Undici
Cressy

Dopo che Emma e Dan furono usciti, aprì lo spartito di Haydn al terzo movimento, poi cambiò idea e tornò al primo. Almeno una cosa l’aveva tenuta per sé, non l’aveva detta a quel tizio odioso. Bisognava essere pazzi per raccontargli tutto. “Il fatto è che se mi ritrovo da sola con una persona, chiunque sia, finisco per parlare troppo. Da vecchia sarò un vero strazio”. Lui si era rivelato comprensivo e serio in un modo che proprio non si aspettava, e così aveva passato il segno. Aveva avuto torto a giudicarlo un incapace con una bella faccia. Non lo era. In un certo senso era stato interessante parlare con lui. In un certo senso. Tornò a Haydn e le venne in mente Dick. Domenica sera gli avrebbe dato il benservito. Si sentiva calma e determinata: non poteva essere importante, dato che erano quelli i suoi sentimenti. Si arrotolò le maniche perché non le fossero d’intralcio e si mise al lavoro.

In capo a un’ora aveva ricominciato a dolerle quel muscolo. Si alzò dallo strumento e si accese una sigaretta. Il pensiero di riprendere gli esercizi le metteva addosso una specie di apatia, una sensazione che ormai associava a quando si avvicinava la data di un concerto. Lui almeno, Felix, faceva del suo meglio per aiutare persone in grave stato di bisogno che non avevano altri a cui rivolgersi, non come lei che costringeva della gente con molto tempo libero a sentirla strimpellare, pagando per giunta un salato obolo.

Messa così, non aveva molto senso la sua ostinazione ad andare avanti con la musica. Basta con Dick, basta con la musica – un repulisti radicale. Allora sì che sarebbe stata costretta a darsi una mossa. Magari Ann aveva una mansione molto umile da assegnarle. Immaginava che nelle organizzazioni benefiche, o nelle organizzazioni in generale, ci fosse un gran bisogno di gente disposta a mansioni umili. O forse poteva andare in Corea o in Africa, dove il dottor Schweitzer aveva quella specie di lebbrosario... Sciocca e melodrammatica. Se voleva aiutare la gente poteva farlo benissimo a Uxbridge o a Liverpool.

Si affacciò alla finestra: nonostante il buio quasi completo vide Emma e Dan intenti a preparare i loro fuochi d’artificio: era certa che stessero parlando semplicemente di quello, come i bambini. Gli altri due invece, sua madre e Felix, dovevano essere intenti a un piacevole tête-à-tête davanti al fuoco... Dio santo, come poteva essere? Diventava matta a pensarci, tanto era inappropriato. Forse era vero che era venuto solo per sincerarsi che sua madre stesse bene. Non si poteva biasimarlo per questo. Insomma, l’intrusa era lei. Era meglio farci l’abitudine. Tornò al piano e chiuse il coperchio. Quando spense la lampada, la stanza diventò enorme e quasi completamente buia, e le venne voglia di stare lì a crogiolarsi nella sua tristezza. O a lasciarla defluire, almeno. Ma aveva paura che, così facendo, di lei non sarebbe rimasto niente. Poteva preparare il tè per tutti, come gesto inaugurale per il nuovo corso della sua vita? Scartò l’ipotesi: tutti i presenti, ognuno a suo modo, l’avrebbero presa come un’interferenza. Aiutare, il più delle volte, significa interferire, pensò. Decise di andare a fare il bagno.

