Appendice 5
Ulteriori questioni sul training

Qualcosa di più sulla valutazione delle competenze emotive

Nessuna misura di valutazione è perfetta. Le autovalutazioni, per esempio, sono soggette a distorsioni nel caso di persone che vogliano far buona impressione. Quando poi si tratta di valutare la competenza emotiva di qualcuno, si pone un interrogativo – e cioè se ci si possa fidare del fatto che un individuo scarsamente dotato di autoconsapevolezza valuti in modo accurato i propri punti di forza e le proprie debolezze. Le autovalutazioni possono essere utili (e sincere) se l'individuo crede che i risultati saranno usati per il suo bene, mentre in assenza di questa fiducia sono probabilmente meno attendibili.

Coloro che mettono a punto gli strumenti di autovalutazione solitamente vi inseriscono un «rivelatore di bugie» – una serie di domande intesa a smascherare le persone che cercano di sembrare «troppo buone per essere vere», ad esempio spuntando l'affermazione «Io non mento mai». Ma ecco la trappola: sebbene questi sistemi riescano in genere a individuare l'inganno flagrante, probabilmente non rilevano l'autoinganno dovuto a una scarsa consapevolezza di sé, un tratto che rende gli individui cattivi osservatori di se stessi.

«L'utilità delle autovalutazioni dipende dal loro scopo», mi spiega Susan Ennis, capo dello sviluppo dirigenti alla Bank Boston. «Una domanda-chiave è: "qual è il ruolo dell'azienda, e come saranno archiviati e utilizzati i dati?" La volontà di sembrare desiderabili influenzerà le risposte delle persone. Uno vuole sempre fare buona impressione.

«Quando l'autovalutazione avviene esclusivamente fra te e il tuo trainer in forma confidenziale, e non viene vagliata o archiviata dall'azienda», dice Ennis, «allora uno è più sincero, per lo meno quanto è possibile esserlo, dati gli eventuali limiti di consapevolezza di sé.»

D'altro canto, le valutazioni formulate da altre persone possono essere suscettibili di distorsioni di natura diversa. Quando entra in gioco la politica aziendale, ad esempio, non è detto che il feedback a 360 gradi rifletta realmente la persona oggetto dell'analisi, e questo perché tali valutazioni possono essere usate come armi nelle guerre interne all'azienda o come un modo per scambiarsi favori fra amici, dandosi reciprocamente dei «voti» gonfiati.

La politica dell'organizzazione può rendere particolarmente difficile per i dirigenti ai vertici ottenere delle valutazioni sincere, se non altro perché in questo il loro potere è d'intralcio – e, come abbiamo visto nel quarto capitolo, il successo può a volte alimentare la percezione narcisistica di non avere alcun punto debole. I dirigenti tendono a non entrare in contatto con le prove che dimostrerebbero loro il contrario, e questo in parte perché sono effettivamente isolati, e in parte perché i loro subordinati temono di offenderli.

In una certa misura, ogni giudizio riflette chi lo formula. Per questo motivo, un metodo per correggere ogni deformazione è quello di ottenere valutazioni da numerose fonti diverse, così che, presumibilmente, i piani politici o emotivi di un individuo possano essere bilanciati dalla presenza di altri giudizi.

Qualcosa di più sull'esatta valutazione della preparazione

Una ricerca di vasta portata (condotta su più di trentamila persone) da James Prochaska, uno psicologo dell'Università di Rhode Island, ha stabilito quattro livelli di preparazione attraverso i quali passano gli individui che compiono con successo una modificazione del proprio comportamento.

Inconsapevolezza. Come diceva G.K. Chesterton, l'erudito scrittore inglese: «Non è che non riescono a vedere la soluzione – non riescono a vedere il problema». A questo stadio le persone non sono assolutamente pronte: negano, in primo luogo, di avere bisogno di cambiare. Resistono a ogni tentativo di aiutarle a modificarsi: proprio non vedono il punto.

