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Collaborazione, squadre e QI dei gruppi

«Nessuno di noi è intelligente come tutti noi insieme.»
– Proverbio giapponese

Fu un momento gravido di conseguenze agli albori della storia della Silicon Valley: nel 1982, in una sala affollata da centinaia di ingegneri riuniti per un convegno del Silicon Valley Computer Club, un giornalista del San José Mercury chiese all'assemblea: «Quanti di voi hanno in programma di mettersi in proprio?»

Due mani su tre si alzarono.9-1  

Da allora sono spuntate migliaia di compagnie, comprese la Silicon Graphics, la Oracle e la Cisco Systems. Il tema comune a tutte queste imprese è la convinzione che un'idea grandiosa o una tecnologia innovativa possano fare una differenza. Ma perché un'idea straordinaria possa diventare il seme di una grande azienda occorre qualcos'altro: la collaborazione.

La ricerca di team eccezionali rappresenta per le aziende una sorta di moderno Graal. «Nel mondo di oggi c'è abbondanza di tecnologie, di imprenditori, di denaro, di capitali a rischio. Quello che scarseggia sono i grandi team.» Così dice John Doerr, un leggendario investitore della Silicon Valley che ha sostenuto gli esordi di imprese destinate a cambiare il volto del settore – da Lotus e Compaq a Genentech e Netscape.9-2  

La compagnia di Doerr, la Kleiner Perkins Caulfield and Byers, riceve ogni anno, da parte di imprenditori pieni di speranza, circa duemilacinquecento progetti, di cui pressappoco cento vengono considerati seriamente; la compagnia poi investe su circa venticinque di essi. Doerr afferma: «Un team pensa di convincerci per la tecnologia e il prodotto o il servizio che propone. Ma in realtà noi siamo concentrati su di loro – sui membri del gruppo. Quel che vogliamo davvero capire è chi sono, e come lavoreranno insieme». Pertanto, durante gli incontri con le aziende nascenti candidate al finanziamento, Doerr sonda la dinamica del gruppo: valuta come i suoi membri potrebbero gestirsi, concordare sulle priorità, valutare se stanno facendo bene il proprio lavoro e affrontare qualcuno che non rende. «Sto controllando i loro istinti, il loro sistema di navigazione, i loro valori.»

Essenziale, per un team di questo tipo, è la giusta miscela di intelligenza ed expertise – quello che Doerr chiama «gente davvero in gamba» – e (sebbene egli non si serva di questa espressione) di intelligenza emotiva. Doerr avverte che le due componenti devono essere bilanciate – non troppa intelligenza ed esperienza, né solo motivazione, energia e passione. «L'ottenimento della miscela giusta costituisce la differenza fra le imprese che raggiungono la grandezza e quelle che si limitano a farcela, o peggio.»

Sopravvivenza del sociale

Fin dai primordi, gli esseri umani sono stati giocatori di squadra: le nostre relazioni sociali, caratterizzate da una complessità unica, hanno rappresentato per noi un vantaggio essenziale in termini di sopravvivenza. Il nostro talento straordinariamente sofisticato per la cooperazione culmina nella moderna organizzazione.

Alcuni evoluzionisti ritengono che il momento fondamentale per l'emergere delle capacità interpersonali sia stato quello in cui i nostri antenati scesero dalle cime degli alberi per vivere nella vastità delle savane: una circostanza in cui il coordinamento sociale nella caccia e nella raccolta dei frutti della terra offrì grandissimi vantaggi. L'apprendimento delle abilità essenziali per la sopravvivenza implicò che i bambini dovessero essere «istruiti» in quel periodo critico, che si protrae fino a circa quindici anni, durante il quale il cervello umano raggiunge la maturità anatomica. La cooperazione fornì questo vantaggio, e con essa emerse un complesso sistema sociale – insieme a nuove sfide per l'intelligenza umana.9-3  

Questa concezione del ruolo essenziale della cooperazione nell'evoluzione fa parte di un ripensamento radicale del significato della famosa espressione «sopravvivenza del più adatto».9-4 Verso la fine del diciannovesimo secolo i darwinisti sociali si aggrapparono ad essa per sostenere che la «fitness» – l'idoneità, appunto – comportasse l'inevitabile trionfo del più forte e spietato sul più debole. Essi si servirono di quel concetto come di una base razionale per celebrare la competizione sfrenata e ignorare la triste condizione di chi non ha mezzi né diritti.

Oggi, nella teoria evoluzionista, quell'idea è stata rovesciata dalla semplice intuizione che la «fitness» evolutiva non si misura in base alla resistenza, ma al successo riproduttivo – dipende da quanti figli sopravvivono a un individuo così da passarne i geni alle generazioni future. Nell'evoluzione, l'autentico significato di «sopravvivenza» sta proprio in quell'eredità genetica.

Da questa prospettiva, l'elemento-chiave ai fini della sopravvivenza umana non fu la spietatezza di individui solitari, ma la collaborazione di un gruppo di individui – che cooperavano uscendo alla ricerca di cibo, nutrendo i bambini e difendendosi dai predatori. E, in effetti, lo stesso Darwin fu il primo» a proporre che i membri dei gruppi umani pronti a cooperare al bene comune sopravvivessero meglio e avessero una prole più numerosa di quelli appartenenti a gruppi che badavano solo al proprio interesse, o degli individui solitari che non facevano parte di alcun gruppo.

Anche oggi, i vantaggi comportati dal vivere in bande unite da stretti legami sono ben evidenti nei pochi gruppi umani sopravvissuti come cacciatori-raccoglitori – la modalità di sussistenza degli ominidi durante i milioni di anni impiegati dal nostro cervello per raggiungere la sua attuale architettura. In questi gruppi uno dei principali fattori che determina la salute dei bambini è la presenza di una nonna o di un altro parente anziano che possa contribuire agli sforzi della madre e del padre per raccogliere il cibo.9-5  

Un moderno retaggio di questo passato è quel radar, che molti di noi hanno, per rilevare la disponibilità all'amicizia e alla cooperazione; noi gravitiamo verso chi mostra di possedere queste qualità. Abbiamo anche un sistema di preallarme che ci mette in guardia verso chi potrebbe essere egoista o non meritare la nostra fiducia. Ad esempio, in un esperimento effettuato alla Cornell University, gruppi di estranei venivano fatti incontrare e lasciati mescolare per 30 minuti, e poi si chiedeva ai partecipanti di classificarsi l'un l'altro relativamente all'egoismo o alla cooperatività. Quelle classificazioni si dimostravano ancora valide quando venivano confrontate al comportamento effettivamente adottato dalle stesse persone in un gioco in cui, per vincere, potevano scegliere strategie egoiste o cooperative. Analogamente, gli individui sembrano attratti da chi è cooperativo e amichevole come loro; i membri di gruppi costituiti da estranei molto cooperativi sono altruisti e disposti ad aiutarsi l'un l'altro come persone della stessa famiglia.9-6  

La socializzazione plasma il cervello

La neocorteccia – ossia gli strati pii superficiali del cervello, che ci conferiscono la capacità di pensare – è un'importante eredità anatomica dell'esigenza umana di riunirli in gruppi.

Le sfide adattative che più contano per la sopravvivenza di una specie sono quelle che la spingono a cambiare mentre si evolve. Operare in un gruppo coordinato – indipendentemente dal fatto che si tratti di un team in un'azienda o di una banda di protoumani intenti a vagabondare nella savana – richiede comunque un elevato livello di intelligenza sociale, ossia la capacità di interpretare e gestire relazioni interpersonali. Se gli individui socialmente più intelligenti avessero prole più numerosa e vitale – in altre parole, se fossero i più «idonei» – allora la natura selezionerebbe, nel cervello umano, modificazioni tali da consentire una migliore gestione delle complessità insite nella vita di gruppo.9-7 Nel passato evolutivo, proprio come oggi, i membri dei gruppi dovevano bilanciare i vantaggi apportati dalla cooperazione – nel respingere i nemici, nella caccia, nella ricerca del cibo e nella cura dei bambini – con gli svantaggi legati, all'interno del gruppo, alla competizione per il cibo, per i partner sessuali o per assicurarsi altre risorse limitate soprattutto in tempi di scarsità. Si aggiunga a questo il dover calcolare le gerarchie di dominanza, gli obblighi sociali e di parentela e gli scambi di favori – e il risultato è una quantità enorme di dati sociali da tenere sotto controllo e usare in modo appropriato.

Proprio qui sta la pressione evolutiva che condusse allo sviluppo di un «cervello pensante» con la capacità di operare istantaneamente tutti questi calcoli sociali. Nel regno animale solo i mammiferi hanno una neocorteccia. Fra i primati (noi umani compresi) il rapporto fra la neocorteccia e il volume totale del cervello aumenta in modo direttamente proporzionale alle dimensioni tipiche assunte dal gruppo sociale nella specie in oggetto.9-8 Nel caso dei primi esseri umani, le dimensioni del gruppo dovevano aggirarsi fra le decine le centinaia di membri (e nella vita delle odierne organizzazioni potrebbero collocarsi nell'ordine delle migliaia).

In questa prospettiva, l'intelligenza sociale fece la sua comparsa molto prima che emergesse il pensiero razionale; le abilità di pensiero astratto della specie umana trassero poi profitto da una neocorteccia originariamente sviluppatasi per venire alle prese con una realtà interpersonale immediata.9-9 D'altra parte, la neocorteccia si evolse da strutture più antiche del cervello emotivo, ad esempio l'amigdala, e pertanto è saldamente allacciata ai circuiti delle emozioni.

La neocorteccia, con la sua sofisticata interpretazione della dinamica dei gruppi, deve decifrare i propri dati in armonia con i segnali emotivi associati. In realtà, ogni atto mentale di riconoscimento («quella è una sedia») ha incorporata una reazione emotiva («…e non mi piace»).

Gli stessi circuiti cerebrali ci fanno sapere immediatamente, ad esempio, chi fra coloro che ci stanno vicini su un ascensore dovremmo salutare e chi no («Il capo ha l'aria di essere di cattivo umore oggi, penso che non gli darò fastidio»). Quegli stessi circuiti plasmano ogni dettaglio delle relazioni di lavoro cooperative che sono la chiave per la sopravvivenza nelle organizzazioni odierne.

Anche quando ci scambiamo le informazioni più aride, i nostri monitor neurali per il rilevamento delle sfumature emotive leggono innumerevoli indizi impliciti – messaggi compositi che mettono quell'informazione nel suo contesto emotivo: il tono della voce, la scelta delle parole, minimi segnali nella posizione del corpo, nei gesti, nei tempi. Questi segnali emotivi hanno il potere di mantenere la conversazione – o il gruppo – più o meno in carreggiata. La coordinazione armoniosa dipende da questo canale emotivo proprio come dal contenuto esplicito e razionale di ciò che viene detto e fatto.

L'arte della collaborazione

John Seely Brown – scienziato presso la Xerox Corporation, e lui stesso teorico cognitivo – sottolinea che la natura essenziale del coordinamento sociale forse non è mai stata tanto evidente come nelle odierne imprese scientifiche, in cui il fronte della conoscenza avanza attraverso sforzi ben organizzati e collaborativi.

Come mi disse Brown, «molti teorici pensano all'apprendimento da un punto di vista esclusivamente cognitivo, ma se si chiede agli individui di successo di riflettere su come abbiano imparato ciò che attualmente sanno, diranno: "Abbiamo appreso la maggior parte di ciò che sappiamo gli uni dagli altri". Questo richiede intelligenza sociale, non solo abilità cognitiva. Molte persone hanno dei problemi perché non capiscono come entrare a far parte di un rapporto umano – di una relazione. È facile concentrarsi sull'abilità cognitiva e ignorare l'intelligenza sociale. Ma è solo quando si mettono insieme le due cose che si può creare un incantesimo».