Nella vasca da bagno prese la decisione di rinunciare all’idea, alla prospettiva, alla speranza dell’amore: questo, immaginava, avrebbe voluto dire rinunciare anche al sesso. E se avesse scoperto che dopotutto si riusciva a vivere anche senza, avrebbe potuto cercarlo da una posizione di forza. Come un uomo, pensò in preda a una specie di euforia fredda: non lo avrebbe più confuso con altre cose, com’era stata tante volte accusata di aver fatto in passato. La vita così sarebbe diventata infinitamente più semplice: e se dopo un po’ si fosse rivelata anche noiosa? No, non se la si riempiva di buone azioni. Se riusciva a mantenere questo regime per un anno o due, forse sarebbe riuscita a diventare una di quelle persone comprensive e irraggiungibili che ispirano confidenze: le povere creature ancora alle prese con la confusione da cui lei si stava definitivamente congedando avrebbero bussato alla sua porta per chiedere consiglio. Lei glielo avrebbe dato, loro non avrebbero capito e lei se ne sarebbe accorta. Gliene sarebbe importato così poco che si sarebbe diffusa in giro la fama della sua bontà. Sarebbe diventata capace di aiutare gli altri, quelli che ancora confondevano l’amore col matrimonio, quelli che vivevano nella convinzione che, se possiedi case, macchine, una buona reputazione e una routine quotidiana, allora non ti manca niente. Un modo di pensare che aveva sempre disprezzato: ma a rifletterci con lucidità, a costoro davvero non manca niente, perché da sempre non desiderano che le case e le macchine, e chiamano tutto questo amore perché meglio di così non potrebbero stare. Vivere di rendita è un’arma a doppio taglio, pensò. Si crede sempre di avere a disposizione delle scorciatoie, fin da quando si è troppo giovani per sapersene servire con costrutto. Se le fosse toccato guadagnarsi da vivere, avrebbe imparato fin da subito le lezioni fondamentali. Le sembrava invece di essere stata instradata da bambina verso grandi e vaghi traguardi, e di non aver saputo cambiare direzione perché non aveva mai capito che cosa ci si aspettava veramente da lei. Adesso, almeno, era abbastanza lucida da saper usare il privilegio a proprio vantaggio. Poteva, per esempio, pagarsi degli studi per diventare utile a qualcuno: non doveva per forza essere quella che scrive gli indirizzi sulle buste. Di solito le persone che hanno fama di sapere come funziona la vita sono fondamentalmente pessimiste, perciò per lei non sarebbe stato difficile farsi quel tipo di reputazione. La voce si sarebbe sparsa e la gente le avrebbe chiesto dei colloqui, per scoprire come mai era così saggia, così calma. “Mrs Egerton mi ha ricevuto con semplicità nel suo semplice appartamento: era arredato col minimo indispensabile...” (in cosa consisteva poi il minimo indispensabile? A quanto ne sapeva lei, il minimalismo urbano era molto costoso, di semplice c’erano solo i muri bianchi, i libri e i blue jeans). Ma comunque. Un appartamento in un vecchio stabile, elegante ma senza fronzoli. “Mi ha colpito subito la semplicità delle sue maniere, il senso di calma emanato dalla sua persona...”. Abbassò gli occhi sul proprio corpo disteso chiedendosi da dove potessero emanare la calma e la saggezza. Non ne venne a capo.

Bussarono alla porta. «Sono io». Era la voce di Emma. «Ti ho portato il tè».

Cressy uscì dalla vasca e si avvolse in un asciugamano per andare ad aprire. Emma entrò con una tazza fumante.

«Ho pensato che ne volessi un po’». Era rosa in volto e le brillavano gli occhi. «Vuoi tornare dentro?».

Cressy scosse il capo e si sedette sul bordo. «Ti ringrazio. Dov’è Dan?».

«Sta mangiando le focaccine», disse in tono orgoglioso. «Non ha l’aria di uno che mangia così tanto, ti pare?».

«In effetti no. Forse mangia solo nel fine settimana».

«A te è simpatico, vero?». Emma si era seduta sul cesto della biancheria e sembrava intenzionata a fermarsi.

«Certo che mi è simpatico. È un tesoro. Un tipo interessante», aggiunse, vedendo l’espressione di sua sorella.

«Lo credo anch’io. Volevo dirti...potresti prestarmi qualcosa per stasera? Ho la mia gonna di flanella, ma niente da abbinarci».

