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Le arti dell'influenza

La fusione della Salomon Brothers e della Smith Barney creò una delle più grandi imprese finanziarie del mondo. Sulla stampa specializzata l'evento venne salutato come il coronamento del successo di Sanford («Sandy») Weill, il direttore generale della Smith Barney che aveva organizzato la fusione (e che, di lì a qualche mese, avrebbe proceduto a orchestrarne un'altra, con la Citicorp).

Nell'arco di qualche settimana dall'annuncio della fusione, in entrambe le aziende si tennero alcuni incontri per spiegare ai dipendenti i dettagli delle modalità con cui le due grandi aziende si sarebbero trasformate in un unico gigante. Come succede di solito nel caso di tali fusioni, centinaia di persone avrebbero perso il proprio lavoro, dal momento che molte funzioni erano presentì in entrambe le compagnie.

Come si fa a comunicare queste notizie, senza rendere più preoccupante una realtà che già lo è abbastanza?

Un capo dipartimento lo fece nel modo peggiore. Tenne un discorso tetro – perfino minaccioso – dicendo essenzialmente: «Non so che cosa farò, ma non aspettatevi che sia gentile con voi. Devo licenziare metà dei dipendenti qua dentro, e non so esattamente come prenderò queste decisioni, così vorrei che ciascuno di voi mi informasse sul suo background e le sue qualifiche in modo che io possa cominciare».

La sua controparte presso l'altra compagnia, se la cavò molto meglio. Il suo messaggio era ottimista: «Noi crediamo che questa nuova compagnia costituirà una piattaforma di lancio decisamente entusiasmante per il nostro lavoro, e abbiamo la fortuna di poter operare con le persone di maggior talento di entrambe le organizzazioni. Prenderemo le nostre decisioni il più velocemente possibile, ma non prima di essere assolutamente sicuri di aver raccolto abbastanza informazioni per poter procedere in modo giusto. Vi aggiorneremo a intervalli di qualche giorno su ciò che stiamo facendo. E decideremo sia sulla base di dati di rendimento obiettivi, sia sulla base di capacità qualitative, come quella di lavorare in team».

I dipendenti del secondo gruppo – mi disse Loehr, un managing director della Salomon Smith Barney – «divennero più produttivi, perché erano eccitati dalle potenzialità dell'evento. E sapevano che se anche si fossero ritrovati senza lavoro, la decisione sarebbe comunque stata presa in modo corretto».

Ma nel primo gruppo, osserva, «erano tutti demotivati. Avevano sentito il discorso del capo – "Non sarò trattato in modo giusto", pensavano – e questo aveva innescato un attacco dell'amigdala collettivo. Erano amareggiati, demoralizzati. Dicevano – "Non so nemmeno se voglio lavorare per questo cretino, figuriamoci per la compagnia." I cacciatori di teste si misero in contatto con queste persone e si portarono via le migliori – ma non quelle dell'altro gruppo».

Loehr mi disse: «Quando la Lehman non riuscì a integrarsi completamente con la Shearson al momento della loro fusione, ci fu un enorme indebolimento. Ma quando la Smith Barney rilevò la Shearson, riuscì a far funzionare la cosa. La differenza sta tutta nel modo in cui tratti la gente subito dopo la fusione. Ciò stimola il radicare della fiducia fra le due culture. Il genio di Sandy Weill sta nella sua capacità di integrare le aziende velocemente, in modo che esse non muoiano».

L'arte dell'influenza implica la capacità di guidare efficacemente le emozioni altrui. Entrambi i capi dipartimento erano, in questo senso, influenti – ma in direzione opposta. Gli individui capaci di prestazioni eccellenti sono bravissimi a inviare segnali emotivi: un'abilità, questa, che fa di loro dei potenti comunicatori, capaci di dominare un pubblico – in poche parole, dei leader.

Le emozioni sono contagiose

Tutte queste abilità traggono vantaggio da un fondamentale dato di fatto: noi influenziamo reciprocamente i nostri stati d'animo. Nel bene e nel male, influenzare lo stato emotivo di un'altra persona è perfettamente naturale: lo facciamo costantemente, lasciandoci reciprocamente «contagiare» dalle emozioni come se fossero una sorta di virus sociale. Questo scambio emotivo costituisce un invisibile equilibrio interpersonale, che fa parte di ogni interazione umana, sebbene spesso sia troppo impercettibile per essere notata.

Anche così la trasmissione dello stato d'animo è straordinariamente efficace. Quando, in uno studio sull'umore condotto su volontari, tre estranei sedevano tranquillamente insieme per un paio di minuti, nell'arco di quel breve periodo la persona emotivamente più espressiva riusciva a trasmettere il proprio umore alle altre due.8-1 In ogni seduta, lo stato d'animo col quale l'individuo più espressivo era entrato nella stanza era anche quello con il quale si ritrovavano gli altri due all'uscita – indipendentemente dal fatto che si trattasse di felicità, noia, ansia o collera.

Le emozioni sono contagiose. Come disse C.G. Jung, il grande psicanalista svizzero, «nella psicoterapia, anche se il medico è del tutto distaccato dai contenuti emotivi del paziente, il fatto stesso che questi abbia delle emozioni ha un effetto su di lui. Ed è un grande errore se il medico pensa di potersi sollevare al di sopra di questo. Non può far altro che diventare consapevole del fatto che è influenzato. Se non si rende conto di questo, è troppo distante e quindi non capisce nulla».

Quel che vale a proposito dell'intimo scambio della psicoterapia non è meno vero in un grande magazzino, in una sala del consiglio o in quella sorta di serra delle emozioni che è la vita d'ufficio. Noi ci trasmettiamo gli stati d'animo con tanta facilità perché essi sono segnali potenzialmente vitali per la sopravvivenza. Le emozioni ci informano su che cosa concentrarci, ci dicono quando dobbiamo tenerci pronti all'azione. Esse sono il mezzo per fermare l'attenzione e hanno la funzione di avvertimenti, inviti, allarmi e simili. Si tratta di messaggi potenti, che trasmettono informazioni essenziali senza necessariamente verbalizzarne i dati. Le emozioni sono un metodo di comunicazione efficacissimo.

In un gruppo di esseri umani primitivi, il contagio emotivo – la diffusione della paura da un individuo all'altro – funzionava presumibilmente come un segnale d'allarme per concentrare rapidamente l'attenzione di chiunque su un pericolo imminente, ad esempio una tigre in agguato.

Oggi, lo stesso meccanismo collettivo opera ogni qualvolta si sparge la voce di un'allarmante flessione nelle vendite, di un'imminente ondata di licenziamenti o di una nuova minaccia da parte di un concorrente. Ogni individuo facente parte della catena di comunicazione attiva nel suo vicino uno stato emotivo identico al proprio, trasmettendo così il messaggio di allerta.

Le emozioni sono un sistema di segnalazione che non ha bisogno di parole – il che, secondo i teorici dell'evoluzione, è probabilmente una delle ragioni che spiega come mai esse ebbero un ruolo tanto potente nello sviluppo del cervello umano, molto tempo prima che le parole diventassero per la nostra specie uno strumento simbolico. Questa eredità evolutiva significa che il nostro radar per le emozioni ci sintonizza su coloro che ci stanno intorno, aiutandoci a interagire in modo più fluido ed efficace.

L'equilibrio emotivo è la somma totale degli scambi di sentimenti che avvengono fra noi. In modo (più o meno) impercettibile tutti noi possiamo, come risultato del contatto, far sentire il nostro interlocutore un po' meglio (o molto peggio); ogni incontro può essere pesato su una scala che va, emotivamente parlando, dal tossico al corroborante. Sebbene il suo funzionamento sia in larga misura invisibile, questo equilibrio può produrre immensi benefici per un'azienda o per il tono dell'organizzazione.

Il cuore del gruppo

Un gruppo di dirigenti sta discutendo su come distribuire in bonus una quantità di denaro limitata. Ciascuno di essi presenta un candidato del proprio dipartimento, motivando l'entità del premio. È un tipo di discussione che può assumere toni astiosi o finire in armonia – a seconda.

A seconda di che? E emerso che ciò che fa la differenza sono gli stati d'animo che si diffondono fra i dirigenti durante la discussione. Gli stati d'animo con i quali gli individui si contagiano mentre lavorano insieme sono un ingrediente essenziale – ma spesso trascurato – per determinare quanto bene essi lavorino. Un'impressionante dimostrazione scientifica di come gli stati d'animo che si propagano in un gruppo possano influenzarne la prestazione è stata ottenuta da Sigal Barsade, professore della Yale University School of Management.8-2 Alcuni volontari della scuola di scienze aziendali furono convocati affinché facessero la parte dei manager impegnati a decidere l'assegnazione dei bonus. Ogni volontario aveva due obiettivi: ottenere il bonus più sostanzioso possibile per il proprio candidato, e aiutare il comitato, come gruppo, a fare il miglior uso dei fondi nell'interesse della compagnia.

Quel che i volontari non sapevano, era che fra di essi c'era un infiltrato, una persona d'accordo con Barsade e da lui istruita. Attore esperto, costui parlava sempre per primo, sostenendo sempre gli stessi argomenti. Ma lo faceva adottando ogni volta una chiave emotiva su quattro possibili, e precisamente: con allegro, effervescente entusiasmo; con una cordialità rilassata e serena; con una depressa indolenza, o con un fare spiacevolmente irritabile e ostile. Il suo vero ruolo era quello di infettare il gruppo con l'uno o l'altro di questi stati emotivi, come qualcuno che diffondesse un virus in mezzo a delle vittime inconsapevoli.

Effettivamente, le emozioni si diffondevano come un virus. Quando l'attore faceva il suo discorso in tono allegro o cordiale, quei sentimenti si propagavano in tutto il gruppo, rendendo le persone più positive via via che l'incontro proseguiva. Quando si mostrava irritabile, la gente si sentiva a sua volta più scontrosa. (La depressione, d'altro canto, si diffondeva poco, forse perché in genere essa si manifesta come un sottile isolamento sociale – indicato, ad esempio, da uno scarso contatto oculare – e quindi è soggetta a scarsa amplificazione.)

I sentimenti positivi si diffondevano più potentemente di quelli negativi e i loro effetti erano estremamente salutari in quanto potenziavano la cooperazione, la lealtà, la collaborazione e la prestazione complessiva del gruppo. Il miglioramento era qualcosa di più di un'aureola di buoni sentimenti: misure obiettive dimostrarono che i gruppi erano più efficienti – in questo caso, capaci di distribuire meglio il denaro dei bonus, assegnandolo in modo equo e con criteri tali che avrebbero arrecato il massimo beneficio alla compagnia.

Nel mondo del lavoro, indipendentemente dal problema contingente, gli elementi emotivi hanno un ruolo essenziale. Per essere competenti occorre saper navigare nelle correnti emotive sotterranee, peraltro sempre presenti, senza consentir loro di trascinarci a fondo.

Guidare le emozioni altrui

È la fine di una lunga, estenuante giornata, calda e umida, a Disney World, e un autobus carico di genitori e bambini si sta accingendo a un viaggio di venti minuti per riportarli in albergo. I bambini sono sovreccitati e nervosi, proprio come i genitori. Tutti si beccano.

È una corsa in autobus all'inferno.

Poi, levandosi al di sopra del mormorio opprimente dei bambini piagnucolanti e dei loro genitori, ecco una debole melodia. L'autista ha cominciato a cantare un motivo, «In fondo al mar», dal cartone La sirenetta. Tutti cominciano a calmarsi e ad ascoltare. Poi una bambina si associa, seguita da diversi altri. Alla fine della corsa tutti cantano «Il cerchio della vita», dal Re Leone, e una miscellanea di altre canzoni di Disney. Quello che prometteva di essere un viaggio infernale si è trasformato nel piacevole finale allietato dalla musica di una giornata densa di eventi.

Quell'autista sapeva benissimo ciò che stava facendo. In realtà, gli autisti che cantano fanno parte di una strategia intenzionale per mantenere sereni i visitatori. Ricordo ancora (con un certo piacere) l'autista di un autobus di Topolino che, quando visitai Disneyland da bambino negli anni Cinquanta, proruppe nel tema musicale di Mickey Mouse Club, un programma televisivo allora molto in voga; rimane il mio più vivo ricordo di quel viaggio di vacanza.

