CAPITOLO 8
IN RUSSIA SENZA
GUANTI
LENIN PROSPEKT, MURMANSK
Mikhael Vassikin stava diventando impaziente. Erano più di due anni che faceva il baby-sitter, dietro richiesta di Britva. In realtà non si era trattato esattamente di una richiesta. La parola richiesta implica il fatto che tu abbia una scelta. Ma con Britva non si discuteva e neanche si sollevavano obiezioni. Il Menidzher, il capo, apparteneva alla vecchia scuola e la sua parola era legge.
Le istruzioni di Britva erano semplici: nutrilo, lavalo, e se non esce dal coma nel giro di un altro anno, ammazzalo e getta il corpo nella baia di Kola.
Due settimane prima della scadenza, l'irlandese si era seduto di scatto sul letto urlando un nome: Angeline. Kamar si era spaventato tanto che la bottiglia di vino che stava aprendo gli era sfuggita di mano, rompendosi e trafiggendogli i mocassini Ferrucci e l'unghia dell'alluce. Le unghie ricrescono, ma i mocassini Ferrucci sono difficili da reperire, al Circolo Polare Artico. Mikhael aveva dovuto atterrare il compagno per impedirgli di strozzare l'ostaggio.
Così ora facevano il gioco dell'attesa. Il rapimento era un affare che seguiva regole precise: prima mandavi il biglietto-esca, ossia, in questo caso, la e-mail; poi aspettavi qualche giorno per dare al pesciolino il tempo di mettere insieme il contante; infine lo agganciavi con la richiesta di riscatto.
Al momento erano rinchiusi nell'appartamento di Mikhael sulla Lenin Prospekt, in attesa di una telefonata di Britva. Neanche osavano mettere il naso fuori per prendere una boccata d'aria. Non che ci fosse granché da vedere: Murmansk era una di quelle città russe uscite direttamente da uno stampo di cemento. In pratica, la Lenin Prospekt aveva un bell'aspetto solo quando era sepolta dalla neve.
Kamar uscì dalla stanza da letto, i lineamenti aguzzi contorti in una smorfia incredula. «Vuole del caviale, riesci a crederci? Io gli do un bel piatto di stufato e lui vuole il caviale, ingrato d'un Irlanskij!»
Mikhael sospirò. «Mi stava più simpatico quand'era addormentato.»
Kamar annuì e sputò nel caminetto. «Dice che le lenzuola sono troppo ruvide. È fortunato che non lo infili in un sacco e lo getti nella baia...»
Lo squillo del telefono interruppe le sue vane minacce.
«Ci siamo, amico» esultò Vassikin, dandogli una pacca sulle spalle. «Siamo in ballo.» Sollevò il ricevitore. «Sì?»
«Sono io» disse una voce, resa metallica dai cavi consunti.
«Signor Brit...»
«Zitto, idiota! Non usare mai il mio nome!»
Mikhael deglutì. Al Menidzher non piaceva essere collegato ai suoi vari affari. Il che significava niente di scritto e non pronunciare mai il suo nome se c'era rischio d'intercettazioni. Aveva l'abitudine di telefonare mentre guidava, in modo che risultasse impossibile triangolare la sua posizione.
«Mi dispiace, capo.»
«E fai bene. Adesso ascolta e tieni la bocca chiusa.»
Vassikin coprì il microfono. «Tutto bene» sussurrò a Kamar, girando i pollici verso l'alto. «Stiamo facendo un gran lavoro.»
«I Fowl sono in gamba» proseguì Britva. «Senza dubbio cercheranno di rintracciare l'ultima e-mail.»
«Ma l'ho sistemata in modo che...»
«Cosa ti ho detto?»
«Di tenere la bocca chiusa, signor Brit... signore.»
«Esatto. Allora... mandate la richiesta di riscatto e spostate Fowl al punto di consegna.»
Mikhael impallidì. «Il punto di consegna?»
«Sì, il punto di consegna. Nessuno andrà a cercarvi laggiù, garantito.»
«Ma...»
«Basta con le chiacchiere! E vedi di procurarti una spina dorsale, almeno per un paio di giorni. Anche se perderai un anno di vita, non ti ammazzerà.»
Il cervello di Vassikin annaspò disperatamente alla ricerca di una scusa. Non ne trovò.
«D'accordo, capo. Come vuoi.»
«Bene. Ora ascoltami. Questa è la tua occasione. Comportati bene e farai carriera.»
Vassikin sorrise, vedendo spalancarsi davanti a sé un'allettante vita a base di champagne e auto costose.
«Se quell'uomo è davvero Fowl Senior, il ragazzo pagherà. Quando avrai i soldi, scarica padre e figlio nella baia di Kola. Non voglio superstiti ansiosi di vendicarsi. Avvertimi, se ci fossero problemi.»
«Bene, capo.»