«Puoi prendere quello che vuoi. Io però non prenderei una camicetta, le mie non ti stanno bene. Guarda sullo scaffale dei maglioni. È meglio se ti aiuto io a scegliere».

«Va bene. Un’altra cosa...».

«Sì?».

«Ti dispiacerebbe se Dan venisse da noi a Lansdowne Road domenica sera? Per una sola notte? O sarebbe molto strano, con Dick in casa?».

Per essere strano, era strano: ma Emma non aveva mai invitato nessuno a dormire a casa, men che mai un uomo, almeno che lei ricordasse.

«No. Non c’è problema. Dick non si fermerà a lungo. Mi servirà il soggiorno per parlare con lui, però».

«Oh be’, a Dan non importerà di andare a dormire un po’ più tardi. Andrà a vedersi un film o qualcos’altro... È che proprio non sa dove andare. Lunedì gli troveremo qualcosa».

«Può anche restare». Era una legge non scritta, quella di non fare domande: Emma non ne faceva mai, aspettava che fosse lei a parlare; ma Cressy non seppe trattenersi dal dire: «Non ti ho mai vista così, Em».

«Non c’è proprio niente di strano». Disse Emma, prese la sua tazza e uscì dal bagno.

Cressy si asciugò, si accorse di aver dimenticato la vestaglia e si avviò verso la propria camera avvolta in un telo da bagno. In corridoio si trovò faccia a faccia con Felix, che fece cadere delle carte che aveva in mano e imprecò a mezza voce: «Cristo!».

Cressy gli rivolse un’occhiata assente. La sua fantasticheria era arrivata al punto in cui lei rifiutava, con grazia e umiltà, un importante titolo onorifico...

«Chiedo scusa», disse Felix.

Giunta in camera pensò che il suo nuovo corso doveva già avere qualche effetto. Adesso, se qualcuno voleva provarci con lei, avrebbe dovuto faticare il doppio rispetto a prima per averla. Voleva pur dire qualcosa.

Aveva quasi completato una severa cernita del proprio vestiario – molti capi non si adattavano alla sua nuova vita e altri semplicemente non le piacevano più­ – quando Emma entrò per farsi consigliare.

«Stai facendo un repulisti? O questa roba è tutta per me?».

«È tutta roba che non mi serve. Puoi prendere quello che vuoi, ma non ti permetterò di metterti qualcosa che non ti sta bene».

«D’accordo», assentì Emma con umiltà. «Non lo voglio neanch’io».

«La gonna dov’è?».

«In camera mia».

«Be’, prendila, no? Come facciamo a vedere cosa ci sta bene se non l’abbiamo sotto mano?».

«Gli altri cosa fanno?», domandò a Emma quando fu di ritorno con la gonna.

«Mamma apparecchia la tavola. Felix sta preparando un’enorme caraffa di Martini. Dan gioca al solitario della Bastiglia. Non si accontenta di restare con una sola biglia, vuole che alla fine del gioco la biglia si trovi in un certo punto che ha stabilito lui. I fuochi li faremo dopo cena. Sarà un bello spettacolo. Ah, brutte notizie! A cena c’è anche Jennifer Hammond».

«No!».

«Invece sì. E pure il maggiore Hawkes».

«La Hammond e Hawkes! Ma come lo sai?».

«Cercavo della carta per annotare i punti e l’ho visto scritto sull’agenda di mamma. Sai una cosa? Secondo me il maggiore vorrebbe sposare mamma».

«È possibile. Però... immagina di doverti avvicinare a lui mentre parla con la sua voce bassa bassa sputacchiando a destra e a sinistra».

«Lei lo chiama Brian», disse Emma compunta, drappeggiandosi addosso un maglione rosso. «Se sposi un uomo del genere, secondo me hai il diritto di chiedergli di parlare un po’ più forte. O magari di farsi sistemare i denti».

«Sì, ne avresti il diritto. Ma lui non lo farebbe. E allora non ti resterebbe che evitare di tirare in ballo nomi stranieri quando parli con lui. Sono quelli più pericolosi».

