CAPITOLO 15
FOLLIE DA FOWL
Al momento la famiglia Fowl possedeva tre velivoli. Un Learjet e un elicottero Sikorsky nell’hangar del vicino aeroporto; e un piccolo Cessna, parcheggiato in un garage accanto al pascolo, sul confine settentrionale della tenuta. Il Cessna aveva diversi anni e sarebbe stato già riciclato da un pezzo se Artemis non avesse deciso di utilizzarlo per un suo progetto. Il suo scopo - approvato dal padre - era ottenere un velivolo a emissioni-zero ed efficiente. – Ho quaranta scienziati che lavorano allo stesso problema, ma scommetto che riuscirai a risolverlo prima di loro – aveva confidato Artemis Senior al figlio.
Il ragazzo aveva rivestito il telaio dell’aereo con pannelli solari leggeri e superefficienti, simili a quelli usati dalla NASA per il satellite Helios. A differenza dell’Helios, però, il Cessna poteva volare a velocità normale e anche trasportare passeggeri. Questo perché Artemis aveva sostituito il motore singolo con vari motori più piccoli che azionavano l’elica principale, oltre ad aver aggiunto altre quattro eliche sulle ali e il carrello di atterraggio. La maggior parte del metallo era stato eliminato e sostituito da polimero ultraleggero; e al posto del serbatoio del carburante si trovava ora una piccola batteria.
C’era ancora qualche altra modifica da effettuare, ma Artemis era convinto che l’aereo fosse in grado di volare. O almeno lo sperava. Parecchie cose dipendevano dalla robustezza del piccolo velivolo. Uscì dalla porta sul retro e attraversò a precipizio il cortile, dirigendosi verso il pascolo settentrionale. Con un pizzico di fortuna Opal si sarebbe accorta della sua fuga solo quando l’aereo fosse decollato. Esattamente quando lui voleva che se ne accorgesse. Nella speranza di riuscire a distrarla finché non fossero arrivati i rinforzi della LEP
Si sentì le gambe pesanti prima ancora di avere percorso cento metri. Non era mai stato un tipo atletico, e le ultime passeggiate nel tunnel temporale non avevano contribuito a tenerlo in forma, anche se durante i viaggi si era concentrato sui propri muscoli nel tentativo di irrobustirli. Un piccolo esperimento mente-contro-materia, che purtroppo non aveva riscosso il minimo risultato.
Il cancello del pascolo era chiuso, e invece che perdere tempo a trafficare attorno alla serratura, Artemis preferì scavalcarlo. Sentiva il calore del piccolo corpo della scimmia all’interno della giacca e le zampette strette attorno al suo collo.
Devo salvare Geigei, pensò. Devo salvarlo.
La porta del garage era più robusta di quanto sembrasse, e protetta da una serratura a combinazione. Quando Artemis digitò il codice e spalancò i battenti, i raggi arancione cupo del sole al tramonto si riversarono nel locale. Dentro, circondato da banconi e carrelli carichi di attrezzi disposti a ferro di cavallo, c’era il Cessna modificato, collegato a un robusto cavo elettrico. Artemis sfilò il cavo dalla presa sulla fusoliera, si issò nella carlinga e prese posto ai comandi, ricordando brevemente la prima volta che aveva pilotato da solo quell’aereo.
Avevo nove anni. Per raggiungere i comandi fui costretto a mettere un cuscino sul sedile.
Il motore partì silenzioso al primo colpo. Gli unici rumori udibili erano il frullio delle eliche e lo scatto degli interruttori, mentre Artemis eseguiva un rapido controllo prima di decollare.
Tutto sommato andava abbastanza bene, llottanta per cento di potenza, il che gli avrebbe consentito di allontanarsi di qualche centinaio di chilometri. Quanto bastava per trascinare Opal in un balletto sulla costa irlandese. Però i flap erano vischiosi e le guarnizioni vecchiotte.
“Non portarlo oltre i tremila metri.”
– Ce la caveremo – disse al passeggero dentro la sua giacca. – Andrà tutto a meraviglia.
Ma era la verità? Non poteva esserne sicuro.
Il pascolo settentrionale era largo e lungo, e calava in un pendio gentile verso il muro di cinta della proprietà. Artemis portò fuori il Cessna dall’hangar e gli fece eseguire una stretta curva, in modo da avere più spazio possibile davanti. In circostanze ideali la pista erbosa di cinquecento metri sarebbe stata più che sufficiente a decollare, però adesso c’era vento di coda e l’erba era di pochi centimetri più alta del dovuto.
Nonostante tutto, dovremmo farcela. Ho volato in condizioni peggiori.
Fu un decollo da manuale. Il Cessna si staccò da terra al segnale dei trecento metri e sorvolò senza problemi il muro di cinta. Anche a quell’altitudine limitata era possibile scorgere il Mare d’Irlanda a ovest, la cresta delle onde solcata da scimitarre di sole.