«Un'altra cosa.»
«Sì?»
«Non telefonarmi.»
La linea cadde.
Vassikin rimase a fissare il ricevitore come se fosse una fiala piena di bacilli della peste.
«Allora?» chiese Kamar.
«Dobbiamo mandare il secondo messaggio.»
Un sorriso radioso si allargò sulla faccia di Kamar. «Eccellente. Almeno questa faccenda è alla fine.»
«E poi dobbiamo spostare la merce al punto di consegna.»
Il sorriso sparì, più veloce d'una volpe in una tana. «Che cosa? Ora?»
«Sì. Ora.»
«Ma è assurdo» protestò Kamar. «Una follia. Fowl non può essere qui prima di un paio di giorni. Non c'è bisogno che respiriamo quel veleno per due giorni! Perché dobbiamo farlo?»
Mikhael gli tese il telefono. «Diglielo tu. Sono sicuro che al Menidzher farà piacere sentirsi dare del pazzo.»
Kamar si afflosciò sul divano logoro e si prese la testa fra le mani. «Quando finirà questa storia?»
Il suo compagno accese l'antiquato computer a sedici megabite. «Non lo so» rispose, inviando il messaggio già preparato. «Però so cosa ci succederà se non obbediamo.»
Kamar sospirò. «Penso che andrò a fare due urli al prigioniero.»
«Servirà a qualcosa?»
«No» ammise Kamar. «Però mi farà sentire meglio.»
E93, NAVETTIPORTO ARTICO
L'Artico non era mai stato in cima alla lista delle mete turistiche preferite dal Popolo. Certo, iceberg e orsi polari sono carini, ma non tanto da volerti riempire i polmoni di aria radioattiva.
Spinella attraccò all'unico molo utilizzabile. Il terminal sembrava un magazzino deserto: nastri trasportatori immobili serpeggiavano sul pavimento, e nei tubi termici a bassa gradazione si sentiva uno zampettio frusciante di insetti.
«Copritevi bene, Fangosi» disse il capitano, distribuendo cappotti e guanti tolti da un armadietto antiquato. «Fuori fa freddo.»
Artemis trovò superflua l'informazione. Le batterie solari del terminal erano esaurite da un pezzo e il ghiaccio aveva stretto le pareti in una morsa.
Spinella lanciò un cappotto a Leale, tenendosi a distanza. «La sai una cosa?» disse ridendo. «Puzzi!»
«Tu e il tuo gel antiradiazioni» brontolò la guardia del corpo. «La mia pelle ha cambiato colore.»
«Non preoccuparti. Nel giro di cinquant'anni riuscirai a lavarlo via.»
Leale si abbottonò fino al collo un pastrano da cosacco. «Che bisogno avete di coprirvi, voialtri? Non vi bastano quelle tute all'ultima moda?»
«I cappotti sono un travestimento» gli spiegò Spinella, spalmandosi un gel antiradiazioni su faccia e collo. «Se ci schermiamo, la vibrazione rende inutili le tute. Tanto varrebbe tuffarsi dentro un reattore nucleare. Perciò per stasera siamo tutti umani.»
Artemis si accigliò. Se non potevano schermarsi, il salvataggio del padre diventava più complicato. Doveva modificare i suoi piani.
«Meno chiacchiere» grugnì Tubero, calcandosi un berretto di pelle d'orso sopra le orecchie a punta. «Voglio tutti fuori fra cinque minuti, armati e pronti all'azione. Anche tu, Fowl... sempre che quei polsi rachitici siano in grado di reggere un'arma.»
Artemis scelse un toaster dall'arsenale della navetta, infilò la batteria nucleare nello scomparto apposito e portò a tre la forza della carica.
«Non si preoccupi per me, comandante. Ho avuto modo di fare pratica. Abbiamo una buona provvista di artiglieria LEP, a casa.»
La gradazione di rosso del colorito di Tubero salì di un tono. «C'è una bella differenza fra centrare una sagoma di cartone e una persona vera.»
Artemis esibì il suo sorriso da vampiro. «Se tutto procede secondo il piano, non avremo bisogno di armi. Per cominciare ci sistemiamo vicino all'appartamento di Vassikin; poi, alla prima occasione Leale acchiappa il nostro amico russo e facciamo una bella chiacchierata tutti e cinque. Sono sicuro che sotto l'influenza del fascino ci dirà tutto quello che ci serve. Dopodiché ci basterà stordire le guardie e salvare mio padre.»
Tubero si coprì la bocca con una sciarpa pesante. «E se le cose non andassero secondo il piano?»
Gli occhi di Artemis divennero freddi e risoluti. «Allora, comandante, dovremo improvvisare.»
Spinella rabbrividì. E il clima non c'entrava per niente.