Si misero a fare il giochino che avevano intitolato al maggiore Hawkes. «Qual è il drink preferito del maggiore Hawkes?».

«Sarsapilla», rispose Emma dopo averci pensato un attimo. Era un gioco che si prestava ad accompagnare altre attività. Cressy tolse di mano a Emma il maglione rosso. «Lo sai che il rosso non sta bene coi tuoi occhi, sciocchina. Con nessuno dei due».

«Qual è il piccolo Stato europeo più coraggioso secondo il maggiore Hawkes?».

«La Cecoslovacchia. Gesù, Jennifer Hammond! Facciamoli sedere vicini... qual è la malattia più temuta dal maggiore Hawkes?».

Emma ci pensò. «Non lo so... posso prendere questo? Non per stasera, intendo».

«Setticemia!», proclamò trionfante Cressy. «Certo che puoi. Mettiti la gonna, vediamo... e la sua contea inglese preferita?».

«Questa è facile... il Somerset!».

«È di un bel blu, la tua gonna. Ma no, scema... è il Sussex!».

«Ecco cosa ci sta bene». E sollevò un maglione di cachemire color tabacco. Era senza maniche. Emma lo disse facendo sibilare le esse. «Chi è il suo compositore prefe­rito?».

«Rimskij-Korsakov».

«Šostakovič».

«Saint-Saëns. La musica gli piace tanto!».

«Ne va pazzo. Sai, credo che la vita sociale della mamma stia peggiorando».

«No, non è così. È che più uno invecchia, più gli piace la gente noiosa. Come sto?».

«Non male. Aspetta, ferma... proviamo a infilarlo in vita».

«Che ne dici?».

«Ci vuole una cintura alta, altrimenti è meglio tenerlo fuori. Dato che ti va leggermente grande, io fossi in te opterei per la cintura. Credi che lei voglia sposarlo?».

«Secondo me soffre un po’ di solitudine», disse Emma dopo aver riflettuto qualche secondo. «Si preoccupa tanto che tu e io non siamo sposate, perciò deve credere molto nel matrimonio».

«Non è detto», replicò Cressy in un tono cupo. «Prova questa».

«Dovrò farci un altro buco».

«Hai una vita sottile in modo indecente. E ti prendi sempre le mie cinture! E dopo che le hai riempite di buchi io non posso più usarle. Perché non te ne compri qualcuna?».

«S’impigliano agli schienali delle sedie nei ristoranti costosi... qual è il suo fiume preferito?».

«Non lo so. Dimmelo tu».

«Il Mississippi!», disse Emma contrariata. «Non ti stai impegnando. Posso dare un’occhiata a questa roba, prima di spedirla al Servizio Volontario Femminile?».

«Accomodati». Cressy si accese una sigaretta e cominciò a spazzolarsi i capelli.

«Felix che tipo è?», le domandò Emma qualche minuto dopo.

«Non male. Credevo peggio».

«Mamma come lo conosce?».

«Credo lo conoscesse da prima della guerra».

«È molto più giovane di lei».

«Sì, infatti», disse Cressy.

Emma se ne andò col suo bottino, non prima però che sua sorella l’avesse pettinata e avesse fatto un’ispezione finale. Stava benissimo: la gonna dritta, lunga fino alle caviglie, era di un bell’azzurro. Il golfino di cachemire le stava a pennello e con una vita così sottile la cintura era l’ideale. Emma non si era mai innamorata prima d’ora, pensò Cressy preoccupata. Ma non ne era sicura: Em era molto riservata su certe cose e una delle basi del loro rapporto era che nessuna delle due s’intrometteva nella vita dell’altra. Adesso toccava a lei vestirsi. La determinazione di poco prima a non badare troppo al proprio aspetto fu drasticamente ridimensionata dalla notizia dell’arrivo di Jennifer Hammond. Non voleva dare troppo nell’occhio, questo no, ma nemmeno sembrare una povera disgraziata. Si mise all’opera. Erano le sette quando cominciò, l’aperitivo veniva servito di solito alle sette e trenta, perciò sarebbe arrivata in ritardo di sicuro.

Quando scese dabbasso, trovò sua madre, Felix, Emma e Dan col bicchiere in mano. Qualche incauto aveva dato del whisky e soda al maggiore Hawkes. Felix versò il Martini anche a lei che intanto chiedeva dove fosse Jennifer Hammond.

«Eccoli che arrivano». Sentirono tutti il rumore di una macchina sul vialetto.

«Perché parli al plurale?».

«Gli Hammond, cara. Alla fine Richard è potuto venire. C’era troppa nebbia per partire in aereo».

Oh Dio, no! Ci mancava solo questa. L’ultima persona che voleva vedere in quel momento era Dick. Posò il bicchiere, lo riprese e bevve un generoso sorso di Martini.

«Una sigaretta?», disse Felix.

Lei lo fissò furiosa, come un animale in trappola. Perché sua madre non le aveva detto niente? Sentì aprirsi la porta d’ingresso, poi l’intollerabile falsetto di Jennifer. Prese una sigaretta senza parlare: ormai era troppo tardi per svignarsela. E lui, perché non l’aveva avvisata? Come aveva potuto, lui che diceva di amarla, piombare in quel modo a cena a casa sua insieme alla moglie... Dov’era Em? Lei avrebbe capito. Infatti i loro sguardi s’incrociarono giusto un attimo prima che gli Hammond facessero il loro ingresso, accolti con calore da Esme.

«...E non sai cos’ho dovuto fare per costringerlo a venire», stava raccontando Jennifer.

«Finiscilo, così posso versartene altro». La voce di Felix.

Cressy mise a fuoco la sua faccia. Se non avesse saputo che era impossibile, avrebbe giurato che Felix avesse capito la situazione. Finì il Martini e se ne lasciò versare dell’altro. Dick doveva averla vista, ma lei lo evitò. Si rivolse invece al maggiore Hawkes, che aveva intrattenuto Dan per diversi minuti: un lungo discorso di cui non era riuscita a sentire una parola e alla fine del quale Dan si era ritirato pensoso, massaggiandosi il mento.

Esme stava facendo le presentazioni, che concluse dicendo: «E poi naturalmente ci sono Cressy ed Emma». In che senso naturalmente?

Jennifer, che Felix aveva prontamente munito di un bicchiere di Martini, le si avvicinò subito.

«Immagino tu sia impegnatissima a preparare i tuoi concerti, per questo ti vediamo così poco». Portava un maglioncino scollato con una guarnizione di perle e una gonna terribilmente pelosa.

Cressy le sorrise, o almeno così le parve.

«Che cosa stupenda! Io non ho orecchio per la musica, ma mi piacerebbe moltissimo sentirti suonare. Di questi tempi i bambini mi tengono talmente occupata che non riesco a fare niente per me stessa».

«Dolce ragazza, tu pensa a essere buona, l’intelligenza lasciala a chi proprio non può farne a meno», declamò Hawkes in maniera alquanto incongrua.

«Oh, eccoti qua!», gemette Jennifer. «Caro, mi presteresti il fazzoletto?». Si girò e rigirò in cerca del marito, che si avvicinò per darle ciò che chiedeva. Dick.

«Buonasera», la salutò.

«Buonasera».

«Caro, si può sapere perché bevi del Martini se sai che ti sta venendo il raffreddore? Non sarebbe meglio del whisky?».

«Il Martini mi va benissimo».

«Può darsi, ma non va bene a me... ci sarebbe un goccio di whisky per Dick?», domandò rivolta a nessuno in particolare. «Questo lo bevo io, caro». E gli tolse di mano il bicchiere con un gesto disinvolto.

Felix versò il whisky a Dick. Il maggior Hawkes borbottò qualcosa a proposito del whisky che secondo lui addolciva il cuore, e poi se ne uscì con una risatina fastidiosa. Rise anche Jennifer, dopodiché si misero a parlare di rogna auricolare. Avevano entrambi dei cani.