Per una frazione di secondo Artemis fu tentato di limitarsi a fuggire, ma non lo fece.
Sono così cambiato?, si chiese. A quanto pareva, stava esaurendo i crimini piacevoli. Fino a non molto tempo prima, invece, ne aveva ritenuto accettabile praticamente ogni tipo.
Ma no, decise. C’erano ancora individui che meritavano di essere derubati, o smascherati, o abbandonati nella giungla più fitta armati soltanto di un paio di infradito e di un cucchiaio. Semplicemente, si sarebbe dovuto impegnare di più a trovarli.
Attivò le telecamere sulle ali. Uno di quegli individui si trovava sul viale sotto di lui. Una folletta megalomane dal cuore di ghiaccio. Opal Koboi, che al momento si dirigeva a passo di marcia verso Casa Fowl, calandosi l’elmetto di Spinella sulle orecchie.
Come temevo. Ha preso l’elmetto. Uno strumento estremamente utile.
Ma non aveva comunque scelta: doveva attirare la sua attenzione. Era in gioco la vita della sua famiglia e dei suoi amici. Così, fece abbassare il Cessna fino a raggiungere una quota di una trentina di metri e planò su Opal. Anche se la folletta non avesse sentito il motore, i sensori dell’elmetto avrebbero fatto accendere una dozzina di luci rosse.
Come previsto, Opal si fermò e alzò di scatto lo sguardo.
Da brava, Opal, pensò Artemis. Abbocca. Aziona la scansione termica.
Opal avanzò decisa verso la casa finché la punta di uno stivale della LEP non le finì sotto il tacco dell’altro.
Stupida elfa alta, pensò furibonda, riprendendo l’equilibrio. Quando sarò regina, no, quando sarò imperatrice, costringerò tutti quelli più alti di me ad accorciarsi le gambe. Meglio ancora: mi farò impiantare una ghiandola pituitaria umana, così diventerò più alta di tutti. Un gigante del Popolo, fisicamente e mentalmente.
Ma i suoi progetti non si fermavano lì. Avrebbe prodotto anche una maschera cosmetica che nel giro di pochi secondi avrebbe reso simili a lei tutti i suoi adoratori. E una libra-sedia omeopatica coperta di rulli massaggianti e sensori di umore in grado di avvertire le sue sensazioni e spruzzare gli aromi più adatti a rallegrarla.
Tutto questo poteva aspettare, però. Per ora doveva occuparsi del lemure. Senza il fluido cerebrale di quella creatura, avrebbe impiegato anni per portare a termine i suoi piani. Senza contare che la magia era tanto più semplice della scienza!
S’infilò l’elmetto di Spinella, e i cuscinetti al suo interno si gonfiarono automaticamente per avvolgerle il cranio.
Dopodiché, con una serie di ammicchi e gesti rapidi superò senza difficoltà i vari sistemi di sicurezza: quegli elmetti della LEP erano infinitamente meno avanzati dei modelli prodotti dal reparto R&S della sua fabbrica.
Aveva appena attivato le funzioni dell’elmetto, quando i cristalli dello schermo sulla visiera sfrigolarono e diventarono scarlatti. Allarme rosso! C’era qualcosa in avvicinamento. Un rapido controllo radar 3D segnalò la presenza di un piccolo velivolo sopra di lei, e il software di riconoscimento la informò che si trattava di un Cessna di produzione umana.
Azionò rapidamente la sequenza di comandi che attivava scansione termica e infrarossi per analizzare la radiazione elettromagnetica proveniente dall’interno del velivolo. Nonostante l’interferenza dei pannelli solari, non le fu difficile isolare la chiazza arancione del pilota. Un solo passeggero. Il lettore biometrico dell’elmetto lo identificò come Artemis Fowl, e calò una icona 3D sulla sua sagoma sfocata.
– Un solo passeggero – mormorò Opal. – Cerchi di farmi allontanare dalla casa, Artemis? Per questo voli così basso?
Ma Artemis Fowl, che conosceva la tecnologia del Popolo, avrebbe anticipato la scansione termica.
– Che asso hai nascosto nella manica? – si chiese la folletta. – O forse nella giacca…
Ingrandì il cuore di Artemis e vi scoprì sovrimpressa una seconda fonte di calore, distinguibile solo per una sfumatura appena più chiara di rosso.
Perfino in quei momenti frenetici Opal non potè fare a meno di ammirare il giovane umano per il suo tentativo di nascondere la presenza del lemure con la propria emissione di calore. – Scaltro. Ma non geniale.
E per sconfiggere Opal Koboi ci sarebbe voluto un genio. Era stato furbo a portarsi dietro il secondo Artemis, però lei se lo sarebbe dovuto aspettare.
È stata proprio la mia arroganza a sconfiggermi, si rese conto. Ma non succederà di nuovo.
L’elmetto si sintonizzò automaticamente sulla frequenza radio del Cessna, permettendole di inviare un messaggio ad Artemis.