Questa strategia si avvale in modo intelligente del fenomeno del contagio emotivo. Nel bene o nel male, tutti noi facciamo parte, per così dire, della cassetta degli attrezzi emotivi degli altri; stimoliamo continuamente gli stati emozionali altrui, proprio come gli altri fanno con i nostri. Da ciò deriva un potente argomento contro la libera espressione di sentimenti tossici sul lavoro: chi si comporta così avvelena il pozzo. Sull'altro versante, quel che ci fa nutrire sentimenti positivi verso una compagnia si basa, in larga misura, sul modo in cui la gente che la rappresenta ci fa sentire.

Nelle organizzazioni, gli individui più efficaci lo sanno per istinto; costoro impiegano spontaneamente il proprio radar emozionale per percepire la reazione degli altri, e regolano le proprie risposte in modo da spingere l'interazione nella direzione migliore. Come mi disse Tom Pritzker, presidente degli Hyatt Hotel, «il valore della donna che sta alla cassa e sa persuadere il cliente col suo sorriso non può essere quantificato, ma il vantaggio comportato dalla sua presenza è percepibile». (I sorrisi sono il segnale emotivo più contagioso di tutti, avendo il potere quasi irresistibile di far sorridere gli altri. L'atto del sorridere, di per se stesso, evoca sentimenti positivi.8-3 )

Gli stessi meccanismi cerebrali che stanno alla base dell'empatia e spiegano la sintonia emotiva sono quelli che aprono la strada al contagio delle emozioni. Ma oltre al circuito che irradia dall'amigdala, qui sono implicate anche le aree basali (compreso il tronco cerebrale) che regolano le funzioni automatiche riflesse. Queste aree operano per creare uno stretto circuito di collegamento biologico, ricreando in un individuo lo stato fisiologico dell'altro – e questa sembra proprio essere la via seguita dalle emozioni nel loro passaggio da un individuo all'altro.8-4  

Questa via è quella percorsa anche quando qualcuno domina abilmente il suo pubblico. Come osserva Howard Friedman, uno psicologo dell'Università della California di Irvine, «l'essenza stessa di una comunicazione eloquente, appassionata e piena di spirito sembra implicare l'uso di espressioni facciali, toni di voce, gesti e movimenti del corpo per trasmettere emozioni». La ricerca di Friedman dimostra che le persone dotate di questa destrezza emotiva hanno maggior facilità a commuovere e ispirare gli altri e a catturare la loro immaginazione.8-5  

In un certo senso, l'esibizione delle emozioni è come un teatro. Tutti noi abbiamo un retroscena – la zona nascosta dove sperimentiamo le nostre emozioni – e un palcoscenico, l'arena sociale dove presentiamo solo quelle che decidiamo di rivelare. Questa intima scissione fra la nostra vita emotiva pubblica e privata è analoga al concetto del negozio davanti con l'ufficio sul retro. L'esibizione delle emozioni è controllata con maggiore attenzione durante l'interazione con i clienti, e molto meno bene dietro le quinte. Tale discrepanza può essere infelice: come osservò un consulente, «diversi dirigenti che sembrano molto carismatici fuori dall'ufficio, quando vi rientrano si comportano da idioti con i loro dipendenti.» La direttrice di una grande scuola di catechismo si lamentò con me del suo ministro: «E davvero troppo impassibile, completamente inespressivo. È talmente difficile da interpretare che io non so come prendere gran parte di ciò che dice: è difficilissimo lavorare con lui». L'incapacità di gestire ed esprimere in modo appropriato le emozioni può essere un grave handicap.

Le abilità sociali, intese essenzialmente come il saper guidare ad arte le emozioni di un'alta persona, sono alla base di diverse competenze. Esse includono:

• Influenza: adoperare tattiche di persuasione efficaci

• Comunicazione: inviare messaggi chiari e convincenti

• Gestione del conflitto: negoziare e risolvere i conflitti

• Leadership: ispirare e guidare gli altri

• Catalizzare il cambiamento: innescare, promuovere o guidare il cambiamento

Il dono della persuasione

INFLUENZA
Adottare strumenti di persuasione efficaci 

Le persone con questa competenza:

• Sono abili nell'arte della persuasione

• Sono capaci di adeguare il proprio approccio in modo da interessare l'ascoltatore

• Usano strategie complesse, come l'influenza indiretta, per costruire intorno a sé consenso e appoggio

• Orchestrano eventi di grande impatto per far centro

Il rappresentante di una compagnia americana a Tokyo stava portando il suo superiore, lì in visita, a una serie di incontri con le loro controparti giapponesi. Mentre erano diretti al primo di quegli incontri, il rappresentante, che parlava benissimo il giapponese, consigliò al suo capo di non chiedergli di tradurre davanti ai loro interlocutori, ma di affidarsi invece all'interprete. Il superiore fu senz'altro d'accordo.8-6  

Perché?

«Penseranno che sono solo un portavoce che fa rapporto a New York. Io ho cercato di fare in modo che mi vedessero davvero investito del potere di prendere decisioni sul posto. Volevo essere considerato quello che aveva in mano gran parte della trattativa. Io avevo le risposte, non New York.»

Questa sensibilità all'impatto di una questione apparentemente così banale rivela una notevole sofisticazione nel campo dell'influenza. Al livello più elementare, l'influenza e la persuasione fanno perno sulla capacità di risvegliare emozioni specifiche in altre persone – indipendentemente dal fatto che si tratti di rispetto per il nostro potere, passione per un progetto, entusiasmo per superare un concorrente o risentimento per un atto sleale.

Le persone abili nell'arte dell'influenza sanno percepire o addirittura anticipare la reazione del pubblico al proprio messaggio, e riescono a portare tutti verso l'obiettivo desiderato. Alla Deloitte and Touche Consulting, ad esempio, gli individui capaci di prestazioni eccellenti sanno che un buon argomento può non bastare a convincere il cliente, e hanno la capacità di percepire quali altri elementi serviranno a persuadere chi deve prendere le decisioni-chiave.8-7 Qui è fondamentale saper rendersi conto di quando gli argomenti logici vanno a vuoto e di quando appelli di natura più emotiva possano contribuire all'impatto desiderato.

Questa competenza emotiva emerge sempre più spesso come carattere distintivo degli individui eccellenti, soprattutto fra i supervisori e i dirigenti.8-8 A ogni livello, tuttavia, è necessaria una comprensione sofisticata dell'influenza. «Nelle posizioni di primo impiego, essere troppo motivati dal potere e preoccuparsi eccessivamente di avere un impatto può farti uno sgambetto, soprattutto se uno cerca di prendere le arie e di assumere i segni del potere», mi spiega Richard Boyatzis. «Se ti avessero appena promosso sales manager e cercassi di fare impressione sugli altri tenendo le distanze o ostentando il tuo status – ad esempio se cominciassi a metterti abiti formali e costosi o chiedessi ai subordinati di smettere di chiamarti per nome – potresti allontanare gli altri.»

Gli stratagemmi usati dagli individui più efficaci vanno dall'orientamento dell'impressione, ad appelli alla ragione e ai fatti, ad argomenti o azioni di grande impatto, fino alla costruzione di coalizioni e appoggi dietro le quinte, all'enfatizzare l'informazione-chiave, e così via. Ad esempio, un manager di spicco fu messo a capo del controllo di qualità di una grande fabbrica. La prima cosa che fece fu di cambiare il nome della sua unità in servizi di qualità, uno spostamento di accento impercettibile ma importante: «L'immagine che volevo creare era di un'organizzazione che non avesse semplicemente funzioni di polizia, ma che fornisse anche un input tecnico. Così adesso siamo fortissimi nel risalire alle cause delle lamentele dei clienti, e quelli della produzione non si mettono immediatamente sulla difensiva».8-9  

Un'azione di grande impatto cattura l'attenzione e risveglia l'emozione; se ben condotte, queste sono fra le strategie di influenza più efficaci. «Di grande impatto» non significa necessariamente mostrare immagini appariscenti durante le dimostrazioni; a volte l'effetto può essere ottenuto con i mezzi più prosaici. Un bravo venditore mandò in visibilio un potenziale cliente passando gran parte della giornata con le maniche rimboccate usando uno dei suoi prodotti per aggiustare un'apparecchiatura – per giunta acquistata da un concorrente!

Quello che gli conquistò la fiducia del cliente fu la dimostrazione del livello di assistenza che ci si poteva aspettare da lui.8-10 Come disse lui stesso, «erano sbalorditi».

Prima di tutto, costruire il rapporto

L'empatia è una competenza fondamentale ai fini dell'arte dell'influenza; è impossibile avere un impatto positivo sugli altri se prima non percepiamo come si sentono e non comprendiamo la loro posizione. Le persone incapaci di leggere gli indizi emozionali e inette nelle interazioni sociali lasciano anche molto a desiderare per quanto riguarda l'influenza. Il primo passo per essere influenti è quello di saper costruire un rapporto.

Per un analista che lavorava presso una compagnia petrolifera americana presente sul mercato mondiale, ad esempio, questo significava modificare il modo in cui accostarsi ai rappresentanti di una banca sudamericana.8-11 Come disse lui stesso, «ho molti fondi che vanno avanti e indietro, e la banca vi ha un ruolo importante; in Sud America i legami di amicizia significano molto quando fai affari. Io volevo poter chiamare uno dei loro rappresentanti e dirgli "ehi, ho un problema", e che quello fosse disponibile a lavorare con noi per finire il lavoro». La sua tattica: un lungo incontro senza fretta, innaffiato di caffè, con diversi rappresentanti-chiave, nel corso del quale parlarono di sé, delle loro famiglie, della loro vita – e non solo di affari.

Analogamente, il rappresentante di un'industria manifatturiera mi spiega: «Quando vai da un cliente, la prima cosa che fai è di scandagliare il suo ufficio per cogliere qualcosa di cui lui sia entusiasta e appassionato, ed è proprio da lì che cominci la conversazione». Il suo approccio dà per scontato che la costruzione di un rapporto debba necessariamente precedere l'opera di persuasione. Come raccontò un bravissimo venditore, «a volte significa che entro senza la valigetta e dico "Ehi, come butta oggi? Vi va un hotdog dal tizio giù all'angolo? Andiamo a farcelo insieme". E so benissimo che se vado a incontrare l'uomo in jeans e camicia di flanella certo non mi metterò l'abito elegante col panciotto».8-12  

Ritroviamo tattiche di persuasione simili nel dirigente che sta cercando di trovare qualcuno disposto ad accettare un lavoro che richiede il trasferimento in un'altra città: sa che la potenziale candidata ama la vela – e così le mostra il porticciolo locale; poi punta sull'amore di suo marito per l'equitazione, e lo presenta a degli amici che vanno a cavallo, in modo che anche lui sarà favorevole al trasferimento.

La persuasione è agevolata dall'identificare un legame o qualcosa in comune; pertanto, prendersi del tempo per stabilire quel legame non è una digressione, ma un passo essenziale verso l'obiettivo. L'annuncio di un cambiamento da parte di un direttore generale distante e in larga misura invisibile, può avere un potere persuasivo meno immediato dello stesso messaggio emesso da qualcuno con cui i dipendenti abbiano un contatto quotidiano. Una strategia per diffondere il cambiamento in un'organizzazione grande ed estesa, allora, è quella di servirsi di reti di leader locali – le persone all'interno di un gruppo di lavoro che tutti conoscono, amano e rispettano.8-13  

Ai massimi livelli di efficacia, gli individui più abili nelle arti dell'influenza si affidano a strategie indirette, in modo che la loro mano sia pressoché invisibile. Essi fanno in modo che a discutere i punti cruciali, stabilendo catene di influenza, sia una terza parte; costruiscono dietro le quinte coalizioni efficaci che assicurino il loro appoggio; correggono la presentazione dell'informazione in modo impercettibile, così che tutti arrivino, facilmente e spontaneamente, a dare il consenso desiderato.