Il terminal era sepolto sotto quindici metri di ghiacciaio. Presero l'ascensore di servizio per la superficie ed emersero nella notte artica: chiunque li avesse visti, li avrebbe presi per un adulto e tre bambini. Ma tre bambini con artiglieria non-umana sotto il cappotto.
Spinella controllò il localizzatore GPS che aveva al polso. «Siamo nel distretto Rosta, comandante. Venti chilometri a nord di Murmansk.»
«Che dice Polledro del tempo? Non mi va di trovarmi nel bel mezzo d'una tormenta a venti chilometri dalla nostra destinazione.»
«Niente da fare. Non c'è linea. Le vampe di magma devono essere ancora alte.»
«D'Arvit» imprecò Tubero. «E va bene, mettiamoci in moto. Leale, tu che sei l'esperto vai per primo. Capitano Tappo, di retroguardia. Sei libera di prendere a pedate ogni didietro umano che batta la fiacca.»
Spinella strizzò l'occhio ad Artemis. «Non me lo farò ripetere, signore.»
«No, scommetto di no» brontolò Tubero, con appena un'ombra di sorriso.
L'eterogenea banda arrancò verso sud-est nel chiaro di luna fino a raggiungere una linea ferroviaria. Camminare sulle traversine era il solo modo per evitare di sprofondare in risucchianti cumuli di neve. Era un'avanzata lenta. La tramontana s'insinuava in ogni interstizio e il freddo colpiva ogni millimetro di pelle esposta con la forza di un milione di scariche elettriche.
Non parlavano granché. L'Artico fa quest'effetto alla gente, anche quando si indossa una tuta termica.
Fu Spinella a rompere il silenzio. «Dimmi una cosa, Fowl» chiese d'un tratto, rivolgendosi alla figura davanti a sé. «Tuo padre ti somiglia?»
Per un istante Artemis esitò. «È una strana domanda. Perché vuoi saperlo?»
«Non ti si può certo definire un amico del Popolo. E se l'uomo che ora cerchiamo di salvare dovesse rivelarsi un nemico ancora peggiore?»
Seguì un lungo silenzio... battere dei denti a parte, cioè. Spinella vide Artemis abbassare la testa.
«Non hai motivo di preoccuparti, capitano. Anche se alcune delle sue imprese erano indubbiamente illegali, mio padre era, è, un uomo di nobili principi. L'idea di far soffrire chiunque gli ripugnerebbe.»
«Allora a te cos'è capitato?» s'informò Spinella, estraendo uno stivale da venti centimetri di neve.
«Ho... commesso un errore» rispose Artemis, il fiato che si condensava nell'aria in lenzuola gelide.
Spinella scrutò la nuca dell'umano. Era sincero? Difficile a credersi. Ma ancor più sorprendente era il fatto che lei, il capitano Spinella Tappo, non sapeva come reagire. Doveva tendergli la mano del perdono o la pedata della rivalsa? Alla fine decise di sospendere il giudizio. Per il momento.
Stavano per inoltrarsi in una gola dai fianchi levigati dal vento sibilante, quando il sesto senso di Leale suonò l'allarme. Si fermò e sollevò una mano. Tubero si affrettò a raggiungerlo.
«Problemi?»
Leale scrutò la distesa innevata. «Forse. Questo posto sarebbe l'ideale per un'imboscata.»
«Solo se qualcuno fosse al corrente del nostro arrivo.»
«È possibile?»
Tubero sbuffò, il fiato che formava nuvolette davanti a lui. «Fuori discussione. Il pozzo è isolato e le misure di sicurezza della LEP sono le più sicure del pianeta... sotto e sopra.»
Fu allora che la squadra d'attacco dei goblin comparve al di sopra del crinale.
Leale acciuffò Artemis per la collottola e lo scaraventò senza troppe cerimonie in un cumulo di neve. Con l'altra mano stava già estraendo un'arma.
«Sta' giù, Artemis. È tempo che mi guadagni la paga.»
Se Artemis non avesse avuto la testa sepolta sotto un metro di neve, gli avrebbe lanciato una risposta pungente.
I goblin erano quattro e volavano in formazione tutt'altro che serrata, scuri contro il cielo stellato, senza neanche tentare di nascondersi. Non li attaccarono e nemmeno filarono via: si limitarono a librarsi su di loro a qualche centinaio di metri d'altezza.
«Goblin» borbottò Tubero, sollevando un fucile a neutrini Bellosparo. «Troppo scemi per vivere. Gli sarebbe bastato stenderci uno alla volta.»
Leale si piantò a gambe larghe nella neve e sollevò la pistola. «Aspettiamo fino a vedergli il bianco degli occhi, comandante?»
«Gli occhi dei goblin non hanno bianco» fu la secca risposta. «E rinfodera quell'affare. Ci pensiamo il capitano Tappo e io, a stordirli. Non c'è bisogno di ammazzare nessuno.»