Cressy guardò Dick cercando di fingere di non averlo mai visto prima. Un tipo belloccio con una faccia ottusa. Bello era bello, però. Come potevano andare insieme le due cose?

«Va meglio?», le domandò Felix mentre le offriva un’altra sigaretta.

«Meglio rispetto a cosa?», disse lei col tono più brusco che le riuscì.

«Meglio rispetto a sempre», replicò Felix tranquillo.

Sua madre gironzolava per la stanza riempiendo i bicchieri. Cressy guardò Jennifer alle prese col terzo Martini e capì, dalla faccia di Dick, che stava lenendo con l’alcol il dispiacere di una lite coniugale. Si rese conto che, oltre a trovare detestabile l’idea di essere Jennifer, non avrebbe mai voluto trovarsi nella sua posizione. Uno dei trucchetti di Dick era stato far apparire il suo rapporto con la moglie come qualcosa di assai più serio di ciò che adesso le si palesava davanti senza possibilità di equivoci. Con Cressy, Dick aveva sempre avuto l’atteggiamento del marito leale e compassionevole nei confronti di una donna dolce, buona e non molto sveglia che gli aveva dato gli anni migliori della sua vita e che meritava per questo il suo rispetto, per quanto ciò comportasse per lui una grossa rinuncia. Adesso Cressy sapeva, e si augurava che lui ne fosse cosciente, che Dick era solo soddisfatto di un rapporto noioso con una donna per cui il valore del matrimonio si riduceva a un patto esteriore da salvaguardare a tutti i costi. Le venne in mente René, una cosa che le aveva detto quando erano ancora nel pieno della loro relazione. Cressy gli aveva domandato perché avesse scelto proprio sua moglie e lui aveva risposto: «Ecco, vedi, mia moglie mi capisce, e questo vale quanto un quadro prezioso». La mediocrità di quella donna era esattamente ciò che serviva a Dick per giustificare le sue infedeltà. Jennifer non era affatto una delusione per lui, era esattamente ciò che si aspettava e voleva e che gli permetteva di vivere le sue scappatelle con la coscienza pulita. Non si può amare qualcuno che si accontenta di così poco. Si sentì talmente sollevata che, quando Jennifer si versò il liquore sul maglioncino guarnito di perle, Cressy le diede il suo fazzoletto per asciugarsi. Jennifer lo prese con chiassosa gratitudine, lo adoperò e lo annusò. «Che profumo delizioso! Che cos’è? No, non dirmelo... lo so». Ma non le venne in mente il nome e alla fine Cressy glielo disse.

Poi Mrs Hanwell si affacciò per annunciare che le oche della cena non potevano più aspettare, così gli ospiti vuotarono in fretta i loro bicchieri e si avviarono verso la sala da pranzo. Sua madre, che stava ascoltando la dissertazione del maggiore Hawkes sulle differenze tra la Rivoluzione Francese e la Rivoluzione Industriale, le chiese a bassa voce di accendere il fuoco; Felix si era fatto carico di Jennifer Hammond, sempre più stridula e instabile, mentre Emma e Dan erano già andati ad accendere le candele al centro del tavolo. Dick riuscì così a restare indietro, e quando Cressy si alzò dal caminetto le fece una faccia perplessa e risentita. Lei gli rispose con un’occhiata impassibile, benevola. Dick insistette.

«Sei bellissima, cara... mi dispiace tanto per la situazione. Ma Jennifer ha insistito...».

Cressy si pulì le mani da una traccia di muschio e disse: «Non fartene un cruccio», e si avviò verso la porta. Lui tornò alla carica.

«Non dovevi dirle del profumo! Già ha dei sospetti. Se lo scopre, siamo in guai seri».

«Il fuoco in casa deve continuare ad ardere», gli disse e proseguì verso la porta. Si sentiva come se lo stesse guardando dall’alto, a una distanza di miglia e miglia. Dio, com’era facile!