La regola empirica è che la costruzione del consenso è essenziale, ma questa massima finisce per essere ignorata in misura sorprendente. In uno studio sulle decisioni strategiche prese da 356 compagnie americane, più della metà di esse non venne mai adottata, fu realizzata soltanto parzialmente o abbandonata fin dal principio.8-14  

La ragione di fallimento più comune di questi piani era da ricercarsi in dirigenti autoritari che cercavano di imporre le proprie idee invece di circondarsi di consenso. Nel 58 per cento dei molti casi in cui venne adottato un approccio autoritario il risultato fu un fallimento. Ma se i dirigenti conferivano con i colleghi per ripensare con loro le priorità a lungo termine, il piano strategico risultante veniva adottato nel 96 per cento dei casi. Come dice Paul McNutt, professore di management presso la Ohio State University e autore dello studio, «se coinvolgi gli altri almeno in alcuni passaggi del processo, essi diventeranno i tuoi missionari».

Non riuscire a convincere

La manifestazione di beneficenza era per una buona causa: il miglioramento di una scuola materna per i figli di madri lavoratrici single e prive di mezzi. Un'artista del luogo di una certa rinomanza a livello nazionale aveva invitato circa un centinaio di amici a una mostra dei suoi lavori più recenti, e c'era anche un raffinato buffet offerto da diversi ristoranti. Dopo mangiato, l'ospite riunì tutti nel prato e presentò loro la direttrice dell'organizzazione che gestiva la scuola, la quale esordì con un dettagliato resoconto degli eventi della sua vita che l'avevano portata a fare il suo lavoro attuale. Poi la donna si lanciò, senza perdere un colpo, nel racconto della nascita della scuola. Dopo di che andò avanti addentrandosi in tutta la storia dell'istituto – in quelli che per il pubblico risultarono strazianti dettagli.

Un discorso che avrebbe potuto essere efficace se fosse durato dieci minuti andò avanti per quasi un'ora. E ancora non aveva presentato il gruppo delle madri e delle insegnanti, ciascuna delle quali avrebbe dovuto dire qualche parola.

Il pubblico, che al principio era ben disposto, cominciò a spostarsi lentamente altrove. Nel frattempo era arrivato il crepuscolo, accompagnato da sciami di zanzare.

Alla fine, il marito dell'organizzatrice, un signore anziano un po' scorbutico, si alzò ostentatamente, passò in mezzo al pubblico e si diresse a grandi passi al tavolo dei dolci strillando: «Troppi dettagli! Qui le torte collassano!»

Con ciò, ogni parvenza di attenzione da parte degli astanti venne meno e tutti fecero rotta verso i dessert.

Le persone che, nonostante le migliori intenzioni, non riescono a sintonizzarsi emotivamente con il proprio pubblico sono al livello più basso delle arti dell'influenza: possono avere buone intenzioni, ma mancano dei mezzi per far arrivare il proprio messaggio. In quel particolare momento, la secca critica dell'anziano bisbetico conquistò il cuore del pubblico molto meglio della prolissa direttrice.

Coloro che si affidano troppo agli effetti persuasivi di elaborate proiezioni o eleganti analisi statistiche possono anch'essi lasciarsi sfuggire un'occasione. Il pubblico deve essere emotivamente interessato; gli oratori mediocri raramente si spingono oltre un'arida litania di fatti o dati, per quanto vistosamente presentati, e non prenderanno mai in considerazione la temperatura emotiva del proprio pubblico. Ma se non si compie un'accurata, tempestiva, lettura del modo in cui un ascoltatore accoglie un'idea, quest'ultima corre il rischio di cadere su orecchie sorde, indifferenti o addirittura ostili.

Non importa quanto siamo brillanti dal punto di vista intellettuale: la nostra intelligenza non riuscirà a risplendere se non saremo persuasivi. Questo è vero soprattutto in campi nei quali l'ingresso è subordinato al superamento di grandi ostacoli in termini di abilità cognitive, ad esempio l'ingegneria e la scienza, la medicina e la legge, e in genere le posizioni ai vertici. Come mi spiegò il direttore delle ricerche presso uno dei maggiori studi di intermediazione finanziaria di Wall Street, «per fare il nostro mestiere bisogna essere molto bravi con i numeri. Ma per far andare le cose come si vuole, questo proprio non basta: bisogna essere capaci di persuadere».

I comuni sintomi di una debolezza nelle capacità di persuasione comprendono:

• L'incapacità di costruire una coalizione o di convincere

• Un eccessivo affidamento su una strategia familiare invece di scegliere quella migliore per la situazione contingente

• L'ottusa promozione di un punto di vista indipendentemente dal feedback che se ne è ricevuto

• Il lasciarsi ignorare o non riuscire a ispirare interesse

• Avere un impatto negativo

Il manipolatore machiavellico

Per quest'uomo, le apparenze erano tutto; sposato a una donna di nobile famiglia, lui stesso era estremamente raffinato dal punto di vista sociale. Come dirigente di alto livello in una dinastia industriale tedesca, era responsabile di una divisione le cui entrate annuali superavano il miliardo di dollari. Ma quando era sul lavoro, concentrava tutto il suo considerevole fascino verso l'alto – verso il suo superiore – e verso l'esterno, per fare impressione su quelli che incontrava. Ma con i sottoposti si comportava come un piccolo tiranno che maltrattava i suoi schiavi.

«Quando lo incontravi sapeva essere assolutamente piacevole, ma le persone che lavoravano per lui ne avevano paura», mi disse un consulente esterno che era stato chiamato per dare una valutazione imparziale del dirigente. «Non aveva alcun rispetto per i sottoposti. In caso di basso rendimento, faceva delle scenate, mentre di fronte a prestazioni di alto livello taceva. Demoralizzava i dipendenti. Alla fine, il direttore generale gli chiese di dimettersi – ma poiché faceva un'ottima prima impressione, approdò immediatamente a un altro lavoro di alto profilo.»

L'abile dirigente tedesco esemplifica un tipo di persona che ha maggiori probabilità di prosperare in organizzazioni con un orientamento politico piuttosto che in quelle che mirano alla prestazione. Costoro «sono efficaci verso l'alto ma mediocri verso il basso, perché in realtà non gliene importa nulla», mi disse il consulente. «Spesso sono egocentrici, non amano la gente e si sentono in obbligo solo verso se stessi, non verso l'organizzazione.»

Il fascino e il lustro sociale, di per se stessi, non contribuiscono alla competenza dell'influenza; il fatto di mettere le abilità sociali al servizio di se stessi, e a svantaggio del gruppo nel suo complesso, viene presto o tardi riconosciuto come una simulazione. La vera arte dell'influenza, intesa come competenza positiva, è molto diversa dall'impulso machiavellico mirato al raggiungimento del successo personale a tutti i costi. In altre parole, il potere esibito nell'arte dell'influenza è un potere socializzato, in armonia con l'obiettivo collettivo, e non finalizzato a egoistici interessi individuali.

Come si afferma in uno studio sull'arte dell'influenza condotto in quasi trecento organizzazioni, «abbiamo scoperto che gli individui capaci delle prestazioni migliori non inseguono status, prestigio o guadagno personali alle spese degli altri o dell'organizzazione».8-15  

Canali sgombri

COMUNICAZIONE
Ascoltare apertamente e inviare messaggi convincenti 

Le persone dotate di questa competenza:

• Sono efficaci negli scambi e tengono conto degli indizi emotivi nel sintonizzare il proprio messaggio sul pubblico

• Trattano problemi difficili in modo semplice e diretto

• Ascoltano bene, cercano la reciproca comprensione e accolgono volentieri la possibilità di una completa condivisione delle informazioni

• Alimentano un'atmosfera di aperta comunicazione e si mantengono recettivi alle buone come alle cattive notizie

Per Bill Gates, alla Microsoft, si tratta di un indirizzo e-mail; per Martin Edelston, presidente della Boardroom Inc., è una cassetta per i suggerimenti di vecchio stampo. E per Jerry Kalov, direttore generale della Cobra Electronics, è una linea telefonica interna nota solo ai dipendenti. Le chiamate su quel numero confidenziale sono prioritarie: Kalov risponde ogni volta che il telefono suona.

Tutti questi canali di informazione rappresentano una risposta al dilemma di ogni capo: «non sarà che invece di quello che devo sapere, mi dicono solo ciò che vogliono farmi sentire?» Kalov ebbe l'idea della sua linea telefonica assai prima di arrivare ai vertici dell'azienda.8-16 «Molto spesso c'erano delle cose che volevo dire, ma il mio immediato superiore non voleva che lo facessi perché desiderava prendersi lui tutto il merito», ricorda Kalov. «Oppure può anche darsi che non fosse d'accordo con la mia opinione. Così io sapevo di avere delle buone idee, o comunque delle cose da dire, ma non potevo entrare in contatto… Chi può dire da dove verrà fuori la prossima idea brillante?»

La linea telefonica, aggiunge Kalov, funziona meglio della tattica di andarsene in giro a discutere con i dipendenti: il fatto di essere visti a parlare con un alto dirigente, infatti, li può imbarazzare, oppure possono essere troppo timidi per accostarglisi. La linea telefonica offre discrezione e confidenzialità, il che incoraggia comunicazioni anche audaci.

Questi canali aperti si rivelano proficui. Un appunto lasciato nella cassetta dei suggerimenti di Edelston da un dipendente di basso livello – uno che in condizioni normali non avrebbe mai avuto l'opportunità di parlargli – fece risparmiare alla compagnia mezzo milione di dollari l'anno. L'osservazione veniva da un impiegato addetto alle spedizioni, che suggeriva di mantenere gli invii al di sotto del limite delle tariffe postali di due chilogrammi. Riducendo di un ottavo le dimensioni dei libri spediti dalla compagnia, i risparmi cumulativi furono enormemente significativi.

Creare un'atmosfera di apertura non è un gesto trascurabile. La maggior lamentela dei lavoratori americani è di avere scarse comunicazioni con il management; due terzi di essi sostengono che ciò impedisce loro di dare il meglio sul lavoro.8-17  

«Direi che quando si comunica apertamente con le persone, si scopre il loro valore», mi disse Mark Loehr, managing director presso la Salomon Smith Barney. «Quando comunichi apertamente, ti metti in condizione di ottenere il meglio dalle persone – la loro energia, la loro creatività. Ma se non lo fai, si sentiranno come i denti dell'ingranaggio di una macchina: inceppati e infelici.»

Stato d'animo e significato

«Il mio capo, anche lei donna, trattiene le sue emozioni», si lamenta una account manager presso una compagnia che lavora nel settore dei media e fattura due miliardi di dollari l'anno. «Non loda mai quello che faccio. Ho appena convinto un cliente molto importante a passare da circa 300.000 dollari a quasi il doppio di fatturazione annua. Quando lo dissi al mio capo, la sua risposta non fu: "Hai fatto un lavoro fantastico", ma "Certo che hanno accettato l'offerta, era un ottimo affare". Nella sua voce non traspariva alcun sentimento, nessun calore o entusiasmo. Poi, semplicemente, se ne andò. Quando parlai agli altri sales manager dei miei risultati, mi fecero moltissimi complimenti. Era la più grande vendita che avessi mai fatto, ma lei proprio non riconosceva tutto il lavoro a cui mi ero sobbarcata per chiudere l'affare.»

La donna continua: «Avevo cominciato a pensare che ci fosse qualcosa di sbagliato in me, ma moltissime altre persone provano la stessa sensazione: non mostra mai sentimenti positivi, non ti incoraggia mai – nelle piccole come nelle grandi cose… Il nostro team è produttivo, ma non abbiamo alcun legame con lei».

Essere un abile comunicatore è la chiave di volta di tutte le capacità sociali. Fra i manager, la competenza nella comunicazione è un importantissimo fattore distintivo che separa gli individui che eccellono da quelli mediocri o decisamente deludenti; la mancanza di questa abilità, così come l'abbiamo constatata nel capo dell'account manager di cui abbiamo parlato, può far colare a picco il morale.

Saper ascoltare bene – la chiave dell'empatia – è essenziale anche per la competenza della comunicazione. Le capacità di ascolto – ossia il porre domande perspicaci, essere aperti e comprensivi, non interrompere, cercare suggerimenti – rendono conto di circa un terzo della valutazione, data dai colleghi, delle capacità di comunicazione di qualcuno con cui lavorano.8-18 Comprensibilmente, l'arte dell'ascolto è fra le competenze più spesso oggetto di training.

Un altro requisito essenziale per una buona comunicazione è di saper tenere sotto controllo i propri stati d'animo. Uno studio su 130 dirigenti di vario livello ha rilevato che la loro capacità di controllare le proprie emozioni determinava la misura in cui gli altri avevano piacere a trattare con loro.8-19 Nel trattare con colleghi e subordinati, la calma e la pazienza erano le abilità fondamentali. Anche i capi preferivano trattare con dipendenti che non fossero apertamente aggressivi nei loro confronti.

Non importa in quale stato d'animo ci troviamo – l'importante è comunque assumere un atteggiamento equilibrato. Puntare a uno stato d'animo neutro è la migliore strategia in previsione dell'interazione con qualcuno, se non altro perché fa di noi una sorta di tabula rasa emozionale, e quindi ci consente di adattarci a ciò che la situazione richiede.8-20 E come mettere un'auto in folle, in modo che si possa più rapidamente passare in retromarcia, in prima o in quarta, a seconda delle esigenze del tracciato. Uno stato d'animo neutrale ci prepara a un più completo coinvolgimento, in altre parole, a essere presenti alla situazione invece che emotivamente lontani.

Mantenere la calma

Essere presi da uno stato d'animo potente e non desiderato è una sorta di blocco stradale che si frappone fra noi e la possibilità di interagire armoniosamente con gli altri. Se cominciamo una conversazione mentre siamo distolti da un stato d'animo invasivo, l'altro probabilmente ci percepisce poco disponibili o, per usare la definizione del sociologo Irving Goffman, «assenti» – impegnati nella conversazione soltanto in superficie, mentre siamo ovviamente distratti.8-21  

La capacità di «stare calmi» ci aiuta a mettere le preoccupazioni da parte per un certo tempo, mantenendo la flessibilità delle nostre risposte emotive. Questa caratteristica è apprezzata ovunque in tutto il mondo, anche in culture che in situazioni specifiche preferiscono l'eccitazione alla calma.8-22 Le persone che riescono a essere padrone di sé in situazioni d'emergenza o di fronte al panico e al turbamento di qualcun altro hanno un rassicurante senso di autocontrollo, entrano senza problemi in una conversazione e vi restano efficacemente coinvolti. Invece, chi è appesantito dalle proprie emozioni è molto meno disponibile a ciò che il particolare momento potrebbe richiedere.

Uno studio condotto su manager di medio e alto livello rivelò che un aspetto comune fra gli individui ritenuti i migliori comunicatori era la loro capacità di adottare un modo di fare calmo, composto e paziente, indipendentemente dalle emozioni che gli si agitavano dentro.8-23 Costoro riuscivano a mettere da parte gli imperativi dei propri sentimenti – anche quando erano tumultuosi – in modo da rendersi completamente disponibili per l'interlocutore. Di conseguenza, questi manager sapevano prendersi tutto il tempo necessario per raccogliere informazioni essenziali e trovavano il modo per essere d'aiuto, così da poter offrire un feedback costruttivo. Invece di essere distanti o aggressivi, tendevano a essere specifici su quanto andava bene e quanto andava male, come pure sul modo di confermare gli aspetti positivi correggendo quelli negativi. Durante tutti i loro scambi esercitavano il controllo emotivo e mantenevano la calma, in modo da restare aperti a quello che stavano ascoltando, adeguando accuratamente le proprie reazioni senza assumere un approccio «universale», rivolto indiscriminatamente a chiunque.

Essere socialmente espansivi ed estroversi non è di per se stesso una garanzia di abilità nella comunicazione. Ciò che in una cultura costituisce una comunicazione efficace, ad esempio, può fallire miserabilmente in un'altra.

A volte un'interazione efficace implica che si dia scarso risalto alla propria presenza. Ad esempio, in un albergo d'élite negli Stati Uniti sudoccidentali l'efficacia dei membri dello staff era correlata negativamente a un'elevata estroversione. In un ambiente così esclusivo, gli ospiti percepivano come invadenti i tipi troppo loquaci ed espansivi. Essi desideravano la propria privacy e i membri dello staff troppo ciarlieri invadevano quello spazio. L'alto livello di servizio richiesto ai membri dello staff comportava che all'occorrenza essi fossero amichevoli e servizievoli con gli ospiti, ma che altrimenti tornassero a confondersi sullo sfondo dando poco nell'occhio.8-24  

Risolvere il problema

GESTIONE DEL CONFLITTO
Negoziane risolvere i conflitti 

Le persone con questa competenza:

• Sanno guidare persone difficili e gestire situazioni cariche di tensione con tatto e diplomazia

• Individuano il potenziale conflitto, portano alla luce i motivi del disaccordo e contribuiscono a smorzarne i toni

• Incoraggiano il dibattito e la discussione aperta

• Trovano soluzioni in cui entrambe le parti escano vittoriose

«Un banchiere voleva vendere a degli investitori una compagnia mineraria impegnata nell'estrazione del rame, e aveva bisogno che un ricercatore esperto del settore gli scrivesse un rapporto, in modo da convincere i propri venditori a proporre l'affare ai potenziali acquirenti. Il ricercatore rifiutò recisamente, e il banchiere ci rimase molto male. E poiché io sono direttore della ricerca venne a lamentarsi da me», mi racconta Mark Loehr della Salomon Smith Barney.

«Andai dal ricercatore, che mi raccontò di essere sopraffatto dagli impegni. Stava già lavorando dalle settanta alle ottanta ore alla settimana, entro la fine del mese doveva finire analisi per diciotto compagnie, fare un centinaio di telefonate e partecipare ad alcuni incontri a Boston – e il rapporto richiesto dal banchiere gli avrebbe preso altre quaranta ore di lavoro. Dopo che avemmo parlato, tornò dal banchiere e gli spiegò quanto fosse oberato di impegni, ma aggiunse anche: "Se proprio vuole che lo faccia, lo farò".

«Quando il banchiere capì la difficile situazione del ricercatore, decise di trovare un altro sistema per arrivare al suo scopo. Tuttavia, fra loro avrebbe potuto esserci una rottura. Tutti sono talmente occupati e sopraffatti dal lavoro che le loro capacità di ascolto si riducono a zero. Tendono semplicemente ad assumere che nessuno sia impegnato come loro, e di conseguenza avanzano pretese urgenti.

«È difficilissimo riuscire a fare in modo che la gente si prenda il tempo per ascoltare davvero; qui non si tratta solo di essere gentili – finché non si diventa discreti ascoltatori, finché non si percepisce ciò che l'altra persona sta attraversando, non si può essere in grado di dare suggerimenti ragionevoli, né di escogitare qualcosa che l'altro trovi accettabile.»

Uno dei talenti degli abili risolutori di conflitti è il saper individuare il problema mentre sta ancora fermentando, così da prendere le misure necessarie per calmare le persone coinvolte. Qui, come indica Loehr, le arti dell'ascolto e dell'empatia sono essenziali: una volta che il banchiere ebbe capito la prospettiva del ricercatore, divenne più accomodante – e il conflitto si spense.

Questo tatto e questa diplomazia sono qualità essenziali per avere successo in posizioni delicate come la revisione dei conti, il lavoro di polizia o la mediazione – o comunque in qualsiasi attività in cui le persone dipendano le une dalle altre mentre sono sotto pressione. Una delle competenze ricercate dal governo degli Stati Uniti nei funzionari che effettuano le verifiche fiscali, ad esempio, è la capacità di presentare una posizione impopolare in modo da non creare ostilità e preservando la dignità dell'altro. La parola per indicare questa capacità è tatto. All'American Express, le capacità di individuare potenziali fonti di conflitto, di assumersi la responsabilità del proprio ruolo, di scusarsi quando occorre e di impegnarsi apertamente in una discussione dei reciproci punti di vista, sono tutte qualità considerate molto importanti per i consulenti.

Leggere i segnali

Charlene Barshefky, dopo mesi e mesi di negoziati, era finalmente riuscita a ottenere che il governo cinese acconsentisse a dare un giro di vite contro la pirateria di cui erano bersaglio film, compact disk e software americani. Come aveva fatto? Barshefsky aveva rifiutato di accettare la loro «ultima» offerta – l'ultima di una lunga serie, secondo lei tutte inadeguate. Stavolta, però, il capo della delegazione cinese la ringraziò per il suo lavoro, le disse che le avrebbe dato una risposta in seguito e scrollò leggermente le spalle all'indietro. Quel gesto semplice e quasi impercettibile indicava che Barshefsky si era conquistata la loro cooperazione.

Quel giorno Barshefsky aveva studiato attentamente il volto di ogni membro della delegazione seduto dall'altra parte del tavolo, e aveva percepito molta meno ostilità di quanta ce ne fosse stata in precedenza, durante le estenuanti, tediose, trattative. Quel giorno, i suoi interlocutori erano silenziosi e fecero poche domande: un cospicuo cambiamento rispetto al dialogo combattivo e provocatorio che aveva caratterizzato la prima parte del negoziato.

L'interpretazione che Barshefsky aveva dato di questi sottili segnali doveva dimostrarsi esatta: da quel momento la delegazione cinese smise di combattere e cominciò a muoversi verso l'accordo commerciale successivamente firmato dai due paesi.8-25  

In un negoziato, questa capacità di leggere i sentimenti della controparte è fondamentale ai fini del successo. Come dice uno dei miei avvocati, Robert Freedman, a proposito delle trattative contrattuali, «è una questione principalmente psicologica. I contratti hanno una valenza emozionale: non conta solo quello che esprimono le parole, ma anche il modo in cui le parti pensano e si sentono relativamente a quelle parole».

Chi è padrone dell'arte della trattativa si rende conto della natura di ogni negoziato, che presenta sempre una valenza emotiva. I migliori negoziatori sanno percepire quali punti contano di più per la controparte e faranno delle gentili concessioni su quelli – premendo per ottenerne a loro volta su clausole che non abbiano lo stesso peso emotivo. Tutto questo richiede empatia.

L'abilità nei negoziati è ovviamente importante per eccellere nelle professioni in campo legale e diplomatico. In una certa misura, però, chiunque lavori in un'organizzazione ha bisogno di questa capacità; coloro che sanno risolvere il conflitto e prevenire i problemi appartengono a quel genere di pacificatori vitali per qualsiasi organizzazione.

In un certo senso, un negoziato può essere considerato come un esercizio collettivo di risoluzione di problemi, dal momento che il conflitto interessa entrambe le parti. Ovviamente, il negoziato ha motivo di essere perché ogni parte coinvolta ha i propri interessi e le proprie prospettive e desidera convincere l'altra a capitolare. D'altra parte, il fatto stesso di accettare il negoziato costituisce un'ammissione del fatto che esiste un problema comune per il quale potrebbe esserci una soluzione soddisfacente per tutti. In questo senso un negoziato è un'avventura cooperativa, non solo competitiva. Infatti, come sottolinea Herbert Kelman, uno psicologo di Harvard specializzato in negoziati, è lo stesso processo della trattativa a ripristinare la cooperazione fra le parti in conflitto. Il fatto di risolvere insieme i propri problemi trasforma la relazione.8-26  

Questa soluzione richiede che ogni parte interessata sia in grado di comprendere non solo il punto di vista dell'altro, ma anche le sue esigenze e i suoi timori. Tale empatia, osserva Kelman, rende ciascuna delle parti «più capace di influenzare l'altra a proprio beneficio, essendo sensibile alle sue esigenze – in altre parole, la rende più abile a trovare il modo in cui entrambi i contraenti possano uscire vittoriosi dalla trattativa».

Canali per il negoziato

Negoziati – prevalentemente informali – hanno luogo in continuazione. Prendiamo, ad esempio, quello fra un fabbricante e i dettaglianti che vendono i suoi prodotti: «Sono stato tagliato fuori dalla vendita di una delle nostre principali linee di bigiotteria», spiegava il proprietario di una boutique. «Volevo negoziare un accordo migliore con il distributore – siamo stati un buon punto vendita per loro. Ma quello aveva ricevuto un'offerta migliore da un altro negozio dalla parte opposta della città: così io gli feci una controproposta. Ma è stato l'altro negozio ad aggiudicarsi l'esclusiva – loro desiderano un solo punto vendita in una città di queste dimensioni. Perciò ora sono in disgrazia.»

I canali di distribuzione sono essenziali per la stessa sopravvivenza dei fabbricanti, proprio allo stesso modo in cui i dettaglianti dipendono dai produttori per disporre della merce da vendere. Ma ciascuna delle due parti ha una serie di partner fra i quali scegliere. Il risultato è un negoziato continuo su problemi quali i margini di vendita, i termini di pagamento e la puntualità delle consegne.

La maggior parte di queste «relazioni con i canali» sono a lungo termine e simbiontiche. E in ogni relazione a lungo termine, di tanto in tanto, i problemi affiorano e ribollono in superficie. Quando ciò accade, le parti coinvolte sull'uno o l'altro fronte delle dispute fabbricante-dettagliante ricorrono solitamente a un tipo di negoziato fra tre possibili: la risoluzione di problemi, nella quale le parti cercano di trovare la soluzione che funzioni meglio per entrambe; il compromesso, in cui entrambe le parti cedono più o meno nella stessa misura, indipendentemente da quanto ciò realmente serva alle loro esigenze; e l'aggressione, in cui una delle due parti costringe l'altra a concessioni unilaterali.

In un'indagine sui responsabili degli acquisti nelle catene di grandi magazzini, ciascuno dei quali manovrava merci di valore compreso fra i 15 e i 30 milioni di dollari, lo stile del negoziato adottato risultò uno strumento preciso per giudicare la salute della relazione fabbricante-rivenditore.8-27 Com'era prevedibile, negoziati aggressivi, imperniati su minacce e pretese, non facevano presagire nulla di buono per la continuazione della relazione; i compratori finivano amareggiati e insoddisfatti e spesso abbandonavano la linea di prodotti. Ma nel caso di relazioni dalle quali l'aggressività era bandita a favore di strategie come la risoluzione di problemi o il compromesso, la longevità del rapporto aumentava.

Le minacce e le pretese avvelenano le acque del negoziato. Come ha dimostrato l'indagine, anche quando una delle due parti è molto più potente dell'altra, uno spirito magnanimo può rappresentare, sulla lunga distanza, una strategia vincente, soprattutto quando il rapporto d'affari è destinato a continuare. Questo sembra spiegare come mai, perfino quando il dettagliante dipendeva completamente da un singolo fabbricante, molto spesso i negoziati non assumevano una piega di coercizione: dato il desiderio di stabilire una relazione a lungo termine e la reciproca dipendenza delle partì, era sempre preferibile uno spirito di cooperazione.

Risolvere il conflitto con creatività

Una sera, Linda Lantieri stava camminando lungo un isolato squallido e pericoloso, costeggiato da edifici abbandonati coperti da impalcature, quando improvvisamente si ritrovò circondata da tre ragazzi sui quattordici anni, sbucati dal nulla. Mentre si avvicinavano, uno di essi estrasse un coltello con una lama da dieci centimetri.

«Dammi il portafoglio! Muoviti!» le sibilò il giovane con il coltello.

Sebbene spaventata, Lantieri ebbe la presenza di spirito di fare qualche respiro profondo e di replicare con calma: «Mi sento un po' a disagio. Sapete gente – mi state un po' troppo vicini. Mi chiedevo se poteste andare un po' indietro».

Lantieri studiava il marciapiede, e con sua sorpresa vide tre paia di scarpe da ginnastica fare qualche passo indietro. «Grazie», disse allora, e poi continuò: «Ora vorrei fare quello che mi avete appena detto, ma a dir la verità, quel coltello mi rende un tantino nervosa. Non è che potreste metterlo via?»

Dopo quella che sembrò un'eternità di silenzio e incertezza, il coltello tornò in una tasca.

Raggiungendo rapidamente il portafoglio, Lantieri tirò fuori una banconota da 20 dollari, incrociò lo sguardo del ragazzo col coltello e chiese: «A chi devo darli?»

«A me», ribatté quello.

Lanciando un'occhiata agli altri due, Lantieri chiese loro se fossero d'accordo. Uno dei due annuì.

«Splendido» disse lei, allungando al capo i venti dollari. «E adesso ecco quel che faremo. Io me ne starò ferma qui mentre voi ve ne andrete.»

Con uno sguardo sconcertato dipinto sul volto, i ragazzi cominciarono ad allontanarsi lentamente, voltandosi indietro a guardare Lantieri – e poi si misero a correre. Erano loro a scappare da lei. 

In un certo senso questo ribaltamento delle carte in tavola – un piccolo miracolo – non dovrebbe sorprendere più di tanto: Lantieri è fondatrice e direttrice del Resolving Conflict Creatively Program, che insegna queste abilità nelle scuole. Lantieri è completamente immersa nelle arti del negoziato e della gestione amichevole dei conflitti.8-28 Sebbene abbia appreso il suo mestiere nella sua veste di insegnante – per qualche tempo ha lavorato in una scuola di Harlem non lontano dallo squallido isolato di quella sera – oggi trasmette queste capacità ad altri, in più di quattrocento scuole in tutti gli Stati Uniti.

Lantieri non si limita semplicemente a promuovere l'educazione nel campo della risoluzione dei conflitti: in primo luogo ella convince i consigli scolastici scettici ad approvare il suo programma. Quando il consiglio scolastico di una città della California rimase paralizzato da due fazioni che si accapigliavano, entrambe le partì rimasero così impressionate dalle sue capacità di negoziato che le chiesero di intervenire e di aiutarle a sanare la frattura.

La prestazione da maestro di Lantieri sulle strade di Harlem illustra alcune classiche mosse utili per smorzare i conflitti:

• Prima di tutto calmarsi, sintonizzarsi sui propri sentimenti ed esprimerli

• Dimostrare la propria disponibilità a risolvere la situazione parlando del problema, invece di esacerbarla manifestando una maggiore aggressività

• Esporre il proprio punto di vista, in un linguaggio neutrale invece che con toni polemici

• Cercare di trovare un modo giusto per risolvere la disputa, collaborando per trovare una soluzione accettabile da entrambe le parti.

Queste strategie sono equivalenti a quelle in cui entrambe le parti escono vittoriose, sposate dagli esperti del Center for Negotìation di Harvard. Tuttavia, sebbene l'uso di queste strategie possa sembrar semplice, metterle in pratica in modo brillante come fece Lantieri richiede competenze emozionali quali l'autoconsapevolezza, la fiducia in se stessi, l'autocontrollo e l'empatia. Occorre ricordare che l'empatia non deve necessariamente portare al cedimento, dettato dalla comprensione, alle pretese della controparte – sapere come si sente qualcuno non significa essere d'accordo con lui. D'altra parte, eliminare tutta l'empatia può portare a posizioni contrapposte e a vicoli ciechi.

Al timone

LEADERSHIP
Ispirare e guidare individui o gruppi 

Le persone con questa competenza:

• Esprimono e suscitano entusiasmo per un ideale comune e una missione condivisa

• Indipendentemente dalla propria posizione, quando occorre, assumono la guida del gruppo

• Pur ritenendo gli altri responsabili, guidano la loro prestazione

• Esercitano la leadership dando l'esempio

Ecco un contrasto di stile nella leadership straordinariamente istruttivo – quello fra Ronald W. Alien (ex direttore generale della Delta Airways) e Gerald Grinstein (ex direttore generale delle Western Airlines e della linea ferroviaria Burlington Northern).8-29  

Grinstein, di formazione avvocato, è un virtuoso nell'instaurare rapporti con i suoi dipendenti e nell'usare la sintonia emotiva così creatasi per persuaderli. Come direttore generale delle Western Airlines – una società che egli prese in mano nel 1985, quando era in un periodo di crisi – passò centinaia di ore nelle cabine di pilotaggio, dietro i banconi del check-in e tra i nastri trasportatori dei bagagli per conoscere i suoi dipendenti.

Il rapporto che egli costruì con loro fu essenziale per convincere i dipendenti delle Western Airlines ad acconsentire ad alcune concessioni sulle condizioni di lavoro come pure ad accettare dei tagli salariali – il tutto in cambio della sua promessa di fare della compagnia una società solvente nella quale essi avrebbero avuto maggiore partecipazione agli utili. Forte di quelle concessioni, la Western Airlines approdò a un solido bilancio in attivo e dopo soli due anni Grinstein poté cederla alla Delta per 860 milioni di dollari.

Nel 1987, diventato direttore generale della linea ferroviaria Burlington Northern – anch'essa in difficoltà finanziarie – Grinstein mise ancora una volta in atto il suo incantesimo interpersonale. Fece arrivare in aereo un gruppo selezionato di operai della manutenzione, segretarie ed equipaggi dei treni: gente proveniente da tutto il paese, riunita alla sede centrale di Forth Worth per cenare con lui. Grinstein viaggiò sulle rotte della compagnia parlando con gli equipaggi dei treni – sempre cercando, con successo, di convincerli ad accettare i suoi piani di tagli ai costì.

Come osservò un intimo amico di Grinstein riguardo al suo stile di leadership: «Non devi necessariamente fare il figlio di puttana per essere un duro».

Sebbene, quando ne aveva assunto la direzione, la linea ferroviaria fosse gravata da un debito di tre miliardi di dollari, Grinstein ribaltò la situazione. E nel 1995, quando la Burlington Northern acquistò la Santa Fe Pacific, diede vita alla più grande rete ferroviaria statunitense.

Riflettiamo ora invece sulla storia di Ronald W. Alien, direttore generale della Delta Airlines, licenziato dal suo consiglio d'amministrazione nell'aprile del 1997 nonostante la compagnia stesse attraversando un periodo di profitti da record.

Ronald W. Alien fece carriera e divenne direttore generale nel 1987, prendendo il timone della Delta proprio in coincidenza con la deregulation nel settore delle linee aeree. Il suo piano strategico era quello di diventare più competitivi sul mercato mondiale; nel 1991 acquistò la Pan American World Airways, che aveva appena fatto bancarotta, per guadagnarsi l'accesso alle sue rotte europee. Questo doveva poi rivelarsi un calcolo errato, e portò la Delta ad assumersi un debito enorme proprio quando i profitti dell'intero settore stavano subendo una brusca flessione. In ciascuno dei tre anni successivi all'acquisto della Pan Am, la Delta, che in passato era sempre stata in attivo, andò accumulando 500 milioni di dollari di debiti.

Tuttavia non fu questa disastrosa decisione finanziaria l'errore che costò ad Alien il posto. Egli reagì ai tempi difficili diventando un capo duro, quasi spietato. Si fece la reputazione di uno che umiliava i subalterni riprendendoli in presenza di altri dipendenti. Zittiva l'opposizione fra gli alti dirigenti, arrivando addirittura al punto di sostituire il responsabile finanziario – l'unica persona che avesse espresso il proprio aperto dissenso per l'acquisizione della Pan American. Un altro dirigente (con il quale Alien era stato in competizione per la direzione generale) annunciò che era sul punto di diventare presidente della Continental Airlines. Dicono che Alien abbia reagito chiedendogli di restituire immediatamente, sui due piedi, le chiavi della macchina dirigenziale della compagnia, costringendolo a trovarsi un altro mezzo per tornare a casa.

A parte questa meschinità, il principale errore di Alien fu la sua spietatezza nel procedere ai tagli dei posti di lavoro. Alien licenziò 12.000 dipendenti, circa un terzo della forza lavoro totale della Delta; alcune di quelle posizioni rappresentavano senza dubbio, per così dire, il grasso superfluo dell'organizzazione – ma molte altre erano i suoi muscoli, la sua forza e i suoi centri nervosi. Insieme a questi drastici tagli, si verificò un crollo precipitoso nel livello del servizio ai clienti, un tempo invidiabile. Improvvisamente la Delta divenne una delle compagnie fatte più spesso oggetto di reclami di ogni tipo: dagli aerei sporchi e le partenze in ritardo, allo smarrimento dei bagagli. Insieme al grasso, Alien aveva spremuto fuori dalla compagnia anche il suo spirito.