Leale rimise la Sig Sauer nella fondina sotto l'ascella. Tanto a quella distanza era praticamente inutile. Sarebbe stato interessante vedere come Spinella e Tubero se la cavavano in uno scontro a fuoco. Adesso la vita di Artemis era nelle loro mani. Per non parlare della sua.
Lanciò loro un'occhiata. Spinella e il comandante stavano premendo il grilletto di diversi aggeggi, ma senza risultato: la loro artiglieria era più morta d'un topo in una tana di serpenti.
«Non capisco» bofonchiò Tubero. «Le avevo controllate personalmente.»
Naturalmente fu Artemis ad arrivarci per primo.
«Sabotaggio» affermò. Si tolse la neve dai capelli e gettò lontano l'inutile pistola fatata. «È l'unica risposta. Ecco perché ai Mazza Sette servivano i Nasomolle: perché, chissà come, hanno disattivato i laser della LEP.»
Ma il comandante non lo ascoltava, e nemmeno Leale. Non era tempo di brillanti deduzioni; era tempo di agire. Là fuori erano bersagli perfetti, scuri contro il pallido paesaggio artico, come risultò evidente quando diversi raggi laser affondarono sibilando nella neve accanto ai loro piedi.
Spinella attivò il visore dell'elmetto e zummò sul nemico.
«Sembra che almeno uno di loro abbia un Nasomolle, signore. Qualcosa a canna lunga.»
«Al riparo, presto!»
«Guardate» disse Leale. «Una sporgenza. Laggiù.»
Acciuffò il suo protetto per la collottola e lo sollevò di peso, e tutti e quattro si slanciarono al riparo. Forse un milione di anni prima, il ghiaccio si era sciolto quanto bastava per contrarsi e poi ricongelarsi: adesso, quel corrugamento poteva salvare loro la vita.
Si tuffarono sotto la sporgenza e si addossarono alla parete gelata. Quel tetto di ghiaccio era abbastanza robusto da sopportare il fuoco di ogni arma convenzionale.
Facendo scudo ad Artemis col proprio corpo, Leale si affacciò cauto per dare un'occhiata verso l'alto.
«Sono troppo lontani. Non li distinguo. Spinella?»
Il capitano Tappo allungò il collo e mise in azione la telecamera dell'elmetto.
«Allora, che fanno?»
Spinella aspettò che le figure fossero a fuoco.
«Strano» commentò. «Stanno sparando, ma...»
«Ma cosa?»
Il capitano Tappo batté le nocche sull'elmetto per accertarsi che le lenti funzionassero. «Forse c'è una distorsione, però sembrerebbe che ci stiano mancando di proposito. Di sicuro sparano molto al di sopra di noi.»
Leale sentì il sangue andargli al cervello. «È una trappola!» ruggì, allungando un braccio dietro di sé per afferrare Artemis. «Tutti fuori! Fuori!»
Proprio allora i colpi dei goblin fecero staccare un bel pezzo del ghiacciaio, e cinquanta tonnellate di rocce, ghiaccio e neve precipitarono verso terra.
Non fosse stato per Leale, nessuno di loro sarebbe sopravvissuto. Gli successe qualcosa. Un'inesplicabile ondata di forza, simile a quelle che spingono una fragile madre a sollevare il tronco sotto il quale è intrappolato il figlio. Afferrò con una mano Artemis e con l'altra Spinella e scaraventò entrambi davanti a sé, come sassi su uno stagno. Non molto dignitoso, ma sempre meglio che ritrovarsi polverizzati da tonnellate di ghiaccio.
Per la seconda volta in pochi minuti, Artemis atterrò a capofitto in un cumulo di neve. Dietro di lui, gli stivali di Leale e Tubero, ancora sotto la sporgenza, scivolavano affannati sulla superficie gelata. Il rombo della valanga fece tremare l'aria, il ghiaccio sotto di loro si spaccò e l'unica via d'uscita fu bloccata da sbarre di pietra e ghiaccio. Erano in trappola.
Spinella era già in piedi e stava correndo verso il comandante. Ma che poteva fare? Raggiungerlo là sotto?
«Indietro, capitano» ringhiò la voce di Tubero nell'elmetto. «È un ordine!»
«Comandante» balbettò Spinella. «Sei vivo.»
«Più o meno. Leale è svenuto, siamo bloccati e il tetto sta per crollare. La sola cosa che lo regge sono i detriti. Se cerchiamo di spostarli per uscire...»
Almeno erano vivi. In trappola, ma vivi. Un piano, ci voleva un piano.
Una strana calma discese su Spinella. Era una delle qualità che la rendevano un ottimo agente. Nei momenti cruciali aveva la rara abilità d'individuare la linea d'azione da seguire. Spesso l'unica linea d'azione possibile. Nel combattimento simulato sostenuto per l'esame da capitano aveva annientato imbattibili nemici virtuali facendo esplodere il proiettore. E, dato che tecnicamente aveva vinto, avevano dovuto promuoverla.