– Ora vengo a prendere il lemure, ragazzino – disse, mettendo in funzione le ali della tuta con una vampa di magia. – E stavolta non ci sarà un altro te a salvarti.
Artemis non poteva sentire o vedere le diverse onde che sondavano il Cessna, ma immaginò che Opal sarebbe ricorsa alla scansione termica per controllare quanti passeggeri ci fossero sull’aereo. Forse avrebbe usato anche i raggi X. Non avrebbe dovuto metterci molto a smascherare il suo tentativo di nascondere la presenza di Geigei con il proprio calore corporeo. E quando avesse capito che la sua preda le stava sfuggendo, come avrebbe potuto non inseguirla?
Artemis virò a destra, in modo che la telecamera dell’aereo continuasse a inquadrare la folletta, e vide soddisfatto un paio di ali uscire dalle scanalature sul dorso della tuta di Spinella.
La caccia è cominciata.
Era tempo che la preda fingesse di tentare la fuga.
Il Cessna sorvolò a tutta velocità la tenuta e puntò verso il mare viola cupo. Artemis lo portò alla velocità massima, ascoltando soddisfatto il rumore regolare del motore, cui le batterie fornivano energia continua senza rilasciare nell’atmosfera un solo grammo di anidride carbonica.
Controllò la visuale della telecamera di coda e non lo stupì scorgere la folletta volante sullo schermo.
Il suo controllo sulla magia è ancora rallentato dal sedativo, pensò. Dev’essere a malapena riuscita a mettere in funzione la tuta. Però gli effetti collaterali del dardo non ci impiegheranno molto a svanire, e allora potrei ritrovarmi colpito da lampi e fulmini.
Artemis virò verso sud, seguendo la costa frastagliata. In breve il chiasso e la confusione di Dublino, con i suoi palazzi e le ciminiere e gli sciami di elicotteri ronzanti, cedette il posto a lunghe strisce di roccia grigia fiancheggiata dai binari della ferrovia che tagliava l’isola da nord a sud. Il mare premeva contro la costa, curvandosi in milioni di dita su sabbia, sterpaglia e sassi.
Barche da pesca andavano sbuffando da un gavitello all’altro, lasciandosi dietro scie bianche simili a serpenti di mare, mentre i pescatori tiravano su le gabbie per aragoste con ramponi dal lungo manico. Pesanti nuvole panciute erano sospese a quattromila metri, gonfie di pioggia.
Una serata tranquilla, se nessuno alza lo sguardo.
Anche se, vista dal basso, la sfocata sagoma volante di Opal poteva essere scambiata per un’aquila.
Il piano filò liscio più a lungo di quanto Artemis avesse sperato. Il Cessna continuò a volare per un centinaio di chilometri senza interferenze da parte di Opal. Il ragazzo si concesse un barlume di speranza.
Fra poco, pensò. I rinforzi della LEP arriveranno fra poco.
Di colpo la radio tornò in vita crepitando. – Artemis? Ci sei, Artemis?
Leale. Sembrava calmissimo, come sempre prima di spiegare quanto fosse disperata una situazione.
– Ci sono, amico mio. Dammi buone notizie.
Il sospiro della guardia del corpo provocò un crepitio di statica. – Hanno deciso di non seguire il Cessna. Non sei una priorità.
– Invece Numero Uno lo è – disse Artemis. – Devono portarlo subito al sicuro. Capisco.
– Sì. Lui e…
– Non aggiungere altro, amico mio – lo interruppe Artemis. – Opal è in ascolto.
– La LEP è qui, Artemis. Devi tornare subito indietro.
– No. Non metterò di nuovo in pericolo mia madre.
Uno strano suono cigolante lo informò che, probabilmente, Leale stava cercando di stritolare il microfono. – Va bene. Un altro posto, allora. Un posto dove possiamo raggiungerti.
– D’accordo. Sono diretto verso sud, perciò potreste…
Un’esplosione di scariche elettriche interruppe la trasmissione, impedendogli di completare il velato suggerimento e riempiendogli le orecchie di un ronzio assordante, che per un momento gli fece perdere il controllo del Cessna.
Era appena riuscito a riprendere il controllo del velivolo quando un colpo tonante sulla fusoliera glielo fece perdere di nuovo.
Diverse luci rosse lampeggiarono sul cruscotto: a quanto pareva, erano stati appena distrutti una decina di pannelli solari.
Artemis lanciò un’occhiata alla telecamera posteriore. Opal non era più dietro l’aereo. Non che questa fosse una sorpresa.
La voce della folletta esplose dagli altoparlanti, acuta, petulante e malvagia. – Ho riacquistato le forze, Fangosetto. Ho espulso il tuo veleno. Il mio potere è aumentato, e ne voglio ancora di più.
Artemis non si prese il disturbo di risponderle. Aveva bisogno di tutta la sua abilità e prontezza di riflessi per pilotare il Cessna.