Buoni propositi. A questo livello le persone si rendono conto di aver bisogno di migliorare, e hanno cominciato a riflettere su come farlo. Sono disposte a parlarne, ma ancora non del tutto pronte a intraprendere il cammino dello sviluppo con reale convinzione. Cresce l'ambivalenza: alcuni aspettano che si presenti un «momento magico» in cui si sentiranno pronti – altri si lanciano nell'azione prematuramente ma si scontrano con l'insuccesso a causa della loro convinzione solo parziale. A questo stadio è probabile che la gente dica che intende far qualcosa «il mese prossimo», così come potrebbe dire di volerlo fare «nei prossimi sei mesi». Non è insolito, osserva Prochaska, che «passi anni a dire a se stessa che un giorno o l'altro cambierà». Sostituisce il pensiero all'azione. Prochaska cita il caso di un ingegnere che passò cinque anni ad analizzare i fattori che lo avevano reso passivo e timido – e che ciò nondimeno pensava di non aver ancora compreso il problema abbastanza bene per poterci fare qualcosa.

Preparazione. Qui la gente ha cominciato a concentrarsi sulla soluzione – sul come migliorare. A questo stadio le persone sono sul punto di agire, ansiose di sviluppare un piano d'azione. Sono consapevoli del problema, capiscono che ci sono i modi per risolverlo, e anticipano l'azione in modo tangibile. A volte le persone sono spinte in questo stadio di maggior preparazione da un evento drammatico – un colloquio a tu per tu con un supervisore, un disastro sul lavoro, una crisi nella vita personale. Un dirigente fu persuaso a potenziare la propria competenza nell'autocontrollo quando la polizia lo fermò mentre stava tornando a casa da un pranzo di lavoro, e lo arrestò per guida in stato di ebbrezza. A questo punto, la gente è matura per il cambiamento; questo è il momento di formulare un piano di sviluppo dettagliato e specifico.

Azione. Comincia il cambiamento visibile. La persona abbraccia il piano, comincia a percorrerne le tappe, cambia effettivamente il proprio modo di agire – i propri modelli emotivi, il modo in cui pensa a se stessa e tutte le altre sfaccettature implicate nel trasformare un'abitudine da tempo radicata. Questo stadio è quello che la maggior parte delle persone identifica con il «compiere il cambiamento» – sebbene in realtà esso si basi sugli stadi precedenti della preparazione.

Qualcosa di più sull'esercizio

A livello neurologico, coltivare una competenza significa «estinguere» la vecchia abitudine nella sua qualità di risposta automatica del cervello, e sostituirla con quella nuova. Lo stadio finale nell'acquisizione della padronanza di una competenza arriva quando la vecchia abitudine perde il suo status di risposta automatica e quella nuova prende il suo posto. A quel punto, la modificazione del comportamento si è stabilizzata, il che rende poco probabili le ricadute nella vecchia abitudine.

In genere, gli atteggiamenti profondamente radicati e i valori ad essi correlati sono più difficili da cambiare delle abitudini pratiche. Ad esempio, uno stereotipo verso un particolare gruppo etnico viene alterato meno facilmente di ciò che una persona dice o fa in presenza di qualcuno appartenente a quel gruppo. Motivazioni come il bisogno di realizzarsi e tratti della personalità come l'affabilità possono essere perfezionati o modificati, ma si tratta di un processo lento.468 Lo stesso vale per capacità fondamentali come l'autoconsapevolezza, l'abilità di controllare e gestire emozioni negative, l'empatia e le abilità sociali.

Al di là della complessità della competenza da apprendere, la distanza fra il comportamento basale della persona e il suo obiettivo ha un'immensa importanza. Per individui che sono già relativamente empatici, imparare a offrire un feedback sapiente sulla prestazione altrui o a sintonizzarsi sulle esigenze di un cliente può essere molto facile, dal momento che queste competenze rappresentano applicazioni specifiche di una capacità che essi già possiedono. Ma per chi ha difficoltà a empatizzare, quelle stesse competenze richiederanno uno sforzo più determinato e prolungato.

I programmi di training che offrono alle persone una possibilità di esercitare la competenza desiderata attraverso simulazioni, giochi di ruolo e altri metodi simili ben mirati, possono offrire un saldo punto di partenza per esercitarsi. Ma quando si passa alla simulazione di compiti di lavoro più complessi, a giochi di simulazione aziendale computerizzati, al gioco di ruolo, ad esercizi di risoluzione di problemi in team e a simulazioni su vasta scala di un'intera realtà aziendale, i risultati tendono a essere contrastanti.

Spesso non è chiaro esattamente quale tipo di capacità queste simulazioni intendano coltivare; di solito viene prestata poca o nulla attenzione a stabilire precisamente quali competenze vengano esercitate. Inoltre, il semplice prendere parte a un gioco o a un esercizio non equivale ad apprendere. La raccomandazione generale, per questi giochi di simulazione, è che essi siano attentamente pianificati, concentrati su competenze specifiche chiaramente spiegate ai partecipanti, e che terminino con un rapporto sull'esperienza. Inoltre, dovrebbero proporsi come complementari (e non sostitutivi) rispetto alle figure tutoriali, al feedback, al rinforzo e all'esercizio sul lavoro.469  

Il training guidato dal computer, attualmente di moda, ha dei limiti quando si tratta di offrire l'occasione di esercitare le competenze emotive. Sebbene queste tecniche assistite dal computer siano davvero promettenti per quanto riguarda l'istruzione individualizzata, la possibilità di stabilire un ritmo di apprendimento personalizzato, le opportunità private di ripasso e di esercizio, il feedback immediato sui progressi, l'assistenza per correggere gli errori, e altri aspetti simili, in genere sono più adatte all'addestramento tecnico che non al training delle capacità personali e interpersonali.

«Dicono che puoi metterti seduto al computer, valutare te stesso e scoprire come sviluppare una competenza», osserva Richard Boyatzis della Case Western Reserve University. «Ma non puoi fare queste cose senza delle relazioni – non puoi imparare queste cose standotene isolato.»

In molti ambienti c'è un glande entusiasmo sulla possibilità di convertire il training in strumenti multimediali ad alta tecnologia, ad esempio sistemi tutoriali computerizzati intelligenti, realtà virtuale, CD-ROM interattivi, e così via. Sebbene queste tecnologie possano offrire una maggiore flessibilità agli utenti e un risparmio sui costi – in quanto si servono di macchine invece che di persone come trainer –, se saranno gli unici strumenti usati probabilmente molte cose importanti andranno perdute. Come disse uno psicologo: «Nel training, gli strumenti multimediali ad alta tecnologia possono comportare molti vantaggi, ma nel caso dell'intelligenza emotiva se la cavano piuttosto male». Certo – questi supporti didattici ad alta tecnologia possono avere una loro collocazione nel progetto generale di un programma di training sulle competenze emotive (un esempio potrebbe essere quello di sedute di esercitazione individuali con spezzoni video per il feedback sull'accuratezza empatica). Un'altra possibilità potrebbe essere quella di gruppi di affinità on-line – una sorta di sostegno virtuale e di gruppo-guida.

Ma un'eccessiva enfasi sulla tecnologia a spese del contatto umano essenziale – soprattutto quando arriva il momento di esercitare le competenze – potrebbe rivelarsi un grandissimo errore. In un'analisi sulle tendenze del training troviamo quest'osservazione sarcastica: «Spesso, in un sistema di training, sono i fattori più terra terra e a bassa tecnologia a fare la differenza fra un programma di successo e uno spreco di risorse aziendali» – e questi fattori a bassa tecnologia altro non sono se non esseri umani con le competenze essenziali dell'intelligenza emotiva.470