«Comandante» disse ora «agganciati alla Cintoluna di Leale. Vi tiro fuori da lì tutt'e due.»
«Ricevuto. Ti serve una pitoncorda?»
«Se può farmela arrivare.»
«Pronto.»
Un dardo attraversò le sbarre di ghiaccio e atterrò a un metro dai suoi stivali, seguito da una lunga fune sottile.
Spinella si fissò la pitoncorda alla cintura e si assicurò che non fosse attorcigliata. Nel frattempo Artemis era riemerso dal cumulo.
«È assurdo» obiettò, scuotendosi la neve dalle maniche. «Non puoi trascinarli fuori da lì abbastanza in fretta da sfuggire al crollo del ghiacciaio.»
«Non sarò io a trascinarli» lo informò Spinella.
«E chi allora?»
Per tutta risposta, il capitano Tappo accennò ai binari. Un treno verde avanzava verso di loro. «Quello.»
Erano rimasti solo tre goblin. Si chiamavano D'Null, Aimone e Nilo. Tre reclute in concorrenza per la carica di tenente. Il tenente Puzzen aveva dato le dimissioni quando si era avvicinato troppo alla valanga e una lastra di cinquecento chili di ghiaccio trasparente lo aveva spiaccicato.
Si librarono a qualche centinaio di metri d'altezza: ancora a tiro, se le armi dei loro nemici avessero funzionato. Ma al momento l'artiglieria della LEP era fuori uso, grazie alle piccole modifiche dei LabKob.
«C'è un bel buco nel tenente Puzzen» fischiò Aimone. «Fa acqua da tutte le parti. E non nel senso che diceva balle.»
In genere i goblin non nutrono grande affetto reciproco. E considerando la quantità di pugnalate e morsi alle spalle, nonché lo spirito vendicativo che circolava fra i Mazza Sette, non conveniva farsi amici del cuore.
«Che ne dici?» s'informò D'Null, il più bello dei tre. Relativamente parlando. «Forse uno di voi dovrebbe scendere a dargli un'occhiata.»
Aimone sbuffò. «Come no. Noi scendiamo e il bestione ci stecchisce. Ci prendi per scemi?»
«Il bestione è fuori uso. L'ho centrato io. Un colpo facile.»
«Sono stato io a provocare la valanga» protestò Nilo, il piccolo della banda. «Vi prendete sempre il merito delle mie vittime.»
«Che vittime? La tua unica vittima è stato un puzzoverme. E fu un incidente.»
«Fesserie» s'imbronciò Nilo. «Volevo farlo fuori, quello. Mi stava scocciando.»
Aimone s'interpose fra i due. «D'accordo. Datevi una lisciata alle squame, tutt'e due. Ci basterà sparare qualche colpo sui sopravvissuti da quassù.»
«Bel piano, genio» sogghignò D'Null. «Peccato che non funzionerà.»
«Perché no?»
D'Null puntò verso il basso un'unghia ben curata. «Perché stanno salendo su quel treno.»
Quattro vagoni verdi avanzavano da nord, trascinati da un'antiquata locomotiva diesel, lasciandosi dietro una scia di neve turbinante.
La salvezza, pensò Spinella. O forse no. Chissà perché, la vista di quel treno le metteva in subbuglio i succhi gastrici. Ma non era il caso di fare la schizzinosa.
«È il treno delle Mayak» disse Artemis.
Spinella si voltò a guardarlo. Il ragazzo sembrava perfino più pallido del solito. «Il cosa?»
«Gli ambientalisti di tutto il mondo lo chiamano il Treno Verde... in senso ironico. Trasporta scorie di uranio e plutonio alle Industrie Chimiche Mayak perché le riciclino. Il macchinista è asserragliato dentro la locomotiva. Niente guardie. A pieno carico, è più bollente di un sottomarino nucleare.»
«E tu come lo sai?»
Artemis alzò le spalle. «Mi piace tenermi aggiornato. Dopotutto le radiazioni sono un problema mondiale.»
Non aveva ancora finito di parlare, che già Spinella poteva sentire viticci radioattivi sfiorarle le guance, filtrando attraverso il gel. Quel treno era veleno allo stato puro. Ma era anche la sua unica possibilità di salvare il comandante.
«Di bene in meglio» borbottò.
Il treno era più vicino. Ovviamente. Faceva più o meno dieci chilometri l'ora. Nessun problema se fosse stata sola, ma con due uomini fuori combattimento e un Fangosetto pressoché inutile, saltare a bordo sarebbe stata un'impresa.
Si concesse un istante per controllare i goblin. Continuavano a librarsi a qualche centinaio metri. I goblin non sono bravi a improvvisare e quel treno era un elemento inatteso; ci avrebbero messo minimo un minuto per farsi venire in mente un nuovo piano. E forse la fine del loro compagno li avrebbe invogliati a prendersela ancora più comoda.
Sentiva le radiazioni provenienti dai vagoni pizzicarle le pupille e la pelle, infiltrandosi in ogni varco del gel. Era solo questione di tempo prima che la sua magia si esaurisse, e a quel punto non avrebbe avuto scampo.
Ma non aveva tempo per pensarci. La sua priorità era il comandante. Doveva salvarlo. Se i Mazza Sette si erano fatti così audaci da attaccare la LEP, di sicuro sottoterra stava succedendo qualcosa di grosso. E di qualunque cosa si trattasse, ci sarebbe stato bisogno di Julius Tubero per guidare il contrattacco. Tornò a voltarsi verso Artemis.
«Bene, Fangosetto. Abbiamo una sola possibilità. Attaccati a quello che puoi.» Non le sfuggì il brivido del ragazzo. «Non aver paura. Puoi farcela.»
Artemis drizzò il pelo. «Fa freddo, fatina. Gli umani rabbrividiscono, al freddo.»
«Questo è lo spirito giusto» sogghignò Spinella, e cominciò a correre. La pitoncorda le si srotolò dietro come il cavo di un arpione: anche se aveva più o meno lo spessore di una lenza, avrebbe potuto reggere senza problemi due elefanti scalmanati. Artemis la seguì, muovendo i mocassini più in fretta che poteva.
Corsero di lato ai binari, la neve gelata scricchiolante sotto i piedi, mentre il treno si avvicinava sospingendo un cuscino d'aria davanti a sé.
Artemis si sforzò di non cedere. Non era roba per lui, quella. Correre e sudare. Combattere, addirittura. Lui non era un soldato. Era un ideatore, una mente superiore. Meglio lasciare i lavori pesanti a Leale e a quelli come lui. Ma stavolta Leale non era lì per occuparsi dei lavori pesanti. E non ci sarebbe più stato, se non fossero riusciti a salire su quel treno.
Aveva il fiato mozzo e il respiro gli si cristallizzava davanti alla faccia, offuscandogli la vista. Il treno li aveva affiancati, le ruote di acciaio sprizzanti ghiaccio e scintille.
«Seconda carrozza» ansimò Spinella. «La guida di scorrimento del portello. Non perdere l'equilibrio.»
Guida di scorrimento? Artemis si guardò alle spalle. Il secondo vagone si avvicinava rapido. Ma il fragore gli annebbiava la vista. Era spaventoso, insopportabile. Là, sotto il portello d'acciaio. Un bordo stretto. Ma comunque abbastanza largo da starci ritti. A stento.
Spinella vi atterrò sopra agilmente e si appiattì contro la parete del vagone. A vedere lei, sembrava una bazzecola. Un piccolo salto e sarebbe stato al sicuro da quelle ruote polverizzanti.
«Muoviti, Fowl!» la sentì gridare. «Salta!»
Artemis ci provò, davvero. Ma la punta di un mocassino s'incastrò in una traversina e lo spedì a barcollare in avanti, le braccia mulinanti. Verso una morte atroce.
«Due piedi sinistri» bofonchiò Spinella, acchiappando il suo Fangosetto meno preferito per il colletto e tirandolo su. La velocità acquisita lo sbatté contro il portello come un personaggio dei cartoni animati.
La pitoncorda svolazzava di fianco al vagone. Ancora pochi secondi e Spinella avrebbe lasciato il treno più velocemente di come c'era salita. Cercò affannosamente un appiglio robusto perché, anche se la Cintoluna riduceva il peso congiunto di Tubero e Leale, quando fosse arrivato lo strattone sarebbe stato più che sufficiente a farla cadere. E se fosse successo, era la fine per tutti loro.
Passò un braccio intorno a un piolo della scaletta sul fianco del vagone e vide scintille di magia danzare sopra uno strappo della tuta, combattendo il danno inflitto delle radiazioni. Quanto avrebbe resistito in quelle condizioni? Doveva eseguire il Rituale per ricaricarsi di potere. E prima lo faceva, meglio era.
Stava per agganciare il cavo alla scaletta, quando quest'ultimo si tese di botto, facendola quasi volare via. Si aggrappò al piolo, conficcandosi le unghie nella pelle. Forse il piano necessitava di qualche piccola modifica. Il tempo sembrò allungarsi, elastico come la pitoncorda, e per un momento Spinella ebbe paura che il gomito le si spaccasse. E poi le sbarre di roccia e ghiaccio cedettero, e i due prigionieri lasciarono la loro cella glaciale alla velocità di una freccia scoccata dall'arco.
Pochi istanti dopo finivano contro la fiancata del treno, librandosi a mezz'aria grazie al peso ridotto... per ora. Ma era solo questione di tempo prima che finissero sotto le ruote.
Artemis si aggrappò al piolo accanto a lei. «Che posso fare?»
Spinella accennò col mento a un taschino sulla spalla. «Qui. Una fialetta. Tirala fuori.»
«Fatto.»
«Bene. Adesso sta a te, Fowl. Su e sopra.»
Artemis la fissò a bocca aperta. «Su e...?»
«È la nostra unica speranza. Dobbiamo aprire il portello e tirarli dentro. Fra due chilometri c'è una curva. Se il treno rallenta anche solo d'una frazione, sono spacciati.»
Artemis annuì. «La fiala?»
«Acido. Per la serratura. È all'interno. Copriti la faccia e strizza la fiala. Fino in fondo. E non farti arrivare l'acido addosso.»
Era un lungo discorso, date le circostanze. Specialmente perché ogni secondo era vitale. Artemis non ne sprecò un altro nei saluti.
Tenendosi appiccicato al vagone, s'inerpicò sul piolo successivo. Raffiche di vento cariche di particelle di ghiaccio pungenti come api frustavano la fiancata del treno, ma ciò nonostante si sfilò i guanti con i denti che battevano. Meglio qualche dito congelato che finire sotto le ruote.
Su, un piolo per volta, fino al tetto del vagone. Adesso non aveva più il minimo riparo. Il vento gli frustava la fronte e gli s'infilava in gola. A occhi socchiusi scrutò il tetto di acciaio - reso liscio come vetro dalla furia degli elementi - che gli si stendeva davanti. Là! Al centro. Un lucernario. E non un appiglio nel giro di cinque metri. La forza di un rinoceronte non sarebbe servita. Almeno aveva l'occasione di usare il cervello. Cinetica più velocità acquisita. Semplice, in teoria.
Mentre strisciava di lato, il vento gli s'infilò sotto le gambe e le sollevò di cinque centimetri buoni, cercando di strapparlo via.
Strinse le dita attorno al bordo del tetto, ma quelle non erano dita fatte per mantenere la presa. Da mesi non stringevano niente di più grande di un cellulare. Se serviva qualcuno capace di dattilografare il Paradiso Perduto in meno di venti minuti, Artemis era l'ideale. Ma quanto ad aggrapparsi al bordo del tetto di un vagone durante una bufera, era una frana. Il che, fortunatamente, faceva parte del piano.
Un millisecondo prima che gli si slogassero le nocche, mollò la presa. E la corrente lo sparò dritto contro l'incastellatura metallica del lucernario.
"Perfetto" avrebbe borbottato se gli fosse rimasto un centimetro cubo d'aria nei polmoni. Del resto, anche se l'avesse fatto, il vento avrebbe trascinato via le sue parole prima che lui stesso riuscisse a udirle. Aveva pochi secondi prima che il vento lo riagguantasse per scaraventarlo sulla steppa ghiacciata. Un antipasto per i goblin.
In qualche modo si tolse di tasca la fialetta e la stappò coi denti. Una gocciolina di acido gli sfiorò un occhio, ma non aveva il tempo di preoccuparsene. Non aveva tempo per niente.
Versò due gocce nel robusto lucchetto che chiudeva il lucernario. Non poteva sprecarne di più. Dovevano bastare.
Bastarono. L'acido divorò il metallo come la lava il ghiaccio. Tecnologia fatata. La migliore sotto la faccia della Terra.
Il lucchetto scattò, una raffica di vento aprì il portello, e Artemis piombò lungo disteso su una pila di barili. Non proprio il ritratto di un eroico salvatore.
Gli scossoni del treno lo fecero ruzzolare giù dai barili. Atterrò di schiena, gli occhi fissi sul triplo triangolo stampato sul lato di ogni contenitore a indicare che contenevano materiale radioattivo. Almeno erano sigillati, anche se parecchi sembravano tenuti insieme dalla ruggine.
Rotolò sul pavimento e si trascinò in ginocchio fino al portello. Il capitano Tappo era ancora là fuori, o era rimasto solo? Per la prima volta in vita sua. Veramente solo.
«Fowl! Apri la porta, piccolo subdolo Fangosetto pallido!»
Oh. Bene. Non era solo.
Proteggendosi la faccia col braccio, annaffiò di acido fatato la serratura d'acciaio: si fuse all'istante, gocciolando sul pavimento come mercurio. Tirò indietro il portello.
Spinella era sempre aggrappata al piolo.
La afferrò per la cintura. «Al tre?»
Il capitano annuì. Non aveva più la forza di parlare.
Artemis fletté le dita. Dita, pensò, non fregatemi ora. Se mai ne fosse uscito vivo, avrebbe comprato uno di quei ridicoli attrezzi ginnici tanto pubblicizzati nelle televendite.
«Uno.»
La curva si avvicinava. La vedeva con la coda dell'occhio. Il treno doveva rallentare, o avrebbe deragliato.
«Due.»
Spinella era allo stremo. Le raffiche la sbatacchiavano come una manica a vento.
«Tre!»
E tirò con tutta la forza delle sue braccia sottili. Spinella chiuse gli occhi e mollò la presa, incapace di credere che stava affidando la sua vita proprio a quel Fangosetto.
Artemis se ne intendeva, di fisica. Aveva calcolato il momento giusto per sfruttare al meglio oscillazione, velocità acquisita e spinta del treno. Ma la natura si diverte sempre a infilare i bastoni fra le ruote. In questo caso, il bastone fu un piccolo varco fra due sezioni del binario. Non tanto grande da far deragliare il treno, ma abbastanza da farlo sussultare.
Il sussulto fece scivolare il portello del vagone sulla guida come una ghigliottina da cinque tonnellate. Però sembrava che Spinella ce l'avesse fatta. Artemis non poteva esserne certo perché gli era finita addosso, spedendo entrambi a schiantarsi contro la parete di legno. Aveva ancora la testa sul collo, il che era un fatto positivo, però sembrava svenuta; Il trauma, probabilmente.
Anche Artemis sapeva di stare per svenire. Se ne rese conto dall'oscurità che si addensava ai margini della sua visione come un maligno virus elettronico. Scivolò lungo la parete e atterrò sul petto di Spinella.
Il che ebbe conseguenze più gravi di quanto si possa credere. Perché, con Spinella svenuta, la sua magia aveva inserito il pilota automatico. E la magia priva di controllo fluisce come l'elettricità. La faccia di Artemis entrò in contatto con la mano sinistra dell'elfo, deviando un rivolo di scintille azzurrine. Bene per lui, ma decisamente male per lei. Perché, anche se Artemis non lo sapeva, Spinella aveva bisogno di ogni scintilla di magia disponibile... perché non tutto il suo corpo era salito sul treno.
Il comandante Tubero aveva appena attivato il verricello della pitoncorda quando ricevette un'inattesa ditata in un occhio.
D'Null tirò fuori dalla divisa uno specchietto rettangolare e controllò che le sue squame fossero belle lisce.
«Sono una forza, queste ali. Pensate che ce le lasceranno tenere?»
Aimone si accigliò. Non che si notasse. Data l'origine lucertolosa dei goblin, la loro gamma di espressioni era molto limitata. «Sta' zitto, idiota a sangue caldo!»
A sangue caldo. Un insulto serio, per un Mazza Sette.
D'Null mostrò i denti. «Attento, amico, o ti strappo quella lingua biforcuta.»
«Nessuno di noi avrà più una lingua, se quegli elfi ci scappano!» replicò Aimone.
Vero. I generali non prendevano bene le delusioni.
«Allora che facciamo? Io sono il bello della squadra. Perciò tu dovresti essere il cervello.»
«Spariamo al treno» interloquì Nilo. «Semplice.»
D'Null regolò le Koboi DoppiAgile e raggiunse il compagno più giovane. «Idiota» ringhiò, mollandogli una botta sulla testa. «Non lo annusi, che quell'affare è radioattivo? Un colpo sbagliato e diventiamo tutti cenere nel vento.»
«Hai ragione» ammise Nilo. «Sei meno scemo di quanto sembri.»
«Grazie.»
«Prego.»
Aimone rallentò, portandosi a centocinquanta metri. Era una tentazione. Un raggio a banda stretta per eliminare l'elfo aggrappato al vagone e un altro per l'umano sul tetto. Ma non poteva correre un simile rischio. Un centimetro fuori bersaglio e poteva dire addio agli spaghetti con puzzovermi.
«Ascoltate» annunciò nel comunicatore. «Ecco il piano. Con tutte le radiazioni che ci sono là dentro, i nostri bersagli moriranno nel giro di pochi minuti. Seguiamo il treno per un po', tanto per sicurezza, poi torniamo a casa e diciamo al generale che abbiamo visto i corpi.»
D'Null lo affiancò ronzando. «E li abbiamo visti?»
Aimone sbuffò. «Certo che no, idiota! Vuoi che ti caschino gli occhi?»
«No.»
«Esatto. Allora è chiaro?»
«Cristallino» disse Nilo, estraendo il Nasomolle e sparandogli alle spalle. A lui e a D'Null. A distanza ravvicinata. Impossibile sbagliare. Seguì con lo sguardo i loro corpi finché atterrarono. La neve li avrebbe coperti nel giro di pochi minuti. Nessuno sarebbe inciampato in quei particolari cadaveri finché le calotte polari non si fossero sciolte.
Rinfoderò il Nasomolle e digitò le coordinate del navettiporto sul computer di volo. A guardar bene la sua faccia da rettile era possibile indovinare l'accenno d'un sorriso. Cera un nuovo tenente in città.