I dipendenti della Delta erano sotto shock; in precedenza la compagnia non li aveva mai trattati così duramente. L'insicurezza e la rabbia crescevano. Anche dopo che i tagli ebbero riportato i conti in attivo, un'indagine condotta sui 25.000 dipendenti rimasti rivelò una forza lavoro scettica, spaventata e per metà ostile alla leadership di Alien.

Nell'ottobre del 1996, Alien ammise pubblicamente che la sua draconiana campagna di taglio dei costi aveva avuto effetti devastanti sulla forza lavoro della Delta. Ma il suo commento fu «So be it» – «e sia». Quello divenne il grido di battaglia dei dipendenti della Delta in agitazione; sulle uniformi di piloti, assistenti di volo e meccanici fiorirono spille con la frase «So be it».

Il contratto di Alien doveva essere rinnovato; il consiglio della Delta guardò oltre le cifre, prendendo in considerazione la salute complessiva della compagnia. La reputazione dell'eccellente servizio della Delta si era macchiata, i dirigenti di talento se ne stavano andando. E – cosa peggiore di tutte – il morale fra i dipendenti era pessimo.

E così il consiglio della Delta – guidato da Gerald Grinstein, ora suo membro – agì. A 55 anni, Alien – l'uomo che un tempo aveva avuto uh potere così grande da coprire le cariche di direttore, amministratore delegato e presidente – venne estromesso, in larga misura perché stava soffocando l'anima della compagnia.

La leadership come fonte di energia

Le storie di Robert W. Alien e Gerald Grinstein dimostrano che l'arte della leadership sta nel modo in cui una persona realizza i cambiamenti, non solo nel cambiamento in sé e per sé. Entrambi gli uomini si trovarono a dover attraversare il difficile processo del taglio dei costi, ma uno lo fece in modo da conservarsi la lealtà dei dipendenti mantenendone alto il morale, mentre l'altro sembrava aver demoralizzato e alienato un'intera forza lavoro.

L'artista della leadership è sintonizzato sulle impercettibili correnti sotterranee di emozioni che percorrono un gruppo, e sa leggere l'impatto che le proprie emozioni hanno su di esse. Uno dei modi in cui i leader affermano la propria credibilità è percependo questi sentimenti collettivi non verbalizzati ed esprimendoli per conto del gruppo, o comunque agendo in un modo tale da dimostrare implicitamente che essi sono stati compresi. In questo senso il leader è uno specchio, che riflette al gruppo la propria esperienza.

Il leader è però anche una fonte-chiave del tono emotivo dell'organizzazione. L'entusiasmo che emana da un leader può spingere un intero gruppo in quella direzione. Come ha detto Birgitta Wistrund, direttrice generale di una compagnia svedese, «esercitare la leadership significa infondere energia».

Questa trasmissione di energia emotiva consente ai leader di essere i timonieri di un'organizzazione, stabilendone rotta e direzione. A esempio, quando Lou Gerstner fu nominato direttore generale dell'IBM, sapeva che, per salvare la compagnia, avrebbe dovuto trasformarne la cultura interna. E questo, disse Gerstner, «non è una cosa che fai scrivendo memo. Devi fare appello alle emozioni della gente. Devono accettarlo nel cuore e nelle viscere, non solo nella mente».8-30  

In parte, l'abilità dei leader nell'ottenere questa accettazione si impernia sul modo in cui le emozioni fluiscono nel gruppo. Abbiamo già visto come, in un team, le emozioni si propaghino a partire dalla persona più espressiva. Ma questa abilità di trasmettere emozioni è amplificata in chi detiene il potere, dal momento che i membri di un team passano più tempo a osservare il proprio leader che chiunque altro. Questa attenzione amplifica l'impatto esercitato sul gruppo dallo stato d'animo del leader; una piccola modificazione dell'espressione facciale o del tono di voce in una figura di potere ha un impatto superiore a quello di una drammatica esibizione di sentimenti da parte di qualcuno che occupi una posizione meno potente.

Non solo le persone prestano più attenzione ai leader, ma tendono anche a imitarli. Si racconta che alla Microsoft, durante le riunioni, la gente si dondoli avanti e indietro mentre riflette o discute su un concetto – un omaggio non verbale a un'abitudine di Bill Gates. Questa sorta di mimetismo è un modo inconscio di dimostrare fedeltà e sintonia alla persona più potente di un gruppo.

Durante la sua presidenza, Ronald Reagan era conosciuto come «il grande comunicatore». Il potere emotivo del carisma di Reagan, che era un attore professionista, fu dimostrato da uno studio che analizzò come le espressioni del suo volto avessero influenzato quelle dei suoi ascoltatori nel corso di un dibattito con Walter Mondale, suo avversario nella campagna elettorale. Quando Reagan sorrideva, la gente che stava a guardarlo – anche in videoregistrazione – tendeva, a sua volta, a sorridere; quando si accigliava, altrettanto facevano gli spettatori. Mondale, che perse le elezioni, non aveva un analogo impattò emotivo, neppure sugli spettatori d'accordo con la sua linea.8-31  

La facilità con cui le emozioni si propagano da un leader ai membri del gruppo ha anche un aspetto negativo. Come dice il vecchio adagio, «il pesce va a male a partire dalla testa». Una leadership brutale, arrogante o arbitraria demoralizza il gruppo. Birgitta Wistrund usa il termine di «incontinenza emozionale» per riferirsi al trapelare di emozioni distruttive dall'alto verso il basso della gerarchia: «Con le sue emozioni negative un leader fiacca l'energia degli altri rendendoli ansiosi, depressi o rabbiosi», afferma.

D'altro canto, i leader di grande successo mostrano un elevato livello di energia positiva che si diffonde in tutta l'organizzazione. E quanto più è positivo lo stato d'animo del leader del gruppo, tanto più positivi, disposti a collaborare e cooperativi diventano i suoi membri.8-32  

In generale, il carisma emotivo dipende da tre fattori: sperimentare emozioni potenti; essere in grado di dar loro voce energicamente; e funzionare, rispetto alle emozioni, più come una trasmittente che come una ricevente. Le persone altamente espressive comunicano con le espressioni facciali, la voce, i gesti, tutto il proprio corpo. A sua volta, questa abilità li porta a commuovere, ispirare e attrarre gli altri.8-33  

La capacità di trasmettere emozioni in modo convincente, col cuore, richiede che il leader sia emotivamente sincero sul messaggio che emette – che sia davvero convinto che ciò che distingue un leader carismatico da uno manipolativo interessato solo al proprio tornaconto sia proprio il messaggio emotivo. I leader manipolativi possono riuscire a simulare per un po', ma convincono meno facilmente gli altri della propria sincerità. Il cinismo indebolisce la convinzione – e per inviare messaggi carismatici il leader deve agire per autentica convinzione.8-34  

Le competenze del leader

Ogni competenza emotiva interagisce con le altre; probabilmente questa regola vale più che mai nel caso della leadership. Il compito del leader attinge infatti da un'ampia gamma di capacità personali. Sebbene la mia analisi abbia rilevato che la competenza emotiva rende conto di circa due terzi degli ingredienti necessari per una prestazione eccellente in ogni tipo di lavoro – nel caso dei leader straordinariamente capaci essa arriva a comprendere dall'80 al 100 per cento dei fattori essenziali per il successo elencati dalle compagnie, in contrapposizione alle competenze tecniche e cognitive.8-35  

Matthew Juechter, presidente della American Society for Training and Development, è d'accordo. «La leadership è quasi interamente intelligenza emotiva, soprattutto nella distinzione fra quello che fanno i manager e quello che fanno i leader – cose come prendere posizione, sapere che cosa è importante per te, seguire i tuoi obiettivi nei rapporti con gli altri.»

Per i direttori generali più efficienti esistono tre gruppi principali di competenze. I primi due fanno capo all'intelligenza emotiva: il primo comprende competenze personali come la spinta alla realizzazione, la fiducia in se stessi e l'impegno; il secondo consiste di competenze sociali come l'arte dell'influenza, la consapevolezza politica e l'empatia. Quest'ampia banda di capacità facenti capo all'intelligenza emotiva caratterizza i migliori direttori generali in Asia, nelle Americhe e in Europa, a indicazione del fatto che le caratteristiche dei leader di spicco trascendono i confini culturali e nazionali.8-36  

Il terzo gruppo di competenze riscontrato nei direttori generali è di ordine cognitivo: essi pensano in modo strategico, cercando informazioni con una «scansione ad ampio raggio», e applicano un tipo di pensiero fortemente concettuale. Come nel caso dell'analisi dei leader di quindici importanti compagnie, di cui abbiamo parlato nel Secondo Capitolo, a distinguere gli individui superiori è la capacità di vedere il quadro generale, di riconoscere i modelli significativi in mezzo alla massa di informazioni e di avere una visione lungimirante.

I grandi leader, però, si spingono un passo oltre, integrando ciò che vedono con le proprie realtà emotive, e quindi instillando significato e risonanza nella strategia. L'intelligenza emotiva consente loro di miscelare tutti questi elementi in una visione ispiratrice.

I leader migliori, afferma Robert E. Kaplan del Center for Creative Leadership, «hanno una capacità quasi magica di girare una frase e di esprimere in modo chiaro, convincente e memorabile i propri obiettivi per l'organizzazione».8-37 In altre parole, la leadership implica la capacità di stimolare l'immaginazione delle persone e di ispirarle così da spingerle nella direzione desiderata. Per motivare e guidare gli altri, ci vuole qualcosa di più del semplice potere.

I tipi simpatici arrivano primi

Il potere del leader di dare un tono emotivo positivo o negativo a un'organizzazione è stato oggetto di un'analisi effettuata dalla marina degli Stati Uniti, dove gli standard per definire le prestazioni superiori sono prefissati: i riconoscimenti annuali sono dati alle squadre più efficienti, più sicure «più preparate.8-38 Un confronto esteso fra i comandi superiori e quelli mediocri ha rivelato una cospicua differenza nel tono emotivo stabilito dagli ufficiali in comando. I comandi migliori in assoluto non erano guidati da tipi alla Capitano Ahab che terrorizzavano gli equipaggi, ma piuttosto, be'… da tipi simpatici.

I leader migliori riuscivano a equilibrare uno stile personale, orientato verso gli uomini, con un ruolo di comando risoluto. Costoro non esitavano a prendersi le proprie responsabilità, ad agire in vista di un obiettivo, ad essere sicuri di sé e professionali. Ma la maggiore differenza fra i leader superiori e quelli mediocri stava nel loro stile emotivo: rispetto a quelli solo mediocri, i leader più efficaci erano più positivi ed estroversi, emotivamente più espressivi e intensi, cordiali e socievoli (sorridevano anche di più), amichevoli e democratici, cooperativi, simpatici e «divertenti», riconoscenti e fiduciosi, e anche più gentili.

Invece, il profilo dei leader mediocri rifletteva il classico stereotipo del militare cerbero. Si trattava di individui schiavi dei regolamenti, negativi, duri, egocentrici, che trasudavano disapprovazione. Rispetto ai comandanti superiori, quelli mediocri erano più autoritari, esercitavano un maggior controllo, erano più dominanti e duri, più provocatori ed egocentrici, e avevano spesso bisogno di dimostrare di aver ragione. Costoro comandavano «secondo il codice», basandosi sui regolamenti e sull'affermazione del potere loro conferito dal grado. E questo non funzionava, perfino in un ambiente militare – dove potrebbe sembrare che questo stile emotivo trovi la sua più naturale collocazione.

L'effetto di propagazione della leadership

Il tono emotivo stabilito da qualsiasi leader si propaga verso il basso con straordinaria precisione.8-39 Quando si analizzano vari livelli di un'organizzazione, l'effetto ricorda quelle bambole russe che stanno una dentro l'altra – il leader contiene tutto il resto.