Brown mi ha raccontato che in quella leggendaria struttura, da lui diretta, che è la Ricerca & Sviluppo della Xerox Corporation, nella Silicon Valley, «ogni cosa è fatta in modo collaborativo, come del resto ovunque, oggi, nel mondo dell'alta tecnologia. Non ci sono geni solitari, da nessuna parte. Perfino Thomas Edison era un brillante knowledge manager. Noi abbiamo a che fare con un capitale umano; le idee non scaturiscono dalla testa di un solitario, ma dalla collaborazione – in senso profondo».

In un mondo dove il lavoro – soprattutto nella ricerca e nello sviluppo – viene svolto in team, l'intelligenza sociale conta immensamente ai fini del successo. «Una delle capacità più importanti nel management è l'abilità di leggere il contesto umano, di essere consapevoli della posta in gioco», afferma Brown. «Nel management il potere consiste nella capacità di far accadere gli eventi. Ma come fare affinché il mondo svolga parte del lavoro per te? Occorre impegnarsi in una sorta di judo – essere in grado di leggere la situazione e le correnti umane, e di fare la propria mossa di conseguenza. Quanto più operiamo in ambienti poco controllati, tanto più dobbiamo saper interpretare le energie umane.»

Brown continua: «Ci sono individui ciechi alla dinamica di un gruppo. Esco da una riunione con un ricercatore, e quello non ha la minima idea di quel che è successo, mentre un altro avrà interpretato alla perfezione le dinamiche attive in quella stanza: saprà quando intervenire, come porre le cose, ciò che conta davvero. Quella persona può portare le sue idee al di là del lavoro, fuori nel mondo».

L'arte di «esercitare un impatto attraverso gli altri», aggiunge Brown, «consiste nell'abilità di mettere insieme le persone, di attrarre i colleghi verso il lavoro, di creare la massa critica per la ricerca. Poi, una volta che hai fatto questo, arrivi alla domanda successiva: come coinvolgere il resto della compagnia? E ancora: come far uscire il messaggio dalla compagnia e convertire tutto il resto del mondo? Comunicare non significa solo inviare informazioni all'indirizzo di un'altra persona. Significa creare negli altri un'esperienza, coinvolgerli fin nelle viscere – e questa è un'abilità emotiva».

Il vantaggio del team: la mente del gruppo

Nell'odierno ambiente di lavoro, un dato di fatto fondamentale è che ciascuno di noi possiede solo una parte di tutte le informazioni o dell'expertise necessari per svolgere un lavoro. Robert Kelley della Carnegie-Mellon University ha posto per molti anni la stessa domanda a persone che lavoravano presso molte compagnie diverse: «Quale percentuale della conoscenza che le occorre per il suo lavoro è immagazzinata nella sua mente?».

Nel 1986, la risposta si attestava solitamente intorno al 75 per cento. Ma nel 1997 la percentuale era scivolata fra il 15 e il 20 per cento.9-10 Senza dubbio, ciò riflette la velocità di crescita esplosiva dell'informazione. È stato detto che nel ventesimo secolo è stata generata più conoscenza che in tutta la storia precedente, e la velocità di tale produzione continua ad aumentare mentre ci accingiamo a entrare nel ventunesimo secolo.

Pertanto la rete, o il team, di persone alle quali possiamo rivolgerci per ottenere informazioni ed expertise sono di importanza sempre più vitale. Mai come ai giorni nostri dipendiamo dalla mente del gruppo.

«La mia intelligenza non si ferma sulla pelle» – così mette la questione Howard Gardner, l'importante teorico di Harvard. Invece, egli sottolinea, essa si estende ai suoi strumenti – ad esempio il suo computer e le sue banche dati – e, altrettanto importante, «alla mia rete di relazioni – compagni d'ufficio, colleghi professionisti, altre persone alle quali posso telefonare o a cui posso inviare dei messaggi di posta elettronica».9-11  

Non c'è dubbio che la mente del gruppo possa essere di gran lunga più intelligente di quella individuale; su questo punto, i dati scientifici sono schiaccianti. A esempio, in un esperimento, alcuni individui studiavano e lavoravano in gruppi mentre seguivano un corso al college. Per il loro esame finale, dapprima sostenevano una parte del test individualmente. Poi, dopo che avevano consegnato i fogli con le risposte, ricevevano un'altra serie di domande alle quali dovevano rispondere collettivamente.

I risultati ottenuti analizzando centinaia di questi gruppi dimostrarono che nel 97 per cento dei casi i punteggi conseguiti nella prova collettiva erano superiori a quelli ottenuti dal membro più brillante nel segmento individuale del test.9-12 Lo stesso effetto è stato riscontrato moltissime altre volte, anche nel caso di gruppi dalla vita estremamente breve, come quelli formatisi esclusivamente allo scopo di condurre l'esperimento. Ad esempio, quando gruppi di estranei ascoltavano una storia sugli alti e bassi della carriera di qualcuno, quanto più numeroso era il gruppo, tanto migliore era la sua memoria collettiva: tre persone se la cavavano meglio di due, quattro meglio di tre, e così via.9-13  

«Essendo specializzato in matematica, credevo che il tutto fosse uguale alla somma delle sue parti, finché non ho cominciato a lavorare con le squadre», mi confidò Chuck Noll, il leggendario ex allenatore dei Pittsburgh Steelers. «Poi, quando divenni allenatore, capii che il tutto non è mai la somma delle sue parti – è maggiore o minore, a seconda di come riescono a collaborare i suoi membri.»

Lubrificare i meccanismi della mente del gruppo in modo che essa possa pensare e agire in modo brillante richiede intelligenza emotiva. Da soli, un intelletto superbo e il talento tecnico non tramutano le persone in membri straordinari d un team.

Ciò fu dimostrato in una serie di esperimenti convincenti condotti presso una scuola aziendale della Cambridge University. I ricercatori misero insieme centoventi management team simulati affinché prendessero decisioni in un contesto aziendale, anch'esso simulato. Alcuni team erano composti interamente da persone molto intelligenti. Nonostante l'ovvio vantaggio, questi gruppi davano prestazioni inferiori a quelle di altri gruppi i cui membri non erano tutti altrettanto brillanti.9-14 Se si osservavano i team in azione si capisce perché: i membri con il QI più alto passavano troppo tempo immersi in un dibattito competitivo, che diventava un interminabile sfoggio di abilità accademica.

Un'altra debolezza dei team con un elevato QI era che tutti i membri optavano per lo stesso tipo di compito: applicare le loro abilità critiche alle parti intellettualmente più affascinanti del compito, impegnandosi in analisi e controanalisi. Nessuno trovava il tempo per le altre parti, pure necessarie, del lavoro – pianificazione, raccolta e scambio di informazioni pratiche, registrazione dell'apprendimento, coordinamento d'un piano d'azione. Erano tutti talmente impegnati a recitare la parte dei grandi intellettuali, che il team finiva per fare fiasco.

Il QI del gruppo

Si sono perduti nel deserto: il sole infierisce senza pietà mentre i miraggi scintillano e non c'è un solo punto di riferimento visibile. L'acqua sta per finire, e non hanno bussola o mappe. La loro sola speranza è di mettersi alla ricerca di aiuti, ma hanno equipaggiamenti troppo pesanti. Per sopravvivere, devono decidere che cosa portarsi dietro e che cosa abbandonare.

È uno scenario di vita e di morte, ma non minaccioso: si tratta di una simulazione usata per verificare le capacità dei partecipanti di lavorare in team. Lo scenario consente di classificare ciascuno in base alle sue scelte individuali, confrontandole poi con quelle compiute dal gruppo collettivamente.

La conclusione, tratta da centinaia e centinaia di esperimenti, è che la prestazione dei gruppi ricade in uno di tre possibili livelli. Nel caso peggiore, le frizioni interne decretano il fallimento del team in quanto tale, e la prestazione collettiva è più scadente del punteggio medio individuale. Quando il gruppo lavora ragionevolmente bene, il punteggio collettivo è maggiore di quello medio individuale. Ma quando il team è davvero sinergico, il suo punteggio è di gran lunga superiore a quello dell'individuo migliore. 

Non c'era dubbio, ad esempio, che in termini di expertise tecnico e di esperienza i membri del management team del settore auto di uno dei più grandi fabbricanti di automobili d'Europa fossero superiori alle loro controparti del settore autocarri. E tuttavia, come team, quest'ultimo funzionava meglio.

«Se guardavi i profili e la formazione dei membri del team autocarri, tutto questo non aveva proprio senso – avresti pensato che erano mediocri rispetto a quelli dell'altro gruppo», mi disse il consulente di management che aveva lavorato su quei gruppi. «E invece, quando operavano come unità, erano superbi.»

Che cosa consente a un gruppo di dare prestazioni migliori del suo membro più brillante? La chiave sta in questa domanda. La prestazione collettiva eccellente alza il «QI del gruppo» – nel caso dell'esempio, la somma totale dei migliori talenti di ciascun membro di un team esprimeva il suo massimo contributo.9-15 Quando i gruppi operano al meglio, i risultati sono qualcosa di più che semplicemente additivi – possono diventare moltiplicativi: in tal caso, i migliori talenti di una persona catalizzano quelli migliori in un'altra e poi in un'altra ancora, producendo così risultati di gran lunga superiori a quelli ottenibili da un qualunque individuo singolarmente. La spiegazione di questo aspetto della prestazione del team sta nelle relazioni fra i suoi membri – nella chimica esistente al suo interno.

In un classico studio sul QI di gruppo condotto da Wendy Williams e Robert Sternberg di Yale, le capacità interpersonali e la compatibilità dei membri del gruppo emersero come la chiave per spiegare la loro prestazione (un risultato, questo, riscontrato più volte).9-16 Williams e Sternberg scoprirono che i membri socialmente inetti e desintonizzati dai sentimenti degli altri erano di impedimento a tutta l'impresa – soprattutto se mancavano della capacità di risolvere le differenze e di comunicare efficacemente. Ai fini di una buona prestazione, la presenza nel gruppo di almeno un membro con un elevato QI era necessaria, ma non sufficiente; il gruppo doveva andare a segno anche in altri modi. Un altro potenziale svantaggio era rappresentato dal «tipo zelante», un membro che tendeva a controllare o a dominare troppo impedendo così agli altri di dare il loro pieno contributo.

La motivazione contava moltissimo: se i membri del team erano interessati e impegnati al raggiungimento degli obiettivi, ce la mettevano tutta e facevano meglio. Nel complesso, l'efficienza sociale del gruppo lasciava prevedere quanto migliore sarebbe stata la sua prestazione rispetto al QI individuale dei suoi membri. La conclusione è che i gruppi danno prestazioni migliori quando favoriscono uno stato di armonia interna. In tal caso essi fanno leva su tutto il talento dei propri membri.

Uno studio condotto su sessanta team presso una grande compagnia di servizi finanziari americana ha rilevato che, in una certa misura, gli elementi importanti ai fini dell'efficienza del gruppo erano molti. Tuttavia, la dimensione che contava più di tutte era l'elemento umano – il modo in cui i membri del team interagivano fra loro e con coloro con i quali entravano in contatto.9-17  

Le competenze degli individui migliori, basate sui talenti umani fondamentali per il coordinamento sociale, sono diverse:

• Stringere legami: alimentare relazioni utili

• Collaborazione e cooperazione: cooperare con gli altri al conseguimento di obiettivi comuni

• Capacità di gruppo: saper creare sinergie nel lavorare al raggiungimento degli obiettivi del gruppo.