Opal colpì di nuovo l’ala sinistra, prendendo a pugni i pannelli solari, spaccandoli come un bambino deciso a spezzare lo strato di ghiaccio che copre una pozzanghera, agitando le braccia, le ali che ronzavano a tutta velocità. L’aereo s’impennò e s’imbardò, e Artemis dovette mettercela tutta per non farlo precipitare.
È pazza, pensò. Completamente pazza.
Quei pannelli sono unici. E poi si definisce una scienziata.
Opal percorse l’ala e infilò un pugno corazzato dritto nella fusoliera. Altri pannelli furono distrutti, e ammaccature delle dimensioni di piccoli pugni intaccarono il polimero poco sopra le spalle di Artemis. E dalle ammaccature si allargò una ragnatela di crepe sottilissime.
La voce di Opal rimbombò nell’altoparlante. – Atterra, Fowl. Atterra, e forse, dopo averti liquidato, non tornerò a casa tua. Atterra! Atterra!
Ogni «Atterra!» era sottolineato da un colpo sulla carlinga. Il parabrezza esplose verso l’interno, annaffiando Artemis di schegge di plexiglass.
– Atterra! Atterra!
Hai quello che lei vuole, pensò Artemis. Perciò hai il potere. Opal non può permettersi di uccidere Geigei.
Il vento gli urlava sul viso, e i valori indicati dagli strumenti di volo non avevano senso… a meno che Opal non li stesse manipolando con il campo della tuta della LEP. Però Artemis aveva ancora una possibilità. Questo Fowl non era ancora pronto ad arrendersi.
Eseguì una brusca virata a sinistra e puntò il muso del Cessna verso terra, ma Opal gli tenne dietro senza difficoltà, continuando a strappare strisce dalla fusoliera: un’ombra distruttrice nella luce fioca del crepuscolo.
Artemis sentì l’odore del mare.
Sono sceso troppo. E troppo presto.
Altre luci rosse si accesero sul cruscotto. Il rifornimento di energia era stato interrotto. Le batterie erano spaccate. L’altimetro ronzava e squillava.
Opal comparve al di là del finestrino. Artemis la vide digrignare i dentini e dire qualcosa. Urlare qualcosa. Però la radio aveva smesso di funzionare. Tanto meglio, probabilmente.
Se la sta godendo, si rese conto Artemis. È uno spasso, per lei. Un vero spasso.
Artemis lottò per mantenere il controllo dell’aereo. Al momento, la vischiosità dei flap era l’ultima delle sue preoccupazioni. Se Opal avesse deciso di spezzare qualche altro cavo, non sarebbe più riuscito a controllare l’aereo. Perciò, anche se era decisamente troppo presto, abbassò il carrello. Ora, anche se la folletta avesse sabotato il meccanismo che le azionava, le tre ruote sarebbero rimaste al loro posto.
Insieme precipitarono verso terra. Un passero sul dorso di un’aquila. Opal spezzò a testate il finestrino di plexiglass, continuando a sbraitare dentro l’elmetto e sputacchiando sulla visiera. Lanciando ordini che Artemis non era in grado di udire e che non poteva perdere tempo a leggerle sulle labbra. Però vide che i suoi occhi scintillavano rossi di magia e, a giudicare dalla sua espressione, la folletta aveva spezzato ogni legame che la connettesse alla ragione.
Altre urla, soffocate dalla visiera. Artemis lanciò un’occhiata sarcastica alla radio, buia e silenziosa.
Opal captò il suo sguardo e sollevò la visiera, strillando per sovrastare il fragore del vento, troppo impaziente per azionare il sistema di amplificazione dell’elmetto.
– Consegnami il lemure, e io ti salverò – disse, la voce carica di fascino. – Hai la mia…
Evitando il suo sguardo, Artemis afferrò da sotto il sedile la pistola da segnalazione di emergenza e gliela puntò in faccia.
– Non mi lasci altra scelta che spararti – disse gelido. Non era una minaccia, era un dato di fatto.
Opal sapeva riconoscere la verità, e per un istante la sua risolutezza vacillò. Si ritrasse, ma non così rapidamente da evitare che Artemis le infilasse un razzo nell’elmetto e tirasse giù la visiera.
La folletta roteò lontano dal Cessna, lasciandosi dietro una scia di fumo nero, le scintille scarlatte che le sciamavano attorno, simili a vespe rabbiose. Una delle sue ali urtò un’ala dell’aereo, e nessuna delle due sopravvisse. Frammenti di cellule solari brillarono come polvere di stelle e scesero fluttuando verso terra, insieme alle piume delle ali di Opal. L’aereo s’imbarcò verso destra, mugolando come una bestia ferita.
Devo atterrare. Ora.
Artemis non provava il minimo senso di colpa per quello che aveva fatto. Il razzo non avrebbe danneggiato granché una creatura con i poteri rigenerativi di Opal. Probabilmente la magia stava già guarendo le sue ustioni. Al massimo, aveva guadagnato pochi minuti di tregua.
Al suo ritorno sarà più furiosa che mai. Del tutto fuori di sé. E forse la collera offuscherà i suoi processi mentali.
Artemis si concesse un sorriso cupo, e per un momento si sentì spietato come un tempo, prima che Spinella e sua madre lo convertissero al loro irritante codice morale.
Bene. Una mente offuscata può darmi il vantaggio che mi serve.
Raddrizzò più che poteva l’aereo, rallentandone la discesa. Il vento lo schiaffeggiò. Artemis si riparò alla meglio gli occhi con un braccio e spinse lo sguardo verso il basso attraverso la chiazza sfocata dell’elica.
La penisola di Hook Head si allungava come una freccia grigio-ardesia nel mare scuro. Sull’estremità orientale ammiccava un crocchio di luci: il villaggio di Duncade, dove Leale aveva atteso il suo ritorno dal Limbo. Un’isoletta magica, che aveva un tempo celato la presenza dell’isola demoniaca di Hybras. Un’area così densa di magia da far schizzare sul rosso tutti gli spettrometri della LEP.
La notte calava rapida, rendendo difficile distinguere il terreno solido da quello molle. Artemis sapeva che da Duncade al faro di Hook Head si stendeva un tappeto di campi erbosi, ma riusciva a vederli solo ogni cinque secondi, quando il raggio del faro li accendeva di bagliori smeraldini.
Ecco la mia pista d’atterraggio, pensò.
Cercò la migliore rotta di avvicinamento possibile, calando verso terra in una picchiata torcibudella e lasciandosi dietro una scia di schegge di pannelli solari.
Ancora nessuna traccia di Opal.
Però sta per arrivare. Poco ma sicuro.
Il terreno era sempre più vicino a ogni nuovo bagliore verde.
Troppo in fretta, pensò Artemis. Sto scendendo troppo in fretta. Di questo passo non otterrò mai il brevetto da pilota.
Strinse la mascella e la barra di comando. Sarebbe stato un atterraggio brusco.
E lo fu, anche se non tale da fracassargli le ossa. Non al primo colpo, cioè. Il secondo rimbalzo, però, lo mandò a sbattere contro il quadro comandi e gli spezzò la clavicola sinistra. Un suono orribile, che gli fece salire un fiotto di bile in gola.
Niente dolore, per ora. Solo freddo. Sono sotto shock.
Il carrello del Cessna slittò sull’erba alta, ricoperta di acqua salata e più viscida del ghiaccio. Artemis aggrottò la fronte: non per il dolore, ma perché a quel punto il suo destino era nelle mani del caso. Non aveva il minimo controllo. Poteva solo fare del suo meglio per distrarre Opal quando fosse arrivata a strappargli Geigei.
Il mondo esterno continuava a interferire con estrema violenza nei suoi pensieri. Il montante della ruota frontale del carrello urtò contro un sasso aguzzo che lo tranciò di netto: per vari secondi la ruota continuò a rotolare accanto all’aereo, e poi sparì nel buio.
Un altro tonfo, e il Cessna s’inclinò in avanti, l’elica che arava il terreno sollevando ventagli d’erba falciata e fango.
Non capisco proprio che ci trovi Bombarda, pensò Artemis con la bocca piena di terra. Non ha esattamente il sapore della mousse di aragosta.
Si trascinò fuori dall’aereo e s’incamminò barcollando in direzione della costa rocciosa. Non chiamò aiuto. Del resto, anche se lo avesse fatto, nessuno avrebbe potuto fare qualcosa. Le rocce erano nere, infide e deserte. Il mare rombava e il vento soffiava. Anche se il raggio del faro avesse centrato in pieno l’aereo che precipitava, ci sarebbe voluto un pezzo perché gli abitanti del villaggio arrivassero, ignari e disarmati, a offrirgli una mano. E, a quel punto, sarebbe stato troppo tardi.
Continuò a muoversi, il braccio sinistro inutilizzabile, la mano sana stretta attorno alla testa pelosa che spuntava dalla giacca. – Ci siamo quasi – ansimò.
Due faraglioni s’innalzavano dalle acque, simili agli unici denti superstiti di un masticatore di tabacco. Due pilastri rocciosi alti trenta metri, che avevano resistito all’erosione di vento e onde. Gli abitanti del posto li chiamavano Le Monachelle a causa del loro aspetto. Coperte dalla tonaca dalla testa ai piedi.
Le Monachelle erano un’attrazione turistica, e robusti ponti di corda erano tesi sul doppio baratro che separava la riva dalla Sorellina e questa dalla Madre Superiora. Una volta Leale aveva confidato ad Artemis di avere trascorso molte notti solitarie sul secondo faraglione a scrutare l’oceano con un binocolo a visione notturna, alla ricerca di Hybras.