Questo era particolarmente evidente nelle gerarchie militari, dove i comandanti più efficaci si dimostravano cordiali ed estroversi, capaci di esprimere le proprie emozioni, democratici e fiduciosi – e altrettanto erano, scendendo di grado, gli altri leader nella loro linea di comando, sebbene in misura minore rispetto al comandante in capo. I comandanti meno efficaci, invece, erano più duri, distanti e irritabili, schiavi dei regolamenti, poco cooperativi, e mostravano più disapprovazione – e la stessa tendenza emergeva nei loro subordinati.

Mentre i leader mediocri tendono a essere poco visibili, quelli migliori spesso se ne andavano in giro a intavolare conversazioni con gli uomini del proprio staff, chiedendo loro della famiglia e di altre questioni personali. Essi inoltre facevano capire di voler essere informati, creando così un'atmosfera di apertura che rendeva più facile la comunicazione. Questo canale a doppio senso incoraggiava gli uomini, a tutti i livelli, a tenere informati i propri superiori.

Nel caso dei comandanti mediocri, invece, gli individui di grado inferiore erano riluttanti a inviare notizie verso l'alto della gerarchia, e questo soprattutto se erano cattive, in quanto gli ufficiali ai vertici spesso «diventavano esplosivi» quando le ricevevano e, invece di delegare l'autorità al livello più basso possibile, si intromettevano con invadenza cadendo nella microgestione.

Di certo i leader migliori erano altamente concentrati sul compito in corso e mostravano fermezza nel riprendere immediatamente gli uomini le cui azioni minacciassero gli standard della prestazione. Ma quando si trattava di regole poco significative, sapevano anche essere flessibili. I comandanti mediocri invece non facevano alcuna distinzione nel far rispettare regole banali e significative, aggrappati com'erano a uno standard legalistico e inflessibile che non contribuiva affatto a incoraggiare il morale o la prestazione.

Consapevoli del fatto che l'unità e la coesione si costruiscono sui legami personali, i migliori ufficiali organizzavano eventi per il tempo libero, come partite di softball e feste in occasione dei riconoscimenti – e si facevano un obbligo di parteciparvi personalmente. Questo tempo libero trascorso insieme, in un clima sociale improntato alla cordialità e punteggiato di battute, generava un forte senso di identità condivisa, che si traduceva poi in prestazioni lavorative superiori. Quanto agli ufficiali mediocri, essi si concentravano più sul funzionamento delle attrezzature che non sui propri uomini.

Quando essere duri

Sicuramente l'esercizio della leadership richiede una certa durezza – a volte. L'arte della leadership implica che si sappia quando essere fermi – ad esempio per affrontare qualcuno in modo diretto relativamente alle sue cadute di prestazione – e quando assumere modi più democratici e meno diretti per guidare o influenzare gli altri.

La leadership richiede che si prendano decisioni difficili: qualcuno deve pur dire agli altri che cosa fare, vincolarli ai loro obblighi ed essere esplicito sulle conseguenze. Non sempre la persuasione, la costruzione del consenso e tutte le altre arti dell'influenza sono sufficienti. A volte, per ottenere che gli altri agiscano, occorre far uso del potere conferito dalla propria posizione.

Un comune difetto dei leader – dai supervisori ai massimi dirigenti – è l'incapacità, quando occorre, di imporsi con la dovuta energia. Uno degli elementi che ostacolano questa sicurezza di sé è la passività – ad esempio quando ci si preoccupa più di ispirare simpatia che non di ottenere un lavoro ben fatto, e quindi si tollerano prestazioni scadenti invece di opporsi ad esse. Coloro che si trovano estremamente a disagio alle prese con il confronto diretto o con la collera, sono spesso riluttanti ad assumere un atteggiamento autoritario anche quando esso è necessario.

In questo contesto l'incompetenza si dimostra in una debolezza comune come il non essere capaci di assumere la guida di una riunione, lasciando che essa vada disordinatamente alla deriva invece di orientarla verso i punti-chiave dell'ordine del giorno. Un altro sintomo di una carenza nella leadership è l'incapacità di essere chiari e fermi – il che porta a una situazione in cui le persone non sanno che cosa ci si aspetta da loro.

Un segno distintivo di un leader sicuro di sé è la sua capacità di dire «no» con fermezza e in modo definitivo. Un altro sta nel costruire un'aspettativa intorno a standard di prestazione o di qualità elevati e insistere affinché vengano soddisfatti, se necessario anche monitorando pubblicamente la prestazione.

Quando le persone non rendono, il compito del leader è quello di dar loro un feedback costruttivo invece di lasciare che il momento – e l'errore – passino inosservati. E se qualcuno continua a render poco, nonostante tutti i tentativi di offrirgli feedback costruttivi e occasioni di migliorarsi, il problema deve essere affrontato in modo aperto e diretto.

Tipico è il caso del manager che diceva: «Il mio predecessore non aveva stabilito alcuna disciplina per le riunioni. In occasione della prima da me presieduta, arrivarono tutti alla spicciolata, in ritardo e impreparati – non avevano finito le loro relazioni né avevano le idee chiare. Così, quando la cosa accadde per la terza volta, mi feci valere. Dissi: "Signore e signori, non posso accettare questo comportamento. Rimanderò questa riunione di due giorni. Siate puntuali e preparati o saranno dolori"».8-40  

Questa, tuttavia, non è la descrizione del piccolo tiranno o del bullo da ufficio. Si tratta di una strategia che entra in gioco solo quando altri approcci, meno rigidi, hanno fallito – e non come prima reazione. Se questo tono caratterizza lo stile quotidiano di un manager, allora ci dev'essere qualcosa che non va nella sua capacità di instaurare un rapporto, di persuadere e influenzare gli altri – in altre parole, un atteggiamento costantemente duro è un segno di debolezza, non di una leadership energica.

La glorificazione di leader stupidi, arroganti e presuntuosi ignora il prezzo che queste caratteristiche impongono alle organizzazioni da essi dirette. Di sicuro una certa fermezza nel prendere decisioni difficili è necessaria; ma se le decisioni sono prese con imperiosa spietatezza, il capo che ne è responsabile finirà per essere detestato – e quindi fallirà nella sua veste di leader.

Nei momenti difficili i leader devono fare appello alla riserva di amicizia che si sono andati costruendo nel tempo. Questi sono momenti in cui Attila e gli Unni subiscono spesso una disfatta. «Nella nostra compagnia un manager era brusco e invadente, e la sua gente provava del risentimento verso di lui – tuttavia riusciva a ottenere le cose», mi disse Muhammad-Amin Kashgari, vicepresidente esecutivo della Savola Company, la più grande produttrice di generi alimentari saudita. «Ma quando le cose cambiarono e il mercato divenne più duro, noi tutti dovemmo lavorare di più per mantenere la nostra quota di mercato», aggiunge; «e allora lo stile autocratico di quel manager lo fece naufragare.» Il migliore risultò invece un altro dirigente amato dai suoi, e che sapeva ispirarli a lavorare di più. «Il dirigente autoritario continuò semplicemente a far pressione nello stesso vecchio modo, e la sua gente lo abbandonò.»

La leadership matura è caratterizzata dalla capacità di tenere sotto controllo la grossolana, sfrenata brama di potere. Come scoprì un classico studio a lungo termine condotto presso la AT&T, soprattutto nelle grandi organizzazioni, i dirigenti che associavano l'autocontrollo alla capacità di esercitare un grande impatto sui subordinati col tempo venivano promossi, mentre quelli che pur esercitando tale impatto mancavano di autocontrollo finivano male.8-41 Nei dirigenti migliori, l'ambizione personale è tenuta a bada da un forte autocontrollo, e viene concentrata verso obiettivi collettivi.8-42  

Il leader virtuale

Aeroporto di San Francisco, giornata nebbiosa – un disastro. I voli, uno dopo l'altro, vengono cancellati, le code agli sportelli del servizio-clienti delle linee aeree diventano sempre più lunghe perdendosi serpeggianti in fondo alla sala. La tensione monta di ora in ora, e i viaggiatori si beccano fra di loro e con i rappresentanti delle linee aeree. David Kolb, il professore di management presso la Case Western Reserve University che racconta questo aneddoto, decise allora di cercare di modificare l'umore della calca, almeno nelle proprie immediate vicinanze. Così annunciò: «Vado a farmi un caffè, qualcun altro ne vuole?»

Prendendo ordinazioni da un coro crescente di passeggeri frustrati, si allontanò per tornare carico di bevande. E questo bastò a innescare una cascata di buoni sentimenti.

Kolb, in quel momento, emerse come leader naturale di quel gruppo disorganizzato. Il suo ergersi spontaneamente a quel ruolo denota quanto sia fluida la natura della leadership.

Non sempre la posizione formale delle persone e il loro effettivo ruolo di leadership coincidono. Quando sorgono particolari esigenze, gli individui possono farsi avanti, assumersi un ruolo da leader per un tempo limitato – può trattarsi di una piccola cosa come richiamare all'ordine un fornitore negligente – e poi ritornare nel gruppo. Questo comportamento deciso può anche essere diretto verso l'alto, ad esempio quando un dipendente di livello inferiore ne sfida uno che sta più in alto, su questioni difficili o verità vitali per il benessere dell'organizzazione.

I dirigenti di una compagnia petrolifera che stava aprendo un ufficio in una città del Sud America avevano deciso di affittare una sede in un grattacielo nuovo di zecca nella zona più costosa della città. Ma il direttore di quella filiale nascente, parlando con un ministro locale, si sentì dire, con una nota di sarcasmo: «Proprio quello che ci si aspetta da una compagnia come la vostra».

Sconcertato, il manager chiese in giro e alla fine realizzò che la collocazione scelta per i loro uffici segnalava che la compagnia fosse più interessata alle apparenze che non a fare affari. Con quell'informazione, il manager si assunse la responsabilità di abbandonare il piano originale e cercò degli uffici in un distretto commerciale in espansione – una sede che inviasse un segnale di serietà. Poi chiamò i suoi superiori negli Stati Uniti e disse loro che cosa aveva fatto e perché.

La risposta dei suoi capi fu: «Non siamo d'accordo con lei, ma noi non siamo sul posto – decida lei per il meglio».

Una mossa del genere, ovviamente, richiede fiducia in se stessi e iniziativa, entrambe competenze emotive essenziali per la leadership. L'affiorare di tali leader virtuali sta diventando una modalità di operazione standard nel campo dell'alta tecnologia, dove individui molto giovani possono essere particolarmente esperti per quanto riguarda aree emergenti di expertise.

Ad esempio, presso il Nokia Telecommunications Group finlandese, circa il 70 per cento dei dipendenti ha la laurea in ingegneria, con un'età media di 32 anni. Un'alta percentuale di quegli ingegneri è fresca di studi e ha una familiarità di gran lunga maggiore dei suoi capi quarantenni con le tecnologie più recenti. Veli-Pekka Niitamo – responsabile delle risorse umane – spiega: «Abbiamo ridefinito la natura della leadership. Chiunque la detiene: un giovane ingegnere, se necessario, può assumersela. Il nostro modello è che, nella realtà Nokia, ciascuno è il capo di se stesso. La vecchia struttura statica, con i manager e i subordinati, è ormai superata».

In effetti, nel clima aziendale di oggi, tutte le strutture statiche sono superate. Il che ci porta alla prossima competenza, quella di saper guidare il cambiamento.

Mostrare la strada

CATALIZZARE IL CAMBIAMENTO
Innescare o gestire il cambiamento 

Le persone con questa competenza:

• Riconoscono la necessità di cambiare e di rimuovere barriere

• Mettono in discussione lo status quo per richiamare l'attenzione sul bisogno di cambiare

• Difendono il cambiamento, e arruolano altri che lo perseguano

• Esemplificano il cambiamento che si aspettano dagli altri

La rivelazione personale, per John Patrick, arrivò verso la fine del 1993. E gli ci vollero solo 24 mesi per trasformare quell'intuizione ispirata in politica aziendale.