Entrare in collegamento

COSTRUIRE LEGAMI
Alimentare relazioni utili 

Le persone con questa competenza:

• Coltivano e mantengono estese reti informali

• Vanno alla ricerca di relazioni mutuamente vantaggiose

• Stringono rapporti e cercano di trattenere gli altri nel circuito

• Stringono e conservano amicizie personali fra colleghi di lavoro

Jeffrey Katzenberg crea contatti a tutto spiano. Tre segretarie in cuffia – le sue antenne – sondano e scandagliano il settore dell'intrattenimento per trovargli il successivo punto di contatto; chiamano senza sosta per organizzare orari, spostare appuntamenti o ricordare la chiamata imminente – così che durante i suoi momenti liberi Katzenberg può stare continuamente al telefono e raggiungere le centinaia di persone con le quali si tiene normalmente in contatto.9-18  

Katzenberg, uno dei tre fondatori della Dreamworks SKG, una società con sede a Hollywood, non ha pari nella creazione e nell'uso di reti informali. La motivazione delle sue maniacali tempeste di telefonate è, principalmente, quella di restare in contatto – non esplicitamente di «fare affari». D'altra parte, questa routine telefonica dà la carica alle sue relazioni e le mantiene fresche, in modo che quando si presenta un'esigenza di lavoro, può chiamare quelle persone senza che si avvertano soluzioni di continuità e far loro una proposta o definire chiaramente un accordo.

Nel settore dell'intrattenimento le relazioni interpersonali sono la chiave per fare affari. I progetti – un film, una serie TV, un CD-Rom interattivo – sono tutti a breve termine, concentrati sull'obiettivo e limitati nel tempo. Essi richiedono la costituzione istantanea di un'organizzazione – una pseudofamiglia formata dal regista, dai produttori, dagli attori, da tutto lo staff della produzione: una famiglia che ultimato il progetto torna a dissolversi in una rete di potenziali giocatori, dai legami allentati. Katzenberg si mantiene in contatto stabilendo un filo di collegamento con tutti, in modo che, quando occorrerà, potrà pescare fra di essi.

Questo talento nell'istituire connessioni è tipico degli individui eccellenti quasi in ogni tipo di attività. Ad esempio, alcuni studi su individui straordinari in campi come l'ingegneria, l'informatica, la biotecnologia e altri «knowledge works» hanno evidenziato come l'abile costruzione e il mantenimento di reti informali sia essenziale ai fini del successo.9-19 Perfino in campi tecnologici, i legami delle reti sono stabiliti sia all'antica – faccia a faccia e per telefono – sia attraverso messaggi e-mail.

D'altra parte, ciò che consolida un collegamento all'interno di una rete non è tanto la vicinanza fìsica (sebbene anch'essa aiuti), quanto piuttosto la vicinanza psicologica. Le persone con le quali andiamo d'accordo, delle quali ci fidiamo e che sentiamo congeniali a noi, sono quelle con cui, nella rete, stabiliamo i legami più forti.

Le reti istituite dagli individui straordinari non sono assolutamente assemblate in modo casuale; al contrario, sono scelte con attenzione, e ogni persona vi viene inclusa in considerazione di un expertise o un campo di eccellenza particolari. In queste reti, la merce di scambio è rappresentata dall'expertise e dall'informazione, in un continuo, abile gioco di dai-e-prendi. Ogni membro di una rete rappresenta un'estensione di conoscenza o expertise alla quale è possibile accedere con una sola telefonata.

Le persone che sanno servirsi bene li una rete godono di un immenso vantaggio su chi, per trovare le risposte di cui ha bisogno, debba invece servirsi di fonti li informazione generiche o cercare su Internet. Una stima indica che per ogni ora impiegata da costoro nella ricerca di risposte attraverso la propria rete, una persona media, per ottenere le stesse informazioni, ne deve investire dalle tre alle cinque.9-20  

L'arte di servirsi delle reti

Questi legami in rete rappresentano il segreto del successo in molti settori nei quali la gente passi più tempo impegnandosi in progetti intensi e di breve durata, e meno tempo in una singola organizzazione. Quello dell'intrattenimento è di sicuro uno di tali settori. D'altra parte, alcuni prevedono che questo modello arriverà a caratterizzare, negli anni a venire, molti campi – forse la maggior parte. In una realtà così fluida, con organizzazioni virtuali che si formano per realizzare progetti e si dissolvono non appena essi sono stati ultimati, la chiave del successo non sta tanto nello stabilire per chi avete lavorato, ma con chi – e con chi siete rimasti in contatto.

Il settore dell'elettronica ci offre un esempio del ruolo essenziale giocato dalle reti umane nell'imprenditoria. Una stima del valore del settore dei personal computer, dal 1981 al 1990, parte praticamente da zero per arrivare a 100 miliardi di dollari: un immenso accumulo di ricchezza stimolato da alleanze fra intraprendenti maghi della tecnica ed altrettanto intraprendenti investitori di capitali a rischio.9-21 Due terzi delle aziende che si occupano di alta tecnologia furono sostenute da questa razza molto particolare di investitori, che in America hanno stretto una relazione simbiontica con il settore dell'alta tecnologia fin dai suoi esordi, molto tempo prima che le banche – meno che mai i mercati finanziari – ci investissero un centesimo.

Gli investitori di capitali a rischio della Silicon Valley non si limitano a individuare un'idea promettente e mettere dei capitali nel suo lancio – essi restano legati alla compagnia nella quale hanno investito. Il loro coinvolgimento con la compagnia nascente, di solito, comporta l'offerta di importanti contatti nel campo del management, della finanza e nello stesso settore dell'alta tecnologia – come pure un aiuto nel reclutamento dei fondamentali talenti.

Ad esempio, quasi tutte le attività imprenditoriali finanziate dalla Kleiner Perkins Caulfield & Byers, una società di investimento di capitale a rischio, erano state segnalate da persone conosciute e fidate. John Doerr, il socio maggioritario dell'azienda, si esprime così a proposito di questa ricca rete di relazioni: «Dovete pensare alla Silicon Valley come a un sistema efficace per mettere insieme persone, progetti e capitali». Un tale sistema di legami può generare una grande ricchezza; quanto alla sua assenza, essa può imporre un tremendo pedaggio, soprattutto in tempi difficili.

Reti sociali e capitale personale

Erano gli anni Ottanta, a Wall Street, e tutto andava per il meglio. A soli ventiquattro anni, quest'uomo gestiva un fondo comune in titoli di investimento da 3 miliardi di dollari: i suoi guadagni erano spettacolari. Purtroppo, i suoi investimenti erano quasi interamente in obbligazioni di rischio e il fondo perse quasi tutto il suo valore nel crollo dell'ottobre 1987. Quanto a lui, si ritrovò per strada.

«Fu allora che capì che sul lavoro le relazioni sono tutto», mi spiega la moglie. «In quel frangente non ci fu nessuno a proteggerlo. Era diventato talmente arrogante e pieno di sé che non si era dato la pena di coltivare quel tipo di amicizia che avrebbe potuto indurre qualcuno a dire "teniamolo con noi". Quando cercò di trovarsi un altro lavoro non conosceva nessuno che potesse aiutarlo ad approdare da qualche altra parte.»

Dopo sei mesi – e cinquecento telefonate a vuoto – alla fine trovò un altro lavoro, di gran lunga meno prestigioso, partendo dal quale si fece strada salendo nuovamente ai vertici. Ma il suo atteggiamento di fondo era cambiato.

«Ora è presidente della sua società di professionisti, e conosce tutte le altre persone-chiave che lavorano nel settore», spiega la moglie. «La domanda che ci poniamo è: se dovesse perdere il suo lavoro domani, quante telefonate dovrebbe fare per trovarne un altro? Oggi come oggi gliene basterebbe solo una.»

Le reti di contatti sono una sorta di capitale personale. Far bene nella nostra attività dipende in misura maggiore o minore dal buon funzionamento di una rete di persone. Come disse un alto dirigente, per quanto potesse sembrare che egli avesse il controllo sulla qualità del proprio lavoro, «in realtà, oltre ai miei diretti subordinati, ci sono centinaia di persone sulle quali io non ho un controllo diretto ma che possono influenzare il livello del mio lavoro. Almeno venticinque di queste persone hanno un ruolo essenziale in tal senso».9-22  

Uno dei vantaggi insiti nel costruire relazioni è il serbatoio di amicizia e fiducia che ne deriva. I manager più efficaci sono bravissimi a coltivare queste relazioni; quelli meno in gamba in genere non ci riescono.9-23 Questo è particolarmente importante per avanzare dai gradini più bassi ai livelli più alti di un'organizzazione; tali legami umani sono le vie attraverso le quali gli individui arrivano a essere conosciuti per le loro capacità.

Queste reti strumentali sono probabilmente del tutto distinte dal tessuto di amicizie che coltiviamo principalmente per diletto. Qui la costruzione della relazione ha una motivazione: queste sono amicizie con uno scopo. Le persone abili nel tessere queste reti spesso mescolano la vita privata e quella lavorativa, così che molte, o la maggior parte, delle loro amicizie personali sono strette sul lavoro; tuttavia, per impedire che gli impegni professionali e i programmi privati si confondano, occorrono chiarezza e disciplina.

Chi è timido, introverso o tende a isolarsi non è, naturalmente, molto bravo a coltivare queste relazioni. E le persone che si limitano ad accettare gli inviti senza mai ricambiarli, o che circoscrivono la propria conversazione all'attività professionale, fanno ben poco per ampliare la propria rete di relazioni.

Un altro errore comune è un'eccessiva gelosia del proprio tempo e dei propri impegni di lavoro, che porta a declinare le richieste d'aiuto e di cooperazione, col risultato di generare risentimento e una rete stentata. D'altra parte, coloro che non sanno mai dire di no ogni volta che qualcuno chiede loro qualcosa rischiano di caricarsi a tal punto, che il loro stesso lavoro ne soffre. Gli individui capaci di prestazioni straordinarie sanno trovare un equilibrio fra le priorità del loro lavoro e alcuni favori scelti con attenzione – e in tal modo costruiscono crediti di amicizia con persone che in futuro potrebbero rappresentare risorse essenziali.9-24  

La costruzione di rapporti è fondamentale per sviluppare relazioni forti e proficue. Il rapporto è imperniato sull'empatia e di solito si forma spontaneamente nel corso di conversazioni casuali sulla famiglia, lo sport, i bambini e le cose della vita. Infine, costruire un'intima amicizia di lavoro significa stabilire un'alleanza, una relazione sulla quale poter contare. Chi è molto abile nello stringere relazioni – persone come Katzenberg o Doerr – può fare appello a una rete di amicizie estesa e in continua espansione.

I manager delle relazioni

Marks & Spencer, la grande catena di dettaglianti britannica, fa un omaggio insolito ai suoi fornitori regolari: una speciale tessera che consente loro di entrare negli uffici della catena in qualunque momento lo desiderino. Sebbene essi debbano comunque prendere appuntamento, la tessera li fa sentire membri effettivi della famiglia Marks & Spencer.

Questo è esattamente il punto. La tessera fa parte dello sforzo intenzionale della Marks & Spencer per alimentare una relazione di fiducia e di cooperazione con i propri fornitori. Quello sforzo include viaggi organizzati insieme ai fornitori, per visitare fiere e fonti di materie prime in altri paesi. L'obiettivo è quello di rafforzare la comprensione reciproca, come pure di individuare la possibilità di sviluppare insieme nuovi prodotti.

Il programma della Marks & Spencer esemplifica la tendenza, emergente fra fornitori e dettaglianti, di costruire relazioni collaborative, invece di giocare l'uno contro l'altro. Questa strategia cooperativa comporta dei vantaggi tangibili: un'analisi di 218 dettaglianti che vendevano i ricambi auto di un particolare fabbricante ha dimostrato che – rispetto agli altri – i rivenditori che si fidavano del produttore avevano una probabilità inferiore del 22 per cento di rivolgersi ad altri fornitori, mentre le loro vendite erano superiori del 78 per cento.9-25  

Sebbene i legami fra queste grandi organizzazioni possano sembrare astratti, essi si riducono poi alle quotidiane relazioni fra venditori, account manager, product manager e simili. Queste alleanze interpersonali fra individui di compagnie diverse producono concreti benefici per entrambe le parti; costoro possono condividere informazioni riservate rilevanti per entrambi e assegnare uomini e risorse alla personalizzazione della propria relazione d'affari. Gli uomini di una compagnia possono a volte comportarsi, de facto, come consulenti dell'altra. Ad esempio, un team di venditori della Kraft Foods si assunse l'onere di studiare per sei mesi le vendite di un dettagliante. In seguito, il team della Kraft fece al suo cliente alcune raccomandazioni per la riorganizzazione del magazzino e degli spazi di esposizione di nuovi articoli che riflettevano recenti tendenze dei consumatori. Il risultato fu che le vendite del dettagliante – e di conseguenza i suoi acquisti di prodotti Kraft – aumentarono entrambi di circa il 22 per cento.9-26  

Un altro esempio: la Procter & Gamble era solita pagare i propri sales manager sulla base del volume ci inventario che riuscivano a vendere ai dettaglianti, anche se poi la merce finiva nei loro magazzini. Questo però significava che i dipendenti della P&G erano compensati per una strategia che, in ultima analisi, nuoceva ai dettaglianti ed erodeva la relazione col foratore Ora la P&G ha modificato la sua politica in modo che i suoi venditori siano compensati per massimizzare sia i risultati della P&G, sia quelli dei negozi che vendono i suoi prodotti.

Poiché una relazione fra due compagnie non è altro che la risultante dei legami formatisi fra le persone all'interno delle due aziende, la chimica interpersonale è essenziale. Per questa ragione, la Sherwin-Williams, produttrice di vernici, invita i manager della Sears di Roebuk, uno dei suoi più importanti rivenditori, a partecipare alla selezione dei rappresentanti che gestiranno i rapporti reciproci.

Come ha affermato Nirmalya Kumar, scrivendo di questo approccio sulla Harvard Business Review, «Il gioco di fiducia ha delle implicazioni sul tipo di persone che una compagnia ingaggia per lavorare con i [suoi] partner… I produttori, i venditori e i responsabili degli uffici acquisti si sono tradizionalmente concentrati sul volume delle vendite o sui prezzi. Costoro devono essere sostituiti da manager delle relazioni che sappiano come comportarsi».9-27  

E ora tutti insieme

COLLABORAZIONE E COOPERAZIONE
Lavorare con gli altri verso obiettivi comuni 

Le persone con questa competenza:

• Trovano un equilibrio fra la concentrazione sul compito e l'attenzione alle relazioni

• Collaborano condividendo progetti, informazioni e risorse

• Promuovono un clima amichevole e cooperativo

• Individuano e alimentano le opportunità di collaborazione

L'Intel, produttrice di processori per computer di grandissimo successo, aveva un problema paradossale: il suo stesso successo la stava, in un certo senso, uccidendo. L'organizzazione era estremamente concentrata sugli obiettivi; il suo interesse per lo sviluppo dei prodotti, per le tecnologie innovative con le quali rimanere all'avanguardia e per la rapida introduzione di novità, fruttavano bene in termini di quote di mercato e di profitti ingenti. E tuttavia, erano in troppi a non trovarlo più divertente.

Questo fu, comunque, il modo in cui il consulente di una divisione dell'Intel, chiamato per dare un parere, mi raccontò di quella situazione.

«Volevano un seminario che gli spiegasse come curarsi dell'aspetto relazionale del lavoro, un aspetto che stava diventando sempre meno piacevole», mi spiegò il consulente. «A livello personale avevano simpatia gli uni per gli altri, ma erano talmente concentrati sul raggiungimento dei loro obiettivi, che le relazioni di lavoro ne soffrivano. Dovevano far capire ai supervisori che non basta semplicemente portare a termine un compito, se per farlo distruggi le relazioni nel gruppo. Dovevano far capire al management che il lato umano ha conseguenze molto tangibili.»

La crisi dei rapporti interpersonali all'Intel sottolinea il valore di uno spirito collaborativo e cooperativo. I gruppi di persone che si divertono lavorando insieme – che godono della reciproca compagnia, sanno scherzare fra loro e condividere momenti piacevoli – dispongono del capitale emotivo non solo per eccellere nei momenti buoni, ma anche per superare insieme frangenti difficili. I gruppi che non condividono questo legame emotivo, quando sono sotto pressione corrono un maggior rischio di paralizzarsi, di diventare disfuzionali o di disintegrarsi.

Anche coloro che sottoscrivono la spietata ideologia secondo la quale «gli affari sono una guerra» e che non vedono ragione di coltivare un tono più umano, probabilmente farebbero bene a riflettere sull'immenso sforzo investito dagli eserciti nel coltivare lo spirito di corpo a livello di gruppo. La sofisticata intuizione di ciò che fa funzionare bene un'unità sottoposta a pressioni straordinarie ha sempre indicato che i legami emotivi fra i membri del gruppo sono fondamentali per il morale, l'efficienza e la sopravvivenza stessa degli uomini.

Nozze aziendali

Tutti sapevano che per Al, il nuovo vicepresidente di un grande ospedale cittadino, la riunione era stata un disastro personale. Di certo, tutti i convenuti erano d'accordo sul fatto che l'incontro fosse stato indetto per un buon fine – quello cioè di creare una prospettiva e una strategia per un programma in difficoltà che Al era stato chiamato a gestire. Ma Al sabotò se stesso e la riunione. Come ammise in seguito, «fu un gran bel calcio nel sedere».

Il primo errore di Al fu quello di indire la riunione degli alti dirigenti dell'ospedale, già oberati d'impegni, con troppo poco preavviso, scegliendo un giorno in cui sapeva che il vicepresidente dell'unità di nursing – una persona che doveva dare un contributo fondamentale – di solito non era in ospedale. Anche il consulente del gruppo dirigente non sarebbe riuscito ad arrivare in tempo. Il secondo errore di Al fu di non offrire un briefing prima della riunione, né una preparazione di alcun genere – stava andando a braccio, nonostante che quello fosse il suo debutto come nuovo vicepresidente. Il suo terzo errore fu quello di respingere recisamente l'offerta di Sarah – suo superiore e presidente dell'ospedale – di aiutarlo a progettare una riunione brillante e più efficace.

Nel pieno svolgimento della riunione, l'impreparazione e il nervosismo di Al apparvero tormentosamente evidenti a tutti. I convenuti ebbero la sensazione che quella riunione fosse una perdita del loro tempo. Sarah sentiva che la disastrosa prestazione di Al metteva in cattiva luce la sua stessa decisione di coinvolgerlo in quel lavoro.

Che cosa era andato così storto?

James Krantz – un professore della Yale School of Organization and Management che osservò Al e Sarah mentre lavoravano – sostiene che la riunione fallita fosse solo un sintomo di qualcosa di profondamente sbagliato nella loro relazione di lavoro.9-28 Con sorprendente rapidità i due si erano calati in un modello che tirava fuori il peggio da entrambi. In privato, Al ammise di percepire Sarah come dominante e ipercritica nei suoi confronti, cronicamente insoddisfatta di qualunque cosa lui facesse; dal canto suo, Sarah disse che Al sembrava troppo passivo, inetto e maldisposto verso di lei. A livello emotivo, i due sembravano una coppia intrappolata in un matrimonio infelice – tranne per il fatto che questo era lavoro, e non vita privata.

Tuttavia, come osserva Krantz, ciò può accadere dappertutto con un'allarmante facilità. Qualunque superiore e qualunque subordinato possono scivolare in una dinamica emotiva distruttiva perché ciascuno dei due ha bisogno dell'altro per raggiungere il proprio successo. Un subordinato può far sembrare il proprio superiore efficiente – o patetico – agli occhi del suo capo, dal momento che il superiore è responsabile del rendimento dei suoi sottoposti. E, naturalmente, il subordinato dipende dal suo superiore per promozioni, aumenti salariali, e anche, semplicemente, per conservarsi il posto – tutti elementi che lo rendono emotivamente vulnerabile rispetto al suo capo.

E qui sta la benedizione – o la maledizione. Questa interdipendenza lega subordinato e superiore in modo potenzialmente molto intenso. Se entrambi se la cavano bene emotivamente – se stabiliscono una relazione di fiducia, uno sforzo comprensivo e ispirato – la loro prestazione brillerà. Ma se emotivamente le cose andranno male, la relazione potrà trasformarsi in un incubo e la loro prestazione si tradurrà in una serie di disastri di maggiore o minore entità.

La coppia verticale

La facoltà di un subordinato di far sembrare brillante il proprio superiore agli occhi del suo capo è potenzialmente enorme. Ma per Sarah, Al era diventato il polo di attrazione di alcune delle sue ansie da prestazione più profonde. Tanto per cominciare, Sarah era imbarazzata dal fallimento del programma che Al era stato chiamato a gestire – pensava che questo mettesse in una luce negativa le sue stesse abilità di presidente, e minacciasse la sua reputazione professionale. A questo punto dubitava delle capacità di Al di salvare l'unità – e di conseguenza la sua reputazione di presidente – e quindi era irritata per la prestazione deludente di lui.

Da parte sua, nel lavoro precedente, Al era stato perfettamente capace; la promozione a vicepresidente però gli aveva lasciato un senso di insicurezza. Temeva che gli altri membri del gruppo dirigente lo considerassero un incompetente; nei momenti peggiori, si sentiva un impostore. E a rendere tutto più difficile, Al percepiva la mancanza di fiducia di Sarah – il che non faceva che aumentare le sue ansie e la sua inettitudine.

Ciascuno dei due, nel proprio intimo, sentiva che l'altro era la fonte dei suoi problemi: Al capiva che Sarah stava indebolendo la sua fiducia in se stesso esercitando un controllo eccessivo e dubitando della sua competenza. Proprio come temeva Al, Sarah aveva cominciato a considerarlo privo della sicurezza e della competenza necessarie per il lavoro che si aspettava da lui; per questi motivi, sentiva il bisogno di intromettersi e di assumersi la responsabilità per tutti e due, perfino in modo aggressivo. Il risultato era una spirale discendente nella quale Al divenne sempre più passivo, insicuro e inetto, mentre Sarah prese a microgestire la situazione, diventando sempre più critica ed esercitando un sempre maggior controllo – fino a cercare di svolgere lei il lavoro di Al.

Krantz usa un termine tecnico per riferirsi a questa dinamica fra Sarah e Al: la chiama «identificazione proiettiva». Ciascuno dei due proiettava sull'altro le sue peggiori paure e i suoi dubbi, innescando una profezia emotiva che tendeva ad autoverificarsi.9-29 Ogni stretta relazione di lavoro può assumere questi toni nascosti, sebbene quella fra un superiore e un subordinato sia più soggetta a questo sabotaggio emotivo.

Tali collusioni inconsce hanno una funzione psicologica alquanto sinistra: impediscono alle persone di affrontare, o addirittura di riconoscere, i problemi, le cattive notizie o i conflitti. Se un superiore può attribuire a un subordinato un proprio errore – e i problemi che ne derivano per l'organizzazione – allora non dovrà mai affrontare la vera causa del problema, ossia se stesso. Un sintomo di questo tipo di proiezione – «il problema sta in lui, non in me» – è il superiore che non riesce mai a trovare o a nominare un proprio sostituto, nemmeno quando si approssima il momento della pensione. Nessuno è abbastanza bravo – ogni candidato ha difetti imperdonabili.

Una carezza in alto e un calcio in basso

Il servilismo dei subordinati e una corrispondente arroganza nei superiori rappresentano un altro sintomo fin troppo comune della proiezione. I subordinati vedono il superiore come se quello avesse un particolare potere o una particolare abilità; quanto al superiore, egli entra nella proiezione, gonfiando il proprio senso di sé al punto da ritenere che le normali regole del vivere civile non si applichino più al suo caso.

Questo modello sembra particolarmente comune in alcune culture. Deepak Sethi – esperto della formazione degli alti dirigenti – mi ha raccontato che in India, il suo paese d'origine, la norma è sempre stata «una carezza in alto e un calcio in basso». Come dice Sethi: «Nella maggior parte delle compagnie indiane vecchio stile c'è una completa mancanza di empatia verso il basso. Lo si vede nei capi, che sono apertamente collerici con i sottoposti. Non c'è alcuna condanna di questo comportamento; è del tutto accettabile gridare nel rivolgersi ai propri subordinati».

Una delle ragioni fondamentali per cui i subordinati sopportano, afferma Sethi, è che molte compagnie indiane sono possedute da famiglie potenti, e le persone altamente qualificate sono molte di più dei buoni posti di lavoro disponibili; «quindi, se sei un manager di professione, sei alla mercé dei proprietari».

Una comprensibile conseguenza della relazione sociale esemplificata dal motto «una carezza in alto e un calcio in basso» è un grande risentimento «che non viene mai espresso verso l'alto, ma è sfogato invece verso il basso, in una catena di rabbiosa villania». Questo spinge i lavoratori a sabotare passivamente il successo dell'azienda, ad esempio non ultimando il proprio lavoro in tempo – il che, naturalmente, porta il capo a strillare ancora una volta contro tutti.

Questo ciclo inesorabile ricorda il punto di stallo fra Sarah e Al: poiché lei credeva di non potersi fidare del fatto che lui facesse abbastanza bene il suo lavoro, continuava a far pressione e a incombere aspettandosi il peggio. Questo, naturalmente, umiliava Al e indeboliva le sue capacità.

La storia di Sarah e Al, per fortuna, trovò una felice soluzione. Sarah era profondamente consapevole del fatto che nella loro relazione ci fosse qualcosa di sbagliato, se non altro perché essa era in aperto contrasto con i legami efficaci che ella aveva con tutti gli altri membri del gruppo dirigente. Una volta formulata la diagnosi, Sarah riuscì a smettere di gestire Al nei minimi dettagli, gli dimostrò di avere un certa fiducia nelle sue capacità, e gli chiarì le sue responsabilità. Non più oppresso dalla paura che lei lo considerasse inadeguato per il suo lavoro, Al riuscì nuovamente a prendere l'iniziativa e a dimostrare la propria competenza.

La storia di Sarah e Al ha vaste implicazioni. Praticamente chiunque abbia un superiore fa parte di almeno una «coppia» verticale; ogni superiore ne forma una con ciascuno dei suoi subordinati. Queste coppie verticali sono un'unità fondamentale nella vita delle organizzazioni, qualcosa di simile a molecole umane che interagiscono per formare quel reticolo di relazioni che è l'organizzazione. E mentre le coppie verticali sono permeate della carica emotiva immessa in una relazione dal potere e dall'obbedienza, le coppie fra individui di pari grado – le nostre relazioni con i colleghi – hanno una componente emotiva parallela: qualcosa di simile ai piaceri, alle gelosie e alle rivalità esistenti tra fratelli.

Se esiste una situazione in cui occorre che l'intelligenza emozionale penetri nell'organizzazione, è proprio a questo livello più elementare. La costruzione di relazioni fruttuose e collaborative comincia dalle coppie di cui facciamo parte sul lavoro. Portare l'intelligenza emotiva in una relazione di lavoro può servire a lanciarla verso l'estremo in evoluzione, creativo e reciprocamente interessante del continuum; non riuscire a farlo aumenta il rischio di andare alla deriva verso la rigidità, lo stallo e il fallimento.

Talenti di squadra

CAPACITÀ DI LAVORO IN TEAM
Creare sinergia mi lavoro verso fini collettivi 

Le persone con questa competenza:

• Sono modelli di qualità come il rispetto, la costruttività e la cooperazione

• Attirano tutti i membri del gruppo coinvolgendoli in una partecipazione attiva ed entusiasta

• Costruiscono identità di squadra, spirito di corpo e impegno

• Proteggono il gruppo e la sua reputazione; condividono i propri meriti con gli altri

• Offrono stimoli ispiratori e una prospettiva convincente

Il lavoro di squadra è della massima importanza per compagnie come la Owens Corning, un fabbricante di materiali da costruzione, che si ritrovava a lavorare con circa duecento sistemi software incompatibili, ciascuno progettato su misura per una funzione particolare – come fare il conto delle assicelle di copertura o fatturare gli isolamenti. Per aiutare i propri rappresentanti a vendere tutta la linea della compagnia, invece di limitarsi agli isolanti o ai materiali da copertura, alla Owens Corning serviva un sistema di software unificato.

Fu così che Michael Radcliff, il responsabile dei loro sistemi informatici, si rivolse alla SAP, una compagnia tedesca che tratta applicazioni software per l'industria. La SAP installò alla Owens Corning un sistema in grado di collegare tutte le informazioni di un'operazione. Quando un venditore notifica un ordine, il sistema automaticamente stanzia le materie prime per la sua fabbricazione, programma produzione e consegna e si occupa della fatturazione – il tutto con una singola immissione di dati.

Tuttavia esiste un rischio – il sistema SAP è notoriamente complesso: un piccolo guasto può scatenare il finimondo in una compagnia. La Owens Corning e tutte le altre industrie clienti della SAP sparse nel mondo devono poter contare sul fatto che essa le mantenga operative.9-30  

«A volte, prima», mi confida un rappresentante della SAP «avevo qualche difficoltà a farmi aiutare immediatamente da quelli delle altre divisioni per trovare una soluzione unificata al problema di un cliente. Dopo tutto, se il nostro software non funziona, lui non può consegnare i suoi prodotti; i clienti devono essere sicuri di poter contare su di noi.» Ecco dunque entrare in scena TeamSAP, l'abbreviazione che indica i team di dipendenti della SAP a disposizione dei clienti in qualsiasi momento.

Oggigiorno questi team sembrano essere dappertutto nelle aziende – gruppi dirigenti, task force, QC, gruppi di apprendimento, gruppi di lavoro autogestiti, e via dicendo. E poi ci sono i team ad hoc, istituiti all'istante, chiamati in essere nel corso di una riunione come gruppi virtuali dalla vita breve destinati a lavorare a un unico progetto. Sebbene sul lavoro le persone si siano sempre aiutate reciprocamente e abbiano sempre coordinato i propri sforzi, l'ascesa, nelle grandi organizzazioni, di questi team dà nuovo valore alle capacità di lavorare in gruppo.

In un'indagine sugli uffici di contabilità, circa la metà delle mille compagnie statunitensi con il maggior fatturato annuo affermò di servirsi di team autogestiti e di pensare di espandere il loro impiego negli anni successivi.9-31 I vantaggi cominciano a livello personale – gli individui sentono che la combinazione di cooperazione e aumentata autonomia, permessa da un team autogestito, consente di trarre maggior godimento e soddisfazione dal lavoro. Quando questi gruppi funzionano bene, fenomeni quali il turnover e l'assenteismo declinano, mentre la produttività tende a salire.9-32  

Dal punto di vista aziendale, l'aspetto forse più convincente delle squadre è rappresentato dalle loro pure e semplici potenzialità economiche. Proprio come gli individui capaci di prestazioni superiori hanno un immenso valore finanziario, altrettanto è vero per i gruppi. Ad esempio, in una fabbrica di fibre poliestere i team migliori ottennero uno sbalorditivo vantaggio di produttività, rispetto ad altri gruppi che facevano esattamente lo stesso lavoro.

Ognuno dei dieci gruppi migliori produsse ogni anno il 30 per cento di fibre in più, pari a un totale di circa sette milioni di libbre extra.9-33 Al prezzo di mercato di 1,40 dollari la libbra, ciò si traduceva in un valore economico aggiunto di 9,8 milioni di dollari!

Come mi disse l'analista Lyle Spencer: «I gruppi migliori hanno un immenso potere; quando vai ad analizzare il valore economico aggiunto, scopri che è fuori da ogni proporzione rispetto ai salari dei loro membri. Dati come questi smentiscono chi liquida queste competenze o l'istituzione di gruppi ritenendole eccessivamente soft, i vantaggi che esse comportano sono assolutamente reali».

Spencer aggiunge che i benefici derivanti dalla presenza, ai vertici, di squadre capaci di alte prestazioni, offrono guadagni ancora maggiori: «Ai vertici della gerarchia, il raggio d'azione è più ampio – si fanno progetti che si estendono nel futuro di cinque-dieci anni – e per una compagnia i vantaggi economici di un gruppo dirigente capace di elevate prestazioni possono essere immensi».

La presenza di gruppi forti è essenziale in un clima aziendale di profondo cambiamento. Ho visitato la AT&T nel 1996, poco tempo dopo che aveva annunciato la propria scissione in tre compagnie separate e il taglio di quarantamila posti di lavoro. Un dirigente, in un'unità che adesso fa parte della Lucent Technologies, mi confidò: «L'angoscia non è avvertita ovunque. Molte unità tecniche, dove le persone lavorano in gruppi assai uniti e danno un grande significato a ciò che fanno insieme, sono discretamente impermeabili al turbamento».

Il dirigente della AT&T aggiunse: «Quando c'è un forte team autogestito, che abbia ben chiara la sua missione, segua standard elevati per il suo prodotto e percepisca chiaramente come fare il proprio lavoro – be' non vedi le paure e le incertezze che si riscontrano in altre parti dell'organizzazione. I membri di questi gruppi ripongono la propria fiducia negli altri componenti del team, e non solo nell'organizzazione o nei suoi leader».

Gruppi che puntano alla realizzazione

Un amico che dirige un team di progettisti di software della Silicon Valley mi racconta: «Con una sola telefonata, ognuna delle persone con cui lavoro potrebbe ottenere un posto, qui in città, pagato ventimila dollari in più all'anno. Ma non lo fanno».

Perché?

«Perché io faccio in modo che continuino a divertirsi.»

Questa capacità, di fare che tutti, in un gruppo, siano entusiasti di ciò che stanno realizzando insieme, sta al centro dell'abilità di mettere insieme e guidare un team. Studi condotti sui migliori gruppi autogestiti hanno rilevato che una massa critica dei loro membri ha una passione per il lavoro in gruppo. Questa spinta a «realizzarsi come team» scaturisce dalla combinazione di un impulso competitivo condiviso, di forti legami sociali e di fiducia nelle proprie abilità. Messi insieme, questi elementi producono quelli che Lyle Spencer Jr definisce «team veloci e concentrati, caratterizzati da un clima amichevole, pieno di fiducia, divertente».9-34  

Chi lavora in questi team tende a condividere un modello di motivazione. Costoro sono competitivi e imparziali nell'assegnare ai membri del gruppo i ruoli più adatti ai loro talenti. Hanno anche un forte bisogno di affiliazione – amano le persone di per se stesse – il che li rende affiatati, capaci di gestire meglio i conflitti e di offrirsi sostegno reciproco. E invece di ambire a un potere volto esclusivamente al proprio tornaconto, costoro lo esercitano nell'interesse del gruppo – in altre parole, condividono l'impegno verso l'obiettivo comune.

Come osserva Spencer, questo è esattamente il tipo di team che va sempre più diffondendosi nelle organizzazioni imprenditoriali operanti nel campo dell'alta tecnologia, dove la rapidità di sviluppo dei prodotti è di vitale importanza per soddisfare la pressione competitiva di un settore in cui la vita di una linea di prodotti si misura in settimane o mesi. Solo vent'anni fa le capacità di lavorare in team erano considerate solo abilità-soglia, non una qualità che caratterizzasse i leader migliori. Negli anni Novanta, invece, esse hanno assunto una grande rilevanza come qualità distintive degli individui capaci di prestazioni eccellenti. All'IBM, nell'80 per cento dei casi, l'abilità che un individuo dimostra come team leader, fa prevedere «se si tratta di un tipo straordinario o solo mediocre», mi spiegò Mary Fontaine della Hay/McBer. «Queste sono persone che possono creare prospettive convincenti, concettualizzare il proprio lavoro in modo eccitante ed esprimerlo in modo semplice ed energico», ispirando così negli altri l'entusiasmo per lo sforzo collettivo.

In uno studio condotto dal Center for Creative Leadership su alti dirigenti americani ed europei le cui carriere si erano arenate, l'incapacità di costruire e guidare un gruppo costituiva una delle ragioni più comuni del loro insuccesso.9-35 Le capacità di lavorare in gruppo, che in uno studio simile, condotto al principio degli anni Ottanta, erano risultate di scarso rilievo, dieci anni dopo erano emerse come caratteristica fondamentale ai fini della leadership. Negli anni Novanta, la capacità di lavorare in team era diventata la competenza manageriale più spesso valutata negli studi sulle organizzazioni di tatto il mondo.9-36  

«La sfida numero uno per la leadership, qui da noi, consiste nell'ottenere che i capi delle nostre unità facciano un gioco di squadra, in altre parole, che collaborino», mi spiega un dirigente impiegato presso una delle cinquecento aziende americane con il maggior fatturato annuo. Questa è una grande sfida a qualsiasi livello, in qualsiasi organizzazione. La capacità di lavorare in team entra in gioco ogni volta che gli individui collaborino ad raggiungimento di un obiettivo comune, indipendentemente dal fatto che si tratti di un gruppo informale di tre persone o dell'intera divisione di una grande società. Negli anni a venire la richiesta di individui capaci di lavorare in team potrà solo crescere, in quanto il lavoro ruota sempre più intorno a gruppi ad hoc e a organizzazioni virtuali, intorno a team che sorgono e si dissolvono spontaneamente nel momento in cui, rispettivamente, l'esigenza della loro esistenza si presenta e scompare – e in quanto i compiti da affrontare diventano così complessi che nessun individuo ha tutte le capacità necessarie per portarli a compimento da solo.

Il valore dei team eccezionali

Ciò che è vero per gli individui, vale anche per i gruppi: l'intelligenza emotiva è la chiave dell'eccellenza. Naturalmente contano anche l'intelletto e l'expertise – ma ciò che distingue i team eccellenti dalla media ha a che fare molto di più con la loro competenza emotiva. Studi condotti presso compagnie come la General Electrics, gli Abbot Laboratories e la Hoechst-Celanese si prefiggevano di rispondere a questa domanda: quali competenze distinguono i team più efficienti da quelli mediocri?9-37  

Per trovare la risposta, Vanessa Drukat – ora docente della Weatherhead School of Management presso la Case Western Reserve University – analizzò centocinquanta team autogestiti in un grande stabilimento americano che produceva fibre poliestere gestito dalla Hoechst-Celanese, la compagnia chimica tedesca (da cui provengono anche i dati di Spencer). Sulla base di dati obiettivi sulle prestazioni, Drukat confrontò i dieci team migliori con quelli mediocri impegnati nello stesso lavoro.

Le seguenti competenze emotive emersero come le capacità distintive dei dieci team superiori:9-38  

• Empatia, o capacità di comprensione interpersonale

• Cooperazione e capacità di unificare gli sforzi

• Comunicazione aperta, la capacità di stabilire norme e aspettative esplicite e di affrontare i membri del gruppo con uno scarso rendimento

• Spinta a migliorare: il team prestava attenzione al feedback sulla propria prestazione e cercava di imparare a far meglio

• Autoconsapevolezza, nella forma di una valutazione delle proprie forze e delle proprie debolezze come gruppo

• Iniziativa e un atteggiamento previdente nella risoluzione di problemi

• Fiducia in se stessi come team

• Flessibilità nel modo di affrontare i compiti collettivi

• Consapevolezza dell'organizzazione, che si esplicava sia nel valutare le esigenze di altri gruppi-chiave della compagnia, sia nell'essere pieni di risorse quando era il momento di avvalersi di ciò che essa aveva da offrire • Costruire legami con altri team

Un esempio pratico del modo in cui tali competenze consentono ai team di svolgere il proprio lavoro al meglio emerge da uno studio sulle decisioni strategiche di quarantotto gruppi dirigenti ad alto livello operanti presso compagnie per la lavorazione dei prodotti alimentari, negli Stati Uniti. Ai direttori generali fu chiesto di specificare la decisione strategica più recente presa dalla compagnia, e successivamente i ricercatori contattarono tutti i membri del gruppo dirigente che erano stati coinvolti in essa.9-39  

Prendere decisioni collettivamente, come team, è un'attività che presenta un paradosso: da un lato il buonsenso direbbe che, quanto più il dibattito è intenso e procede a mota libera, tanto migliore sarà la decisione finale; d'altro canto, però, un conflitto aperto può corrodere la capacità di collaborazione del team.

Molte ricerche condotte sui processi decisori nei gruppi dirigenti dimostrano che la presenza di individui dotati di elevate capacità cognitive, molteplici prospettive ed expertise porta il gruppo a decisioni qualitativamente superiori. Tuttavia, intelletto ed expertise non bastano: i membri di un team devono anche sapersi amalgamare in una sana interazione che favorisca un dibattito rigoroso e aperto, e l'esame critico degli assunti altrui.

Ottenere questo livello di apertura può essere una questione delicata, con una valenza emozionale. Un troppo facile consenso rischia di portare a una decisione di bassa qualità; troppe contese genereranno invece mancanza di unità e di fermezza. Che cosa consente a un gruppo dirigente di discutere accanitamente ma di arrivare poi a concludere con un robusto consenso? La presenza di intelligenza emotiva.

E che cosa porta invece un gruppo fuori strada, trasformando un sano dibattito in guerra aperta? Ciò s: verifica quando il disaccordo viene espresso come attacco personale, o quando il dibattito è in realtà al servizio di un gioco politico, o ancora, quando una disputa innesca l'ostilità in un membro del gruppo.

Il punto fondamentale, qui, è che quando gli argomenti si caricano di una valenza emotiva, la qualità delle decisioni ne soffre. Come mi disse un consulente: «L'immagine del gruppo dirigente ben coordinato è un mito quando i sequestri dell'amigdala, i conflitti e altri nodi irrisolti carichi di emotività interferiscono con l'abilità di pianificare, decidere e apprendere insieme». D'altro canto, le decisioni migliori scaturiranno da un dibattito libero da cattivi sentimenti, effettuato con uno spirito positivo di ricerca reciproca, nel quale tutti percepiscano che il processo è equo e aperto e condividano la preoccupazione per l'organizzazione piuttosto che un interesse limitato ed egoistico.

Riassumendo, esiste una via di mezzo: i team possono servirsi delle battaglie intellettuali per aliare la qualità delle decisioni, purché mantengano il conflitto libero dall'emotività che potrebbe sabotare l'impegno di alcuni membri o allontanarli dal gruppo. La soluzione sta nel possesso di competenze emotive come la consapevolezza di sé, l'empatia e la comunicazione aperta – ossia nella qualità della discussione che ha luogo nel team.

Gli individui che fanno da collante

L'abilità di conservare le capacità cooperative di un gruppo è di per se stessa un talento prezioso. Quasi certamente, ogni team altamente funzionale ha al proprio interno almeno un membro dotato di questo talento. Tanto maggiore è la complessità del compito che il gruppo deve affrontare, tanto più essenziali sono, per il suo successo, questi individui. Questo è evidente soprattutto nel campo della scienza e della tecnologia, la cui missione è quella di scoprire o creare. Prendiamo, ad esempio, le neuroscienze. «La ricerca biomedica è sempre più interdisciplinare e improntata all'alta tecnologia; nessuno può sapere tutto», mi spiega Jerome Engle, un neurobiologo professore di neurologia che dirige il Seizure Disorder Center dell'UCLA. «Oggi tutto si basa sui team di ricerca. Gli individui capaci di collaborare con gli altri e di infondere in essi una grande motivazione, quelli che hanno il dono di far funzionare un progetto, sono il collante che tiene tutto insieme. Il futuro della ricerca dipende dal fatto di avere a disposizione nel proprio team persone così.»

Tuttavia, almeno nel mondo accademico, queste capacità sono tristemente sottovalutate. «Quando qualcuno si presenta per un posto di ruolo, il valore del suo contributo al gruppo non viene tenuto in alcuna considerazione», aggiunge Engle. «Di solito questi buoni collaboratori tendono a pubblicare insieme ad altre persone, in genere con il loro supervisore, e i comitati accademici danno ciecamente per scontato che il lavoro sia tutto dell'altro – sebbene queste persone abbiano un'importanza fondamentale. È un disastro. Mi ritrovo a combattere affinché gli esaminatori comprendano che l'arte della collaborazione è di per se stessa un'abilità per la quale vale la pena di tenere una persona – è essenziale nella ricerca biomedica. Ma gli accademici che provengono da discipline come la matematica e la storia, in cui la ricerca è un'impresa solitaria, non lo capiscono.»

Il risultato è che «si assiste a una controreazione fra i ricercatori più giovani, che a volte hanno paura di collaborare proprio a causa di ciò – il che può comportare che si arrangino da soli compiendo ricerche banali o poco importanti», spiega Engle. «Questo sta creando un'atmosfera di paranoia, una non-disponibilità a condividere dati o lavori che sta insidiando la capacità di collaborare di un'intera generazione di scienziati.»

Ma se il mondo accademico è stato lento a riconoscere e a ricompensare il talento per la cooperazione e il lavoro di squadra, le aziende non lo sono state altrettanto. Richard Price, psicologo presso l'Institute for Social Research dell'Università del Michigan, chiama questi soggetti capaci di un effetto così splendidamente corroborante – autentiche pietre angolari di forti team – «persone che producono salute», abbreviato HEP (health-engendering people). «Esse sono fondamentali in un team», afferma Price. «Ciò non significa che tutti debbano essere dei leader socio-emozionali, ma se dispone di un HEP, il gruppo lavora dieci volte meglio.»

Un team leggendario – il gruppo di ingegneri della Data General i cui sforzi furono immortalati nel best seller Soul of a New Machine – disponeva di due HEP.9-40 Il capitano in seconda del gruppo, Carl Alsing, era il confidente e il supporto emotivo di tutti. Alsing, che prima di orientarsi verso l'ingegneria elettronica aveva progettato di diventare psicoterapeuta, divenne, per il gruppo, un propagatore di idee; tutti si sentivano a proprio agio nel parlare con lui.

Il secondo elemento corroborante della squadra era Rosemarie Seale, la segretaria, che funzionava come una sorta di «madre della comunità», assicurandosi che fossero prese in considerazione le esigenze materiali di tutti, gestendo le crisi di minore entità – ad esempio lo smarrimento di una busta paga – e assicurandosi che le persone che si univano al team fossero presentate agli altri.9-41 Sebbene possano sembrare routinari e terra terra, questi compiti di segretariato sono essenziali perché consentono agli individui di sentirsi protetti, appoggiati e fatti oggetto di premure nell'ambiente di lavoro. Questo, secondo qualcuno, è il motivo per il quale le segretarie, o le loro equivalenti, non scompariranno mai del tutto dal mondo del lavoro nonostante la presenza di tecnologie che sembrerebbero renderle obsolete.

Il team leader competente

Una casa farmaceutica americana aveva un problema di costi; dopo che un nuovo farmaco veniva scoperto e brevettato, la sperimentazione e lo sviluppo richiedevano un investimento di circa 100 milioni di dollari e fino a tredici anni di lavoro per arrivare all'approvazione della FDA che ne consentiva l'immissione sul mercato. Poiché il brevetto per il principio attivo di un nuovo farmaco dura solamente diciassette anni, la casa farmaceutica aveva una finestra di circa quattro anni per recuperare i suoi investimenti e ottenere un profitto prima che il farmaco potesse essere commerciato da chiunque.

Una task force analizzò il problema e raccomandò una nuova struttura: team dedicati a progetti specifici, concentrati su farmaci particolari, guidati da un project leader che facesse riferimento direttamente al capo della Ricerca e Sviluppo – leader specificamente addestrati nelle competenze della leadership dei gruppi. Queste figure sapevano difendere il prodotto all'interno della compagnia, portando al tempo stesso energia imprenditoriale, entusiasmo e collaborazione nel team.