Artemis s’incamminò sul primo ponte, che fremette e cigolò, ma lo sorresse. Fra le assicelle sotto i suoi piedi vide il mare molto più in basso, rocce piatte che affioravano dall’acqua come funghi dal terreno. Su una delle rocce più lontane distinse il cadavere di un cane sfortunato, un avvertimento brutale di quello che ti poteva capitare se perdevi l’equilibrio.
Mi sto infilando in un vicolo cieco, pensò. Una volta sul secondo faraglione, potrò andare soltanto in basso.
Però non aveva scelta. Una rapida occhiata alle sue spalle lo informò che Opal stava arrivando. Per vederla non ebbe bisogno degli occhiali scuri filtra-schermatura: la folletta non aveva magia da sprecare per rendersi invisibile. Attraversava il campo barcollando come uno zombie, avvolta da un alone rosso di magia, i pugni stretti lungo i fianchi. Le ali erano aperte, ma a brandelli: con quelle non sarebbe andata da nessuna parte. Ormai soltanto il potere di Geigei poteva salvarla. Era la sua ultima speranza. Se non si fosse iniettata quanto prima il fluido cerebrale, la LEP sarebbe sicuramente arrivata a sottrarle il lemure.
Artemis continuò ad avanzare sul ponte, facendo attenzione a non sbattere il braccio dolorante contro la ringhiera. Ogni passo gli spediva una fitta tremenda nella parte superiore del petto.
Devo distrarla ancora per un po’. Fino all’arrivo della cavalleria. Una cavalleria alata, invisibile.
Il Popolo non lo avrebbe abbandonato. Vero?
– Fowl! – Un grido stridulo si levò alle sue spalle. E più vicino del previsto. – Consegnami quella scimmia!
La voce era inutilmente densa di magia. Niente contatto visivo. Niente fascino.
Scimmia, pensò Artemis. Ah ah.
Continuò ad avanzare sul baratro. L’oscurità era sopra e sotto di lui, riflessi di stelle nel cielo e nel mare. Onde ringhianti come tigri affamate.
Barcollando, raggiunse la prima Monachella. La Sorellina. Una spianata di roccia levigata e infida. Scivolò, piroettando tutt’attorno come un ballerino con una compagna invisibile.
Sentì Opal urlare. Se Geigei fosse morto ora, per lei sarebbe stato un disastro: sarebbe rimasta bloccata in quel tempo, con la LEP alle calcagna e zero superpoteri.
Per quanto lo desiderasse, Artemis non si guardò alle spalle. Sentì Opal arrancare rumorosamente sul ponte, imprecando a ogni passo. Le parole violente erano quasi comiche, pronunciate dalla sua voce infantile.
Artemis non potè fare altro che andare avanti. Sul secondo ponte rischiò di precipitare, e per riuscire a raggiungere la Madre Superiora dovette aggrapparsi alla ringhiera di corda. La gente del posto diceva che, se all’alba stavi in un certo punto della costa e socchiudevi gli occhi, potevi distinguerne i lineamenti tetri.
Di sicuro adesso aveva un’aria tetra. Tetra e implacabile. Decisa a non perdonare un solo passo falso.
Artemis si lasciò cadere in ginocchio sulla superficie a forma di fungo, tenendo stretto il gomito sinistro con la mano destra.
Fra poco shock e dolore mi metteranno fuori combattimento. Non ancora, però. Concentrati, genio.
Abbassò lo sguardo per controllare l’interno della giacca. La testa pelosa era scomparsa.
Mi è caduto sulla Sorellina. In attesa di Opal.
L’ipotesi fu confermata dall’improvviso strillo esultante alle sue spalle. Lentamente, faticosamente, Artemis si voltò ad affrontare la sua nemica. Aveva l’impressione di combatterla da sempre.
La folletta era sul primo faraglione e sembrava saltare di gioia. Artemis intravide una piccola forma pelosa sulla roccia.
– È mio! – sghignazzò Opal. – Alla faccia di tutto il tuo genio! Di tutto il tuo cervello! Ti è caduto! L’hai lasciato cadere!
Artemis sentì aumentare la pulsazione dolorosa nella spalla. E fra poco sarebbe peggiorata, ne era sicuro.
Opal allungò le mani verso la sua preda. – È mio – ripetè in tono reverente. Artemis avrebbe giurato di avere sentito il lontano rimbombo di un tuono.
– La magia più potente del mondo è mia. Ho il lemure.
Soltanto allora il ragazzo parlò, scandendo ogni parola perché superasse l’abisso che li divideva. – Non è un lemure – disse. – È una scimmia.
Il sorriso di Opal si congelò, e la folletta scattò ad afferrare quello che aveva creduto Geigei. E che le si afflosciò mollemente fra le mani.
– Un giocattolo! – balbettò. – Non è che un giocattolo!
