferma convinzione di Clara che loro due insieme erano una potenza sufficiente a salvare il mondo (di certo migliori di quella massa di ignoranti così stupidi da farsi buttare fuori dalle loro case senza alcun mezzo di sostentamento). Durante l’ultima, tremenda lite che aveva avuto con lei aveva dato sfogo a un rancore di lungo corso e al disprezzo per ciò che Clara pensava, rappresentava ed era, e d’un tratto s’era trovato di fronte a un’immagine di se stesso da cui non poteva fuggire. In seguito aveva compreso che il loro sodalizio si era fondato su un sordido patto di reciproca adulazione: un po’ come i maiali di Orwell che, convinti di essere angeli, si strofinavano le schiene gli uni contro gli altri sperando così di farsi spuntare le ali...

Il supermercato era pieno e troppo illuminato, allietato da una musichetta anonima, e dalla strada i clienti intenti a spingere i loro carrelli sui pavimenti lustri parevano nuotare nella luce, mentre una volta dentro erano quelli in strada a sembrare pesci grigiastri in un acquario sporco. Lista alla mano, Felix si accinse al noioso compito di reperire i vari prodotti che Mary desiderava: nonostante l’accompagnamento musicale, non fu piacevole. Pilotò il carrello verso un banco e numerosi detersivi impilati rovinarono al rallentatore sul pavimento dove, animati da vita propria, schizzarono via per parecchi metri. Il vasetto di marmellata era tutto appiccicoso e non si capiva perché. Proprio non gli riuscì di trovare l’orzo perlato, e dopo tutto quel tempo si sentiva troppo imbranato e impopolare per domandare dove fosse. Si arenò dietro a una donna con un corpulento bambino sui tre anni che, ogni volta che Felix si chinava per prendere qualcosa dagli scaffali in basso, gli faceva il solletico con un fiore di plastica. La prima volta si era voltato con un’espressione che sperava risultasse benevola: il bambino era rimasto muto e impassibile. Così provò a superarli – fu allora che causò il crollo dei detersivi – ma, non essendoci riuscito, si rassegnò a chinarsi il meno possibile. Alla fine rinunciò all’orzo perlato e si mise in fila per pagare. Spese due sterline e diciassette. Con le sporte piene, fece rotta verso il pescivendolo. La bottega non gli fece una buona impressione. I pesci avevano quell’aria rassegnata che ha la gente quando è obbligata a restare immobile troppo a lungo, mentre inspiegabilmente il pescivendolo somigliava a un pesce anche lui, cosa che a Felix non parve rassicurante. Poi andò da un piccolo fruttivendolo a comprare l’orzo perlato, una torta di noci e due bottiglie di Mâcon. Il fruttivendolo sembrava stanco e affranto, ma per lui il rapporto col cliente doveva essere un punto d’onore. «Giorno di spesa, vedo». Poi disse anche che presto sarebbe scesa la nebbia e che vedeva che Felix aveva le mani occupate. Felix stava tentando di ficcare una bottiglia in ogni sporta senza far vedere al fruttivendolo che aveva comprato tutta la verdura da un’altra parte. A forza di pigiare bucò il sacchetto dell’orzo, che era di sottile plastica azzurra, e sentì i chicchi riversarsi in mezzo al resto della spesa mentre usciva dalla bottega compiacendosi tra sé della sua abilità nell’aprire la porta con un piede e con la spalla. Aveva pensato di comprare un mazzo di crisantemi per Mary ma, a meno di portarlo a casa tra denti, era del tutto fuori questione.

L’ingresso di casa Lewis era al secondo piano e, mentre arrancando accendeva col gomito destro l’interruttore della luce, Felix si rese conto che, se non ci fosse stato lui, Mary avrebbe fatto tutto questo portandosi dietro Barney e la bambina; certo, Barney sarebbe stato un’ottima risposta al piccolo torturatore col fiore di plastica, ma per il resto gli sembrava un’impresa impossibile.

La gratitudine con cui lo accolse Mary gli tirò su il morale.

«Purtroppo mi si è rotto il sacchetto dell’orzo. Il vino e la torta li offro io. Che farei adesso se fossi te?».

«Ti prenderesti una bella tazza di caffè forte mentre prepari la verdura per il pranzo. Ah, Felix... ha chiamato!».

«Chi?», domandò distratto.

«Lo sai. La donna di cui mi hai parlato. Ha detto che ha ricevuto la tua lettera solo stamattina e che è felice che tu vada a farle visita questo fine settimana».