Quando, tre anni dopo, questi team furono confrontati con altri i cui leader non avevano avuto quel tipo di training, non solo dimostrarono un morale e uno spirito di corpo più alti, ma avevano ridotto i tempi di sviluppo dei farmaci di un 30 per cento, portando da circa quattro a otto anni il tempo durante il quale la compagnia avrebbe avuto l'esclusiva sul prodotto.9-42  

Quella del leader designato è una posizione in qualche modo simile a quella di un genitore in una famiglia. Proprio come i genitori, i leader devono assicurarsi che le loro azioni appaiano giuste a tutti i membri del team; proprio come un genitore, il buon leader si prende cura dei membri del gruppo difendendoli nell'organizzazione intesa in senso lato – ad esempio quando la loro reputazione viene attaccata – e si occupa di loro procurandogli il supporto pratico di cui hanno bisogno, indipendentemente dal fatto che si tratti di fondi, personale o tempo.

I migliori team leader sono individui capaci di coinvolgere chiunque trasmettendo un senso comune di missione, obiettivi e impegni. L'abilità di esprimere una prospettiva convincente che possa servire come forza guida del gruppo può essere il più importante contributo di un bravo team leader. Un leader carismatico può mantenere un gruppo sulla sua rotta anche quando tutto il resto va a rotoli.

Oltre a impostare il fondamentale tono emotivo di una squadra, il leader le fornisce coordinazione – il segreto della cooperazione e del consenso. Quando vennero formati gruppi privi di leader e si chiese ai membri di collaborare alla risoluzione di un problema difficile, i team più efficaci furono quelli che svilupparono spontaneamente una struttura nella quale un individuo organizzava gli sforzi collettivi, così da risolvere un problema difficile nel modo più efficiente possibile. I gruppi che operavano senza leader, nei quali tutti i membri, per amore o per forza, dovevano comunicare con tutti gli altri, erano meno efficaci.9-43  

Tuttavia, i team leader più forti non agiscono tanto come i «cervelli» del gruppo – ossia come individui che prendono decisioni autonomamente – quanto piuttosto come costruttori di consenso. Quando, nel corso di una discussione in cui deve essere presa una decisione, i team leader esprimono la propria opinione troppo presto, il gruppo genera meno idee e quindi prende decisioni meno brillanti. Ma quando i team leader si trattengono, agendo principalmente come facilitatoli dell'attività del gruppo senza imporre le proprie opinioni – esprimendole solo verso la fine della discussione – si approda a una decisione migliore.9-44  

In questo senso, i team leader esercitano al meglio il loro ruolo quando hanno la mano leggera. Questo è vero soprattutto nel caso dei team autogestiti, dove i supervisori non fanno parte della squadra che è in grado di lavorare in autonomia.

In uno studio su team autogestiti che si occupavano di assistenza ai clienti per un'importante società telefonica americana, quando i supervisori davano suggerimenti, e perfino consigli «incoraggianti», i gruppi vacillavano.9-45 Sembrava che il team interpretasse il «consiglio» in due modi: o come un messaggio demoralizzante, volto a sottolineare che il gruppo stava rendendo poco e quindi aveva bisogno di un aiuto extra, o come un'intromissione dall'alto che lo intralciava impedendogli di fare il suo lavoro in modo ottimale.

In altri team – sempre impegnati nell'assistenza ai clienti, ma guidati direttamente da un supervisore – la dinamica era molto diversa. In questi gruppi più tradizionali il feedback dei supervisori aveva un effetto positivo sulla prestazione. La differenza nell'impatto esercitato dal controllo dei supervisori sembra essere imperniata sulla forma istituzionale del team. Se il gruppo poteva autogestirsi, l'intervento di un supervisore – quand'anche animato dalle migliori intenzioni – comprometteva la sua prestazione.9-46 Nel caso dei team autogestiti, quindi, sembra che la miglior forma di leadership sia in realtà un'assenza di leadership.

Team e politica dell'organizzazione

«Hanno questi compartimenti stagni fra autorità e creatività, e nessuno si parla attraverso i confini», mi disse un consulente di uno dei maggiori produttori americani di generi alimentari. «Le persone che gestiscono un marchio non cooperano con quelle che ne gestiscono un altro, meno che mai cercano di escogitare insieme nuovi prodotti o approcci di marketing innovativi. Tuttavia, se vogliono restare competitivi, occorre che istituiscano dei team che trascendano questi confini.»

Organizzazioni di ogni tipo hanno compreso che per raggiungere il successo occorre organizzare i talenti in team in grado di varcare i confini tradizionali. Questo si osserva nelle squadre ad hoc finalizzate a un progetto, come pure nei team istituiti per redigere piani, migliorare processi, sviluppare prodotti, individuare problemi e risolverli. Tutti questi gruppi si cementano intorno a un compito ben preciso, e i loro membri provengono da parti altrimenti separate dell'organizzazione.

Questi team cross-funzionali sono un caso speciale, una sorta di pseudo-squadre che uniscono, orientandola verso un fine comune, una matrice di persone con il piede in due scarpe: la loro unità-base all'interno dell'organizzazione e il loro punto d'incontro comune come team. Poiché costoro rappresentano parti diverse dell'organizzazione, hanno potenzialmente un più vasto impatto e una maggior coordinazione di una squadra suddivisa in compartimenti stagni isolati. Ma anche quando lavora insieme agli altri per il bene dell'organizzazione, ciascun membro resta comunque legato alla sua unità di appartenenza.

Tuttavia, questa eccessiva fedeltà all'unità d'origine può avere effetti disastrosi per il team. Presso un fabbricante d'automobili americano, ad esempio, un comitato direttivo crossfunzionale che stava lavorando al prototipo di un nuovo modello tenne un incontro per determinare le rispettive esigenze di elettricità. L'impianto elettrico della macchina alimenta venti diversi sottosistemi, come lo stereo, il cruscotto, i fari e il motore. Il prototipo di ciascuno di questi sottosistemi veniva a sua volta sviluppato da squadre diverse; quando esse si incontrarono, scoprirono che le loro esigenze, sommate, avrebbero consumato il 125 per cento della potenza elettrica disponibile. E poiché molti membri del comitato direttivo erano stati inviati alla riunione con precise istruzioni da parte dei loro superiori affinché non scendessero ad alcun compromesso, l'incontro fu un disastro.9-47  

Come possono, team come questo, operare in modo efficace? Un'analisi su quarantatré squadre analoghe presso un fabbricante di automobili di portata mondiale – nell'ambito dello stesso studio che riferisce della riunione sugli impianti elettrici – suggerisce diverse possibili risposte. La prima risiede nell'organizzazione: il team riceverà risorse e potere, mentre i suoi membri saranno ricompensati in base alla prestazione collettiva.

Un'altra soluzione sta nell'aumentare il livello collettivo di intelligenza emotiva. Questo può comportare di delegare qualcuno come «leader di processo» il quale si accerti se il lavoro del gruppo denota collaborazione, rispetto reciproco, apertura a diverse prospettive, ascolto, empatia e tutti gli altri elementi essenziali che aumentano il QI di un gruppo. Se il team procede sulla giusta rotta, allora i suoi membri dovrebbero percepire il lavoro come qualcosa di importante, fonte di entusiasmo e di stimolo. In mancanza di questi elementi fondamentali dell'intelligenza emotiva di gruppo – come disse un membro di un team crossfunzionale che non ingranava – l'alternativa è «un fiasco».

Il team come eroe

Per diverse settimane, nel 1997, l'attenzione del mondo fu catturata dallo spettacolo del Sojourner, la rover che arrancava con determinazione nel paesaggio roccioso di Marte.

La saga televisiva della rover che si faceva coraggiosamente strada sul terreno accidentato di Marte, era già di per sé abbastanza drammatica. Ma il vero miracolo era stato lo straordinario sforzo collettivo che aveva portato il Sojourner laggiù.

Il progetto, così com'era stato originariamente concepito dalla NASA, consisteva in un'esplorazione completa di Marte. Nel 1992 esso subì una battuta d'arresto quasi fatale, quando il Congresso congelò i finanziamenti, lasciando solo quanto bastava per costruire un minuscolo modello dimostrativo, originariamente progettato solo come un passo preliminare nel programma più vasto.

I membri del progetto si trovarono così ad affrontare la conversione di quello che avrebbe dovuto essere un modello in scala non funzionante, in una versione miniaturizzata ma perfettamente operativa della sonda.

Anthony Spear, direttore del progetto Pathfinder che produsse il Sojourner, incaricò Donna Shirley, manager del programma, di mettere insieme un team sul modello «Skunkworks» – la famosa squadra di ricerca e sviluppo della Lockheed che si autosequestrò e produsse un fiume di prototipi aeronautici pionieristici, dal primo jet da combattimento americano supersonico al bombardiere Stealth.

Shirley assemblò dunque un team piccolo e ben assortito in grado di portare a termine solo il lavoro necessario alla missione. Spear aumentò ulteriormente l'efficienza del gruppo eliminando alcuni aspetti burocratici che avevano caratterizzato i passati progetti spaziali della NASA. Nel caso di Pathfinder, un unico gruppo si occupava di tutto – dal progetto alle operazioni.

I membri del team condividevano tutto il lavoro nel corso di sedute creative di risoluzione di problemi che spesso si protraevano durante la notte. Si trattava di incontri aperti, nei quali veniva concesso uguale ascolto a chiunque, indipendentemente dal suo rango ufficiale.

Sebbene la sfida fosse scoraggiante, il morale era alto. Al Sacks, manager dei sistemi dati, ricorda di un episodio in cui qualcuno chiese per l'ennesima volta dell'altro denaro. Sacks tirò fuori da sotto al tavolo una pistola di gomma e gli sparò. «Era una faccenda serissima,» dice Sacks «ma noi la buttammo sul ridere.»

Il team doveva essere sempre pronto: nuovi problemi e sorprese erano all'ordine del giorno. Ad esempio, quando stavano chiudendo la rover nel Pathfinder, il veicolo spaziale che l'avrebbe portata su Marte, gli ingegneri si accorsero – durante una conferenza in diretta televisiva – che i grandi petali pieghevoli di metallo progettati per proteggere il veicolo una volta arrivato a destinazione non si chiudevano del tutto. Erano inorriditi.

Rispedita a casa la stampa, la squadra si diede da fare freneticamente per individuare il problema e risolverlo. Poiché il veicolo non era mai stato assemblato completamente, non avevano considerato la possibilità che le chiusure a scatto dei petali cedessero sotto il peso di tutte le parti.

Immediatamente, i membri del team smontarono un modello, fecero alcune leggere modifiche, portarono le parti da sostituire dai laboratori in California al sito di lancio di Cape Canaveral, e le montarono sul veicolo. Funzionò.

Nei sei mesi precedenti al lancio, l'attività fervette ventiquattr'ore su ventiquattro. Quel che teneva tutti in carreggiata, nonostante quel ritmo estenuante, era l'importanza dell'obiettivo. Bridget Landry, ingegnere incaricato dei sistemi di collegamento Terra-Marte, afferma: «L'idea che quello che stavamo costruendo e testando sarebbe stato usato una volta giunti su Marte era davvero eccitante. Ecco, quando arrivavo alla quarta revisione della stessa sequenza nel giro di un'ora, cercavo di pensare a questo!» E tuttavia, aggiunge, «ci sono pochi lavori tutti luce e niente ombre; i migliori, come il mio, sono quelli in cui le gratifiche in termini di interesse, entusiasmo ed emozione compensano il lavoro di bassa routine».

Quella routine produsse una meraviglia. La rover a sei ruote aveva un cervello sorprendentemente modesto: mentre i migliori computer Pentium hanno più di cinque milioni di transistor, nel Sojourner ce ne sono meno di settemila.