L'azienda è l'IBM; il 1993 segna l'anno in cui Lou Gerstner prese il timone dell'organizzazione e cominciò a ribaltarla. Tuttavia, i cambiamenti massicci e profondi non procedono solo dall'alto verso il basso; nel caso di Patrick, ad esempio, la sua mini-rivoluzione fu una vittoria partita dalla base.

Tutto si imperniò su Internet. Quel giorno del 1993, Patrick, che allora elaborava le strategie aziendali dell'IBM, stava giocherellando con un programma per Internet che si chiama «Gopher». Come racconta lui, «rimasi affascinato dall'idea di poter navigare nel computer di qualcun altro standomene comodamente seduto a casa. I collegamenti remoti non erano certo un'idea nuova all'IBM. Ma essere dentro il computer di qualcun altro, indipendentemente da quale tipo di computer uno avesse – be', mi si accese una luce».8-43  

A quell'epoca, l'IBM era una compagnia concentrata sull'hardware. Internet, che stava sviluppandosi proprio allora, era fuori dalla portata del suo radar; la compagnia non aveva praticamente alcun prodotto o progetto per la Rete. Gerstner era sul punto di cambiare tutto questo, ma furono persone come Patrick, sparse ovunque nell'azienda, a farne una realtà.

Patrick creò il manifesto «Get Connected» («Collegati»), nel quale sosteneva che collegamenti come Internet avrebbero reinventato la natura delle organizzazioni, delle industrie e del lavoro. A sostegno della sua idea, offriva alcuni suggerimenti pratici: dare un indirizzo e-mail a tutti i membri dell'organizzazione, incoraggiare i newsgroups interni a costruire e cementare comunità con interessi comuni e istituire un sito web dell'IBM.

Sebbene oggi queste idee siano ampiamente accettate, a quel tempo – soprattutto all'IBM – erano considerate rivoluzionarie. D'altra parte il pubblico c'era – era li, sparso in tutta l'azienda. Non appena ebbe distribuito il suo manifesto, Patrick cominciò ad avere riscontri – fax, messaggi e-mail e telefonate provenienti da ogni angolo dell'IBM. Per collegare tutti costoro Patrick istituì una mailing list, e se ne servì per cucire, in seno all'IBM, una sorta di organizzazione virtuale che trascendesse ogni suo organigramma formale.

I membri di questo gruppo appartenevano a divisioni IBM sparse in tutto il mondo. Non avevano alcuno status formale – nessuna autorità e niente fondi. Erano fuori dal controllo diretto dell'organizzazione, e ciò nondimeno ottenevano dei risultati. Il loro primo progetto, attivato nel maggio del 1994, era stato l'istituzione del sito web dell'IBM, uno dei primi aperti da una grande corporazione.

Quello stesso mese, Patrick impegnò la compagnia a partecipare al successivo convegno di Internet World, senza l'autorizzazione dell'IBM. Quest'assunzione di rischio richiese coraggio e lungimiranza, e anche un poco di fede.

Quella fede diede buoni frutti. Patrick contattò varie divisioni della compagnia alla ricerca di fondi, raggranellando cinquemila dollari qui, cinquemila dollari là; quando arrivò il convegno Internet World, cinquantaquattro persone, provenienti da dodici diverse unità, vi si recarono in rappresentanza dell'IBM. L'impresa non aveva ancora alcuno status formale all'interno della compagnia, né alcun finanziamento.

Forte di questo impulso, tuttavia, l'IBM sviluppò infine una strategia ufficiale per Internet, riunì una task force e creò una propria divisione Internet. Quella divisione nacque il primo dicembre del 1995. Nel suo compito – quello di definire e perseguire le iniziative della compagnia riguardo a Internet – sarebbe stata guidata da John Patrick, vicepresidente in carica e capo delle tecnologie. Quella che era stata una squadra virtuale dai legami flessibili era adesso una divisione ufficiale dell'azienda, con un organico di seicento persone.

Uno dei suoi progetti fu un sito web di grandissimo successo per le Olimpiadi di Atlanta del 1996; il sito ricevette undici milioni di visite ogni giorno. I membri del team dell'IBM, usando un software in via di sviluppo per gestire quell'enorme traffico, trovarono in quell'esperienza una naturale opportunità di ricerca e sviluppo. Si resero conto di aver sviluppato un software in grado di gestire un immenso volume di traffico e lo modificarono in quello che doveva diventare un programma commerciale – una delle molte linee di prodotti destinati alla Rete, frutto dell'originaria rivelazione di Patrick.

Il catalizzatore del cambiamento: ingredienti-chiave

Le aziende si stanno riorganizzando; operano cessioni, fusioni e acquisizioni; appiattiscono gerarchie e acquistano dimensioni globali. Negli anni Novanta, l'accelerazione del cambiamento ha fatto dell'abilità di orientarlo una competenza nuova di importanza crescente. Nei primi studi condotti negli anni Settanta e Ottanta, la capacità di catalizzare il cambiamento non era una qualità particolarmente apprezzata. Ma con l'approssimarsi al nuovo millennio, le compagnie che puntano su chi sappia guidare il cambiamento sono sempre più numerose.

Quali sono le caratteristiche che fanno di qualcuno un efficace catalizzatore del cambiamento? «Quando lavoriamo con una compagnia per aiutarla a trasformare la sua attività, le abilità personali del leader del loro gruppo sono immensamente importanti», mi spiega John Ferreira, un socio del Deloitte and Touche Consulting Group. «Supponiamo che stiamo cercando di aiutarli a ridurre il tempo necessario per evadere le ondulazioni. Per farlo occorre operare trasversalmente rispetto alle barriere interne all'organizzazione, e ci vuole qualcuno che non sia a un livello troppo alto – non un teorico, ma qualcuno che abbia un expertise di prima mano, che sia abbastanza vicino agli eventi da trascendere tutte le funzioni implicate. Spesso questa figura coincide con un manager di secondo livello.»

Ma oltre questo expertise tecnico, il catalizzatore del cambiamento richiede tutta una gamma di altre competenze emozionali. «Ci vuole il tipo di manager di secondo livello che abbia la capacità di entrare nell'ufficio del vicepresidente e di lasciargli sul tavolo un memo di ciò che deve fare, senza essere intimidito dal fatto di essere solo un manager di seconda linea», aggiunge Ferreira.

Ad esempio, in una grande compagnia di servizi finanziari, che stava vivendo il travaglio della deregulation e di un mercato nuovamente competitivo, furono i leader più fiduciosi nelle proprie capacità a guidare le divisioni che prosperarono nonostante i cambiamenti.8-44  

I leader del cambiamento più efficienti, oltre a un elevato livello di fiducia in se stessi, hanno anche capacità di influenza, impegno, motivazione, iniziativa, ottimismo e istinto per la politica dell'organizzazione. Come dice Ferreira: «Occorre qualcuno che la prenda come una missione, non solo come un lavoro – qualcuno che si appassioni al cambiamento, che si alzi la mattina con quello in testa. È un po' come la differenza fra l'inquilino e il proprietario di una casa: i proprietari sono pieni di dedizione. Questo è un aspetto fondamentale, perché il cambiamento richiede anche perseveranza – ti trovi davanti moltissime cortine fumogene, moltissime resistenze. Occorre sapere come servirsi di noi, dei consulenti, per portare la causa all'attenzione delle persone giuste al momento giusto. E occorre continuare a presentare il proprio caso e a costruire coalizioni che garantiscano appoggio, finché non si raggiunge la massa critica che gli faccia superare la vetta».

Il leader della trasformazione

I leader del cambiamento non sono necessariamente innovatori; sebbene riconoscano il valore di una nuova idea o di un nuovo modo di fare le cose, spesso non sono le stesse persone dalle quali è scaturita l'innovazione. Affinché le organizzazioni cavalchino le onde del cambiamento (e quale organizzazione non lo sta facendo, di questi tempi?) il management tradizionale non è la persona giusta. In tempi di trasformazione, occorre un leader carismatico, una figura ispiratrice.

Il modello della «leadership della trasformazione» va oltre il management tradizionale; con il semplice potere dell'entusiasmo che ispirano, questi leader sanno risvegliare gli altri. Essi non danno ordini, non dirigono – ispirano. Quando esprimono la propria concezione sono intellettualmente ed emotivamente stimolanti. Dimostrano una forte convinzione in quell'idea, e stimolano altri a perseguirla con loro.8-45 E si impegnano ad alimentare le relazioni con le persone che guidano.

A differenza di stili di leadership più razionali – nei quali i leader usano gratifiche standard come denaro o promozioni per incoraggiare i propri dipendenti – il leader della trasformazione opera su un altro livello; egli mobilita gli altri affinché partecipino al cambiamento dell'organizzazione risvegliando le loro emozioni sul lavoro che stanno facendo. In tal modo, questi leader fanno appello alla percezione del significato e ai valori delle persone. Il lavoro diventa una sorta di affermazione morale, una dimostrazione di impegno verso una missione di più ampia portata che consolida la condivisione di un'identità a cui si attribuisce un valore.8-46  

Per far questo il leader deve esprimere una visione convincente dei nuovi obiettivi dell'organizzazione. Anche se gli obiettivi possono essere un poco utopistici, impegnarsi per raggiungerli può essere, di per se stesso, soddisfacente dal punto di vista emotivo. Risvegliare in questo modo le emozioni altrui e imbrigliarle al fine di perseguire obiettivi nobili o elevati conferisce a un leader una grande forza da mettere al servizio del cambiamento. In effetti, alcuni studi dimostrano che questo tipo di leadership ottiene dai subordinati sforzi più intensi e prestazioni migliori, rendendo complessivamente più efficace il loro lavoro.8-47  

L'arte emotiva

Questo stile di leadership della trasformazione ha affrontato un duro banco di prova presso una grande compagnia canadese di servizi finanziari che stava lottando contro un'immensa turbolenza del mercato e una grande incertezza causate dalla recente deregulation.8-48 Quella che un tempo era stata una compagnia stabile e di successo in un ambiente protetto ora doveva essere pronta a conservarsi un posto nello stesso mercato che un tempo aveva dominato.

Un gruppo di manager esperti, scelti fra quelli dei quattro livelli più alti, furono seguiti per un anno mentre guidavano le proprie unità in quei tempi caotici. Alla fine di quel periodo, ciascuno di essi venne valutato in base a parametri quali il miglioramento della produttività, i premi incassati e il rapporto salario/budget. Emerse un'ampia gamma di risultati: alcuni leader realizzarono solo il 17 per cento dei propri obiettivi, mentre altri arrivarono a raggiungerne l'84 per cento.

Il maggiore successo arrise a coloro che si erano affidati a uno stile di leadership di trasformazione. In realtà, leader che si avvalevano prevalentemente di uno stile di management standard sembravano più che altro intenti a cercar di controllare e di limitare i dipendenti.

I leader di maggior successo erano giudicati da chi lavorava per loro come individui altamente carismatici e flessibili. Essi sembravano diffondere il proprio senso di fiducia e di competenza e ispiravano gli altri a essere più immaginativi, capaci di adattamento e inclini all'innovazione.

Questo studio riecheggia quello che John Kotter, esperto di leadership presso la Harvard Business School, cita come la differenza fra «management» e «leadership».8-49 Nella sua accezione dei due termini, management si riferisce alle modalità grazie alle quali imprese complesse vengono mantenute ordinate, non caotiche e produttive. Leadership, invece, si riferisce alla capacità di pilotare i cambiamenti indotti dalla competitività e dalla precarietà dei tempi.

Come afferma Kotter, «la motivazione e l'ispirazione trasmettono energia alle persone, e lo fanno non spingendole nella giusta direzione come se fossero dei meccanismi di controllo, ma soddisfacendo esigenze umane fondamentali quali la realizzazione dei propri obiettivi e il nutrire un senso di appartenenza, un sentimento di controllo sulla propria vita, e la capacità di vivere in armonia con i propri ideali. Questi sentimenti ci toccano nel profondo e suscitano in noi una straordinaria risposta». A questo livello, dunque, la leadership è un'arte emotiva.