L’espressione di trionfo di Artemis era offuscata dal dolore e dalla stanchezza. – Ti presento il Professor Primate, Opal. Il giocattolo preferito di mio fratello.
– Un giocattolo – ripetè Opal stordita. – Ma le fonti di calore erano due! Le ho viste.
– Un sacchetto di gel riscaldato al microonde e avvolto nella gommapiuma. È finita, Opal. Ormai Geigei è al sicuro a Cantuccio. Non puoi averlo. Arrenditi e non costringermi a farti del male.
Il viso di Opal era contorto dalla furia.
– Farmi del male! Fare del male a me? – Sbatté furiosa la scimmia di pezza contro la superficie rocciosa fino a spaccarla e a farne cadere gli ingranaggi. Una voce metallica uscì dall’altoparlante. – Questo giorno passerà alla storia… Questo giorno passerà… Questo giorno passerà alla storia…
Opal urlò, e scintille rosse le ribollirono sulla punta delle dita. – Non posso volare e non posso sparare lampi, ma ho ancora magia sufficiente a friggerti il cervello.
Dimenticato ogni sogno di potere supremo, in quel momento Opal serbava un unico desiderio: uccidere Artemis Fowl. S’incamminò sul secondo ponte con il cuore traboccante di propositi omicidi.
Artemis si rialzò stancamente, frugandosi in tasca. – L’armatura della tuta dovrebbe salvarti – disse con calma. – Sarà un brutto colpo, ma la LEP riuscirà a tirarti fuori.
Opal sbuffò. – Un’altra delle tue tattiche. L’ennesimo trucco. Ma stavolta non funzionerà.
– Non costringermi a farlo, Opal. Resta ferma dove sei e aspetta che arrivi la LEP. Non c’è bisogno che qualcuno si faccia male.
– Oh, no! Secondo me qualcuno ha bisogno di farsi male, invece – replicò la folletta.
Artemis si tolse di tasca un puntatore laser modificato e lo accese, dirigendo il raggio sottile alla base della Sorellina.
– Che pensi di fare? Ti ci vorrebbe un secolo per tagliare la roccia.
– Non voglio tagliarla – rispose Artemis senza far vacillare il raggio. – E quella non è una roccia.
Opal sollevò le mani, e scintille le s’intrecciarono attorno alle dita come filo spinato.
Basta con le chiacchiere.
Il raggio laser di Artemis incise la base della Sorellina fino a bucare il guscio esterno e raggiungere la vasta sacca di metano sottostante.
Perché la Sorellina non era una roccia. Era il settimo kraken, attratto lì dalla risonanza magica di Hybras. Artemis lo studiava da anni. Neanche Polledro era al corrente della sua esistenza.
L’esplosione fu terrificante. Una colonna di fuoco alta quindici metri s’innalzò verso il cielo, e il guscio esterno della creatura si frantumò sotto i piedi di Opal, avvolgendola con un uragano di schegge.
Artemis sentì lo schiocco dell’armatura della LEP che si fletteva per ammortizzare i colpi.
L’invenzione di Polledro la proteggerà.
Quanto a lui, si tuffò bocconi sul faraglione lasciando che sassi, alghe, e perfino pesci gli piovessero su schiena e gambe.
Ormai può salvarmi soltanto la fortuna. Nient’altro che la fortuna.
E la fortuna lo salvò. Parecchi missili di grossa taglia atterrarono sulla Madre Superiora, ma nessuno lo colpì. E anche se avrebbe avuto un centinaio di lividi e tagli da aggiungere alla sua collezione di ferite, non si spezzò altre ossa.
Quando il mondo attorno a lui smise di vibrare, Artemis strisciò verso il bordo del faraglione e scrutò il mare ribollente. Fili di fumo si levavano dalla piramide di detriti dove fino a poco prima si era trovato il kraken. Adesso il bestione si sarebbe allontanato in silenzio, alla ricerca di un altro sito magico. Di Opal non c’era traccia.
Ci penserà la LEP a trovarla.
Artemis si distese sulla schiena e guardò le stelle. Lo faceva spesso, e di solito quella vista lo spingeva a chiedersi come avrebbe potuto raggiungere i pianeti in orbita attorno a quei puntini luminosi, e che cosa ci avrebbe trovato. Quella sera, però, l’unico effetto che ebbero le stelle fu di farlo sentire piccolo e insignificante. La natura era enorme e possente, e alla fine lo avrebbe inghiottito, cancellando perfino il suo stesso ricordo. Rimase disteso lassù, infreddolito e solo, in attesa di una sensazione di trionfo che - di colpo lo capì - non sarebbe mai arrivata; in ascolto delle voci lontane degli abitanti del villaggio che attraversavano i campi, diretti verso di lui.
Spinella arrivò da nord, precedendo gli umani e atterrando silenziosa sul faraglione.
– Voli – disse Artemis, come se non gliel’avesse mai visto fare.