Il team aveva inoltre inventato almeno venticinque congegni o processi nuovi, dando vita a un veicolo spaziale in un quarto del tempo normalmente richiesto. Mars Observer, persosi nello spazio nel 1991 prima di raggiungere Marte, era costato un miliardo di dollari; Sojourner invece, riuscì nel suo intento e fu messo a punto spendendo un quarto di quella cifra.

Come disse un membro del team, «fu come se avessimo preso fuoco, niente avrebbe potuto fermarci». Il team del Sojourner era entrato in uno stato di flusso.

Flusso di gruppo

Quando ho chiesto a dirigenti senior di diverso livello di raccontarmi di quando i team di cui avevano fatto parte o che avevano guidato s'erano infiammati – di quando avevano superato se stessi e il gruppo era entrato in uno stato di flusso – continuarono a emergere le stesse descrizioni:9-48  

• Una sfida scoraggiante o una nobile missione. «Una delle ragioni per cui i gruppi spesso non raggiungono i loro obiettivi è che questi sono troppo materialistici», mi disse un vicepresidente dei sistemi di lancio spaziale presso la Lockheed Martin. «Io cerco qualcosa di straordinario: obiettivi abbastanza elevati affinché tutto il gruppo possa star loro dietro.»

Un lavoro così offre un significato e una motivazione convincenti – il lavoro mirato a qualcosa di veramente grande merita i migliori sforzi di tutti. Lo scomparso Richard Feynman, premio Nobel per la fisica, ricordava come le persone coinvolte nel progetto Manhattan vi avessero lavorato in modo molto diverso prima e dopo averne conosciuto lo scopo. Inizialmente, rigide politiche di sicurezza avevano mantenuto tutta la squadra all'oscuro sulla vera natura del progetto, così che spesso il lavoro procedeva a rilento, non sempre in modo ottimale.

Poi Feynman convinse Robert Oppenheimer a spiegare ai tecnici su che cosa stessero davvero lavorando – erano i giorni peggiori della seconda guerra mondale, e il loro progetto era un'arma che avrebbe potuto fermare i nemici dell'Asse che stavano passando da una conquista all'altra. Da allora in poi, ricorda Feynman, «completa trasformazione. Cominciarono a inventarsi il modo di fare meglio le cose. Lavoravano di notte…»9-49 Feynman calcola che – una volta compreso l'obiettivo – il loro lavoro procedette dieci volte più velocemente di prima.

• Intensa lealtà al gruppo. «Quando i membri di team eccezionali parlano dei motivi del proprio grande successo, spesso li senti dire che è così perché si vogliono davvero bene e si preoccupano gli uni degli altri», mi disse Daniel Kim, cofondatore del Center for Organizational Learning del MIT ed ora alla Pegasus Communications. «Se la gente fosse sincera su ciò che rende grandi i team di un'organizzazione, ammetterebbe che parte del successo sta nei legami emotivi che consentono apertura e premura verso gli altri.»

• Diversa gamma di talenti. Quanto più ampia è la gamma di capacità che un team riversa in un compito, tanto più flessibile esso potrà rivelarsi nel soddisfare le mutevoli esigenze che si troverà ad affrontare. La diversità parte da esigenze tecniche, ma si estende anche alla gamma delle competenze emotive – ivi compreso un individuo che faccia da «collante».

• Fiducia e collaborazione altruista. Le persone sentono di poter contare le une sulle altre. Quando, alla Xerox PARC, Bob Taylor mise insieme il team che sviluppò il prototipo del computer user-friendly (il cui progetto, che la Xerox non riuscì a portare fino in fondo, rappresentò la base del primo computer Apple), cercò individui capaci di lavorare in modo collaborativo, e incoraggiò tutti ad aiutarsi reciprocamente nel lavoro. «Potevi passare anche il 40 per cento del tuo tempo a dare una mano a qualcun altro per il suo progetto», ricorda Alan Kay, uno dei primi scienziati esperti di computer al quale fu chiesto di fare parte del gruppo.

• Concentrazione e passione. Le esigenze legate al perseguimento di un grande obiettivo sono di per se stesse fonte di concentrazione: al confronto, il resto della vita può sembrare non solo terra-terra, ma addirittura banale. Per tutta la durata del lavoro, i dettagli della vita sono sospesi. La concentrazione può essere amplificata creando, per il gruppo, uno spazio di lavoro separato dal resto dell'organizzazione – sia nella funzione che nella collocazione fisica. Il progetto Manhattan venne attuato in siti top-secret accessibili solo a chi vi partecipava; il team Skunkworks della Lockheed lavorava in un edificio senza finestre il cui accesso era anch'esso vietato a chiunque altro nella compagnia.

• Un lavoro che sia divertente e gratificante di per se stesso. Una concentrazione tanto intensa è di per se stessa una sorta di acme. I membri del gruppo non lavorano tanto per ricompense estrinseche come il denaro, le promozioni o il prestigio – quanto piuttosto per la gratificazione interiore derivante dal lavoro stesso. Indipendentemente dal fatto che quell'eccitazione provenga dall'impulso a realizzare un obiettivo o dal bisogno di esercitare un impatto, in entrambi i casi c'è un'intensa gratificazione emotiva nel superare tutti gli altri, come parte di un gruppo. Come si confidò un membro del team che si occupava del software presso la Data General, «qui, da qualche parte, c'è qualcosa di grande per me, che non capisco completamente… La ragione per cui lavoro è la vittoria.»9-50  

La squadra come laboratorio di apprendimento: i cinque segreti

Burt Swersey ebbe la sua brillante idea quando un articolo che avevo scritto per il New York Times nel settembre del 1995 attirò la sua attenzione. L'articolo riguardava lo studio condotto presso i Bell Labs – dal quale sembrava emergere che gli individui «eccellenti» di una divisione di ingegneria dovessero il proprio successo più alle capacità che fanno capo all'intelligenza emotiva che non a quelle tecniche; da quella lettura, Swersey trovò l'ispirazione per tentare qualcosa di nuovo con i suoi studenti di ingegneria al Rensselaer Polytechnic Institute.

Inaugurò il suo corso parlando loro dello studio dei Bell Labs, e di quelli che definì «i cinque, semplici segreti del successo»: rapporti, empatia, persuasione, cooperazione e costruzione del consenso. Invece di passare il primo giorno a ripassare gli elementi base dell'ingegneria, annunciò che avrebbero effettuato un'ora di laboratorio per apprendere i cinque segreti.

«Come fareste per stabilire un rapporto con qualcuno che non conoscete?», chiese Swersey.

Mentre gli studenti, al principio un poco sconcertati ed esitanti, offrivano i propri suggerimenti, Swersey li riportava alla lavagna: «Presentarsi, guardare in faccia l'altro mentre gli si parla, porgli qualche domanda personale, stringergli la mano, parlare all'altro di sé, ascoltare con attenzione…»

«Sembrano le risposte giuste», Swersey disse loro. «Ora scegliete qualcuno che non conoscete e prendetevi tre minuti per stabilire un rapporto.»

Gli studenti si lanciarono nel lavoro con entusiasmo; l'aula era piena delle loro chiacchiere e dei loro scherzi. Swersey ebbe qualche difficoltà a farli smettere per passare alla trattazione del «segreto» successivo: l'arte di essere empatici.

Avendo chiesto ai suoi studenti che cosa significasse empatia, scrisse queste risposte alla lavagna: «Preoccuparsi dell'altro, ascoltare, essere di appoggio…». Un giovane con un cappellino da baseball portato al contrario e i piedi appoggiati sul banco mormorò: «Dimostrare che te ne frega qualcosa».

«Questo sembra cogliere bene nel segno», commentò Swersey. «Ora vorrei che tiraste fuori qualche aspetto della vostra vita, nel quale credete di aver bisogno di un certo sostegno, e che lo raccontiate al vostro partner. Il compito del partner è quello di empatizzare.» Il brusio levatosi nell'aula stava a dimostrare che anche questo test procedeva per il meglio.

Così Swersey rilanciò: «Ora immaginate qualcosa che colpisca in modo diretto e negativo il vostro partner, qualcosa che non vorrebbe sentirsi dire. Quanto a voi altri che ascoltate – per quanto possa essere difficile da reggere – resistete alla tentazione di fare l'altro a pezzi, siate empatici.» Così cominciò il gioco di ruolo, mentre gli studenti si producevano nell'inscenare coscienziosamente dei racconti adatti a creare ostilità: «Ti ho ammaccato l'auto». «Ho ucciso il tuo pesce rosso.» «Sono andato a letto con la tua ragazza.»

Quanto ai partner che dovevano essere empatici, Swersey insistette affinché si spingessero oltre uno stoico «Va bene, ho capito», e si mettessero nei panni dell'altro, dicendo qualcosa come: «Mi sento così male per te; chissà come sei sconvolto». Questo portò a un dibattito, esteso a tutta la classe, su una situazione più realistica – ad esempio, in un team di ingegneri, il caso di uno che non riesca a ultimare in tempo la propria parte del progetto. Gli studenti discussero sul fatto di considerare la cosa dalla prospettiva dell'altro – e di quanto fosse importante mostrarsi solidali invece di andare immediatamente in collera.

Analogamente, essi si esercitarono nella persuasione reciproca, e nella costruzione del consenso – prendendosi tre minuti per decidere, come gruppo, quale fosse il gusto di gelato migliore al mondo e perché (una risposta volta alla ricerca di un accordo indicò il Neapolitan, una combinazione di tre gusti molto amati).

Quali furono i risultati di questo piccolo esperimento sociale?

«Quelle sezioni si rivelarono i team migliori che io abbia mai avuto in tutti gli anni in cui ho insegnato Introduzione alla progettazione meccanica, afferma oggi Swersey. «Quegli studenti non solo lavorarono insieme meglio di tutti quelli che avevo avuto prima, ma fecero progetti innovativi ed estremamente ambiziosi. Personalmente, attribuisco buona parte del loro successo al tempo che avevano passato lavorando sui cinque segreti.»

L'esperimento di Swersey, per quanto senza pretese, testimonia un problema di vasta portata nelle organizzazioni, soprattutto quelle che devono vedersela con tecnici esperti. «Quando lavoro con compagnie alle prese con degli ingegneri, il problema principale nella formazione dei team è che, come professionisti, gli ingegneri non considerano importanti le capacità sociali», mi disse Daniel Kim, già al MIT. «Ora queste compagnie stanno prendendo coscienza dei costi legati alla mancanza di competenze emotive.»

Questa presa di coscienza può essere riscontrata anche in scuole come la Harvard Business School e la Sloan School of Management del MIT «Oggi gran parte dei programmi si basa sull'attività in team», aggiunge Kim. «Questa è la nostra risposta alle critiche che ci sono state mosse dalle aziende, secondo le quali i diplomati in scienze aziendali sono stati addestrati per eccellere come individui, mentre avrebbero dovuto imparare anche a lavorare bene in team.»

Quello che molti entusiasti del lavoro di squadra non riescono a capire, è che ogni gruppo può diventare esso stesso un laboratorio dove apprendere le capacità necessarie per rendere meglio. «Ogni membro apporta al gruppo talenti e capacità unici –- alcuni tecnici, altri che fanno capo ad abilità sociali ed emotive», osserva Kathy Kram, direttrice dell'Executive MBA Program dell'Università di Boston. «E una grande opportunità di apprendimento reciproco, purché il team sappia farne un obiettivo esplicito o la includa nei piani.»

Solitamente, aggiunge Kram, quell'opportunità va perduta «perché troppo spesso si ritiene che il concentrarsi sulle relazioni fra i membri del team rappresenti una astrazione dal raggiungimento dei suoi obiettivi, e non un modo per aiutare gli individui a collaborare meglio. Invece, usare i gruppi per apprendere le capacità importanti ai fini del lavoro di gruppo è una strategia assolutamente logica – soprattutto nelle organizzazioni che si basano sul lavoro di squadra».

E questo ci porta al nostro prossimo punto: non importa se come individuo o come membro di un team, ciascuno di noi può rafforzare e sviluppare ognuna di queste competenze emotive – purché sappia come farlo.