Felix sorrise e si sedette. «Le verdure non le so cuci­nare».

Lei gli mise davanti il caffè. «È già pronta...Felix, io lo so che non sono affari miei, veramente» (chissà che intendeva poi per veramente, si domandò Felix con indulgenza). «Ma...non sarai precipitoso, vero? Insomma, ci penserai bene...hai capito, no?».

«Tu mi definiresti un bell’uomo?».

«Perché?».

«Be’, eccomi qua: senza lavoro, senza casa, praticamente senza amici. Non sono proprio un buon partito, no? L’ultima donna con cui ho avuto a che fare ha detto che mi amava per ciò che avevo dentro, non per il mio aspetto fisico».

«Scommetto che le piaceva anche quello. E a te piaceva il suo?».

«Anch’io l’amavo per quello che aveva dentro. Ma non dove credeva lei. Perciò come vedi ho bisogno di un po’ d’incoraggiamento: altrimenti, chi lo sa, potrei buttarmi fra le braccia della prima che mostra di volermi».

Mary non capiva se la stesse prendendo in giro e aveva cominciato ad arrossire.

«Ma certo che sei un bell’uomo», borbottò. «E poi per un medico è facile trovare lavoro. Inoltre hai noi e puoi stare qui tutto il tempo che vuoi».

«Così mi fai sembrare ancora più patetico e bisognoso. E dai, Mary, sono bello o no?».

Non servì a nulla. Arrossiva sempre di più e cominciava a innervosirsi.

«Da far impallidire Marlon Brando!», disse in fine raccogliendo il coraggio a piene mani.

«Molti ebrei hanno i capelli rossi. Dovrei piacerti, no?».

In quel momento dalla porta della cucina spuntò Barney. Aveva una spugna legata al braccio con una cinghia, le pantofole di Mary ai piedi e teneva in mano una copia bagnata fradicia del «British Medical Journal».

«Io ho finito», annunciò. «La carta non galleggia. Ho fame».

 

«Il grande vantaggio di essere invitati a pranzo dai Lewis», disse Jack, «è che a quell’ora ce ne sono di meno. Di Lewis, intendo».

Barney e la piccola avevano mangiato a mezzogiorno e mezzo e ora facevano il loro riposino, anche se far addormentare un bambino con la tempra di Barney secondo Felix non doveva essere un’impresa semplice. Il bagno, aveva fatto sapere Jack, somigliava a un vasto acquitrino. Gli adulti avevano mangiato le loro aringhe con purè di patate e cavolini e adesso gustavano il miglior pudding di riso che Felix ricordasse di aver mai assaggiato. Erano già stati discussi i vari problemi connessi al subentro di Felix nello studio: Mary avrebbe aggiunto degli appunti alla lista degli indirizzi e Jack gli avrebbe mostrato le cartelle per dargli un’idea della marmaglia con cui avrebbe avuto a che fare. «Alcuni sono davvero terribili». Stabilirono di farlo domenica sera.

«Tornerai in tempo?».

«Vi chiamo se non torno in tempo... Ma no, certo che tornerò in tempo».

Mary era in ansia, forse per la vacanza o forse per il suo fine settimana, difficile dirlo.

Domenica avrebbe portato i bambini da sua sorella a Esher, sarebbe rimasta lì con loro per aiutarli ad ambientarsi e poi al suo ritorno Felix e Jack l’avrebbero portata a cena fuori. «Dove le piacerebbe andare?».

«L’ultima volta che ne ha parlato, la scelta era caduta su Wheelers, ma è una che cambia idea facilmente. Lo sai come sono le donne».

«Delle eterne indecise».

«È che vogliono fingere di essere loro a scegliere».

«Qualche volta bisogna lasciarle fare».

«Sebbene sia un fatto che il loro cervello pesa meno del nostro».

«Però sono tanto più carine degli uomini, no?».

«Vorrei vedere voi, una sola giornata insieme ai bambini», disse Mary indispettita. «Tutti e due».

Finito di mangiare, Felix disse che preferiva mettersi in viaggio subito. Era venerdì e la nebbia poteva infittirsi, così disse. In realtà gli stava passando la voglia di andarci. La calda atmosfera familiare lo aveva rilassato al punto che i suoi piani cominciavano a sembrargli una via di mezzo fra una grossa sciocchezza e un atto avventato dalle conseguenze imprevedibili.