– Mi sono fatta prestare la tuta da una delle guardie del corpo di Numero Uno. Be’, “prestare” non è il termine esatto…
– Come hai fatto a trovarmi? – chiese Artemis, anche se non era difficile intuire la risposta.
– Sai com’è… ho sentito una grossa esplosione e mi sono chiesta: che sarà mai?
– Mmm. Un indizio, eh?
– Ho seguito la radiazione della mia vecchia tuta. E continuo a seguirla. – Spinella toccò la visiera con un dito, e il filtro cambiò. – Certo che hai infilato Opal sotto un bel mucchio di sassi. La Squadra Recupero ci metterà un po’ a tirarla fuori. Al momento sta imprecando come un nano da tunnel. Come hai fatto?
– Il settimo kraken – rispose Artemis. – Quello sfuggito ai controlli di Polledro… probabilmente perché era tubolare invece che conico. L’avevo individuato grazie a un satellite per le previsioni del tempo.
Spinella gli posò un dito sulla fronte. – Tipico di Artemis Fowl. Pestato a sangue, e ancora insiste a tenere una conferenza.
Scintille magiche le fluirono dal dito, formando un bozzolo attorno al ragazzo. Artemis provò una sensazione di pace, di tranquillità, come un bimbetto sotto le coperte. Ogni dolore fu cancellato, e la clavicola rotta si sciolse e si risolidificò.
– Bel trucchetto – commentò sorridendo, lo sguardo vitreo.
– Ho il serbatoio pieno – replicò Spinella ricambiando il sorriso. – Grazie a Numero Uno.
Artemis guardò l’amica attraverso una foschia rossa. – Mi dispiace di averti mentito. Davvero. Hai fatto tanto per me.
Per un momento lo sguardo di Spinella si perse nel vuoto. – Forse hai preso la decisione sbagliata; forse anch’io avrei preso la stessa decisione. Veniamo da mondi diversi, Artemis. Non potremo mai fidarci completamente l’uno dell’altra. Andiamo avanti così, e lasciamo che il passato sia passato…
Artemis annuì. Non avrebbe ottenuto di più, ed era comunque più di quanto meritasse.
Spinella si tolse una pitoncorda dalla cintura e gliela passò sotto le braccia. – Ora sarà bene riportarti a casa, prima che quei tizi in arrivo comincino a costruire una forca.
– Buona idea – borbottò Artemis, che la guarigione magica aveva lasciato insonnolito.
– Che tu ci creda o no, ogni tanto anche qualcun altro può avere buone idee.
– Ogni tanto – concesse il ragazzo. Poi reclinò la testa all’indietro e si addormentò.
Spinella regolò le ali per il surplus di peso e si tuffò dal bordo del faraglione, volando a bassa quota per evitare i raggi delle torce che intersecavano la notte come riflettori.
Era ancora in volo, quando Polledro si sintonizzò sulla frequenza del suo elmetto. – Il settimo kraken, suppongo. Ovviamente, avevo i miei sospetti. – Fece una pausa e poi aggiunse: – Sarebbe l’occasione buona per eseguire uno spazzamente su Artemis. Ci risparmierebbe parecchi guai in futuro.
– Polledro! – inorridì Spinella. – Non spazziamo la mente dei nostri amici. Artemis ci ha riportato Geigei. Va’ a sapere quante cure si celano nel cervello di quel lemure.
– Scherzavo, scherzavo. E, indovina un po’? Neanche avremo bisogno di sottrarre a Geigei un po’ del suo fluido cerebrale. Numero Uno l’ha sintetizzato mentre aspettava l’arrivo della navetta. È davvero unico, quel piccoletto.
– A quanto pare, non faccio che imbattermi in tipi unici. A proposito, dobbiamo mandare una squadra a recuperare Opal.
– È già per strada. A proposito: mi sa che al tuo ritorno i pezzi grossi ti daranno una strapazzata.
– Sai che novità.
Polledro tacque, in attesa che Spinella gli riferisse i particolari delle sue avventure, ma dopo un po’ la curiosità ebbe la meglio. – Va bene, hai vinto tu. Te lo chiederò. Cos’è successo all’epoca… otto anni fa? Per gli dei, ci dev’essere stato un caos.
Spinella avvertì un’ombra di pizzicore sulle labbra, là dove aveva baciato Artemis. – Niente. Niente di niente. Siamo andati, abbiamo preso il lemure, siamo tornati. Un paio di intoppi, ma niente che non fossimo in grado di risolvere.
Polledro non insistè oltre. A tempo debito Spinella gli avrebbe rivelato com’erano davvero andate le cose.
– Hai mai pensato che potrebbe piacerti avere un lavoro normale? Timbrare il cartellino e tornare a casa? Niente drammi, niente pericoli…
Spinella guardò l’oceano sfrecciare sotto di lei, e sentì il peso di Artemis Fowl fra le braccia.
– No – rispose. – Non ci ho mai pensato.