– XVII –
Mia aveva il naso spiaccicato sul vetro del finestrino posteriore, e osservava con attenzione la campagna della Renania settentrionale che le scorreva davanti. Campi, qualche casa bianca a graticcio con grossi spioventi, e poi verdi boscaglie come ciuffi tra i campi, e prati e ancora qualche casa e ancora qualche boscaglia: tutto simile tutto diverso.
Pensava alla recente disavventura alla Xynano e all’incoscienza che l’aveva presa dopo il furto. Stava coinvolgendo parenti e amici in avventure rischiose e pericolose. Dapprima un’intrusione negli uffici di una grossa società in America, ora un’altra, in una residenza di un conte in Germania. Aveva davvero l’impressione di essere su una brutta strada. Si convinse che stava facendo tutto a fin di bene e sperava che fosse l’ultima pazzia, anche se in cuor suo sapeva che non era finita.
Tra un pensiero e l’altro osservava una fotografia del castello dei Von Kasten, che Bruno aveva stampato da Internet. L’immagine reale si sovrappose a quella sul foglio.
“Fermati, Bruno, ci siamo.”
“Vai avanti,” disse Peter “non dobbiamo lasciare l’auto in vista. Ci avvicineremo a piedi, tra i campi.”
Posteggiarono l’auto in uno sterrato alle spalle del castello.
La residenza del Conte Von Kasten distava circa venticinque chilometri da Colonia, vicino alla città di Lohmar.
L’edificio, completato nel 1400, era stato in gran parte ricostruito nella prima metà del 1700 per volere del Conte Frederic Von Kasten. Il manufatto si trovava all’interno di quello che doveva essere un parco, con tanto di laghetto sul davanti, fontane e viali alberati. La natura l’aveva avvolto e tutto appariva trascurato e selvaggio. Il corpo di fabbrica principale, bianco, era posto sull’asse dell’ingresso e un timpano a filo di facciata lo identificava. Due corpi laterali, bassi e simmetrici, racchiudevano lo spazio prospicente l’ingresso formando un ampio cortile. Un grande tetto, nordico, grigio verde, con abbaini e finestre, concludeva l’edificio. Il degrado non aveva ancora avuto la meglio sulle solide strutture, e l’edificio appariva ancora in buono stato.
I tre giovani raggiunsero la residenza dalla parte posteriore. Si muovevano circospetti e guardinghi, anche se nei paraggi non c’era nessuno. Scavalcarono con facilità una siepe incolta e si ritrovarono nel retro del fabbricato. Il piano terreno aveva numerose porte finestre, tutte uguali, equidistanti una dalle altre e tutte chiuse da gelosie di legno. Peter conduceva il gruppo. Si infilò i guanti e si avvicinò alla prima finestra sul loro cammino, la osservò per bene e passò a un’altra e poi ancora a un’altra e a un’altra ancora. Alla quarta si fermò, guardò i suoi due amici con soddisfazione e ammiccò con un leggero sorriso. Mia e Bruno osservarono Peter, che gestiva la situazione con destrezza, sembrava sicuro di quello che faceva, e lo lasciarono condurre la spedizione.
“Ok, ci siamo” fece Peter “da ora in poi siamo dei fuorilegge, per cui cercheremo di lasciare il minor numero di tracce possibili. Non toccate niente se non usando un fazzoletto o qualcosa di simile. Appena entrati ci leveremo le scarpe e procederemo con la massima cautela. Se ci arrestano, al processo faranno molta fatica a dimostrare la nostra presenza all’interno dell’edificio.”
Gli altri annuirono preoccupati.
Peter estrasse dal suo zainetto un righello di plexiglas flessibile, alto cinque centimetri e lungo trenta, e si avvicinò alle gelosie.
“Non ti facevo un esperto scassinatore” disse Bruno meravigliato dell’intraprendenza dell’amico.
“Sono nato in campagna, ed entrare nelle case chiuse e abbandonate alla ricerca di tesori nascosti era un divertimento impagabile. Non ho mai rubato nulla, però.”
Sia Mia sia Bruno non avevano pensato, una volta in loco, a come entrare nella residenza: avrebbero improvvisato.
Peter invece ci aveva pensato. Infilò il righello flessibile tra le battute delle gelosie, che l’usura del tempo aveva allargato, e lo spinse verso l’alto. Il catenaccio di chiusura, di vecchio tipo, si sganciò dal suo fermo. Utilizzando il righello, spinse il catenaccio verso l’interno e con una leggera pressione delle dita aprì l’anta.
Mia e Bruno guardarono l’amico con ammirazione, il quale emanava compiacimento per l’operazione appena compiuta. Avevano il fiato sospeso e nessuno apriva bocca.
Quattro rapidi click e poi altri quattro ruppero il silenzio a una cinquantina di metri dai tre giovani. Dietro la siepe, Wulf, con una macchina fotografica munita di teleobiettivo e con un microfono direzionale, fotografava e registrava.
La porta finestra a due ante era alta almeno tre metri, di vecchia fattura, con vetri semplici suddivisi da piombini orizzontali e ferramenta antica. Il serramento si concludeva con una finestra a ribalta, alta una cinquantina di centimetri e larga quanto l’intera finestra: era socchiusa. Peter non aveva scelto a caso.
Dal suo zainetto, che agli occhi di Mia e Bruno sembrava la borsa dello scassinatore, estrasse una fune lunga una decina di metri. Fece un laccio scorsoio, e alcuni centimetri più in alto annodò la chiave della sua camera. Con un lancio deciso e preciso gettò la fune verso l’anta a ribalta, la quale aiutata dal contrappeso entrò all’interno senza problemi. Peter la fece scendere con precauzione. I tre osservavano l’artigianale lenza che si abbassava da riquadro a riquadro dell’anta. Con qualche difficoltà Peter agganciò il pomello della maniglia e lo sollevò.
Erano all’interno. A giudicare dalla dimensione dello spazio e dagli arredi, dovevano trovarsi nel soggiorno. Richiusero le gelosie e la finestra, si tolsero le scarpe e iniziarono a guardarsi attorno. Non erano per nulla tranquilli: l’ansia li accompagnava.
“Dobbiamo organizzarci” disse Peter “voi due andate a cecare il libro, io rimango di guardia e preparo la fuga.”
Mia e Bruno non avevano nessuna idea di dove fosse la biblioteca, procedevano con prudenza nei locali illuminati dalla poca luce che entrava dalle fessure delle gelosie.
La residenza era arredata. I mobili erano coperti da drappi di diversi colori. Le pareti riportavano, attraverso le decorazioni a stucco, le pitture, e i rivestimenti di legno, un lusso d’altri tempi.
“Secondo me la biblioteca è al piano terreno,” fece Mia “il piano superiore, di solito, era sempre dedicato alla zona notte.”
Si ritrovarono nell’atrio. Un grande scalone, con le pareti rivestite di specchi, conduceva al piano superiore. Attraverso una porta a due ante entrarono in quella che doveva essere la sala da pranzo: grande quanto il soggiorno. Mia stava disegnando nella sua mente la tipologia dell’edifico: “Credo che la residenza sia simmetrica. Lo scalone e l’atrio sono al centro, da un lato c’è il soggiorno e dall’altro la sala da pranzo. Se procediamo da questa parte dovremmo trovare le cucine”. Le previsioni di Mia si rivelarono esatte: entrarono in una grossa cucina con due camini e un forno.
“Siamo dalla parte sbagliata. La biblioteca dev’essere dall’altra parte, vicino al soggiorno e in simmetria con le cucine” fece Mia.
Ritornarono sui loro passi. Peter stava trafficando attorno alla finestra e li osservò con noncuranza.
Ebbero un colpo. La biblioteca era enorme. Oltre alle scaffalature di legno che occupavano tutta l’altezza delle pareti libere del locale, vi erano mobili bassi, colmi di libri, e distribuiti con precisione sulla superficie dello spazio rimanente. Delle scalette laterali, di ferro e legno, portavano a stretti ballatoi, situati nell’ammezzato della parete. Le scalette servivano per la consultazione dei libri collocati nella parte superiore.
Bruno guardò Mia, che non sembrava affatto preoccupata.
“Mi pare di essere all’interno della Biblioteca Vallicelliana, costruita dall’architetto Francesco Borromini a Roma” fece Mia.
“Lascia perdere l’architettura. Come facciamo a trovare il documento in mezzo a tutti questi libri?” disse Bruno inquieto.
Mia si fece pensierosa. Si guardava attorno come se stesse cercando la risposta alla domanda di Bruno tra le scaffalature. Fissò il suo amico, sul suo viso comparve un’espressione furba, e con passo veloce si diresse al centro dello spazio: Bruno la seguì.
“Sulla scheda trovata a Colonia c’era scritto che Amadeus Rupper si era occupato di organizzare l’archivio bibliografico del Conte Von Kasten. Troveremo il documento nel modo più semplice: attraverso lo schedario.”
Il mobiletto, collocato sotto una finestra centrale, nella porzione di parete libera, aveva sessanta cassettini, tutti uguali e tutti numerati. Ogni cassettino era di legno, colorato di bianco come la parete. Nel mezzo del cassettino, per praticità d’uso, vi erano dei pomelli, non bianchi ma di legno di noce, formati da una stelletta con una pallina.
Mia aprì un cassetto, dovevano capire il criterio di catalogazione. Bruno fece la stessa cosa. Dopo breve si resero conto che i primi trenta cassetti contenevano, in ordine alfabetico, le schede degli autori, mentre i successivi trenta le schede degli argomenti. Si stavano aiutando con le torce dei cellulari: la luce che entrava dalla gelosie non bastava per illuminare i cartoncini, scritti a mano e piuttosto in piccolo.
“Ci siamo” fece Mia “ora dobbiamo trovare la scheda e capire in che modo sono reperibili i libri tra le scaffalature.”
Mentre Mia cercava la scheda di Rupper, Bruno si guardava attorno con frenesia: verificava le diciture sui mobili e cercava d’intuirne la logica.
“Credo d’aver capito” fece Bruno “il sistema è abbastanza semplice e un po’ assurdo. La scheda dell’autore ti rimanda al cassetto dell’argomento e da lì al settore, alla libreria, e poi il ripiano.”
“Non è così assurdo” fece Mia “se non sai l’autore cerchi l’argomento, se sai chi è l’autore ti condurrà a uno o più argomenti.”
E così dicendo, prese una scheda tra le mani e lesse: “Settore 14, libreria 3, ripiano 15”.
“È di sopra” fece Bruno. Si avvicinò a una scaletta, e con la prudenza che gli aveva suggerito Peter, iniziò a salire cercando di non lasciare tracce, cosa non facile vista la polvere che copriva ogni cosa.
Mia vedendo le precauzioni di Bruno, si rese conto che lei non ne aveva prese e corse ai ripari, spolverando quello che aveva toccato.
“Eccolo!” fece Bruno. Mia, che nel frattempo si era collocata ai piedi della scaletta, impaziente attendeva l’amico e quasi gli strappò di mano il documento.
Uno rumore sbuffante li raggelò. Anche Peter, nel soggiorno, si bloccò di colpo. Spensero le luci dei cellulari e si accosciarono tra le scaffalature basse.
Il rumore si ridusse di parecchio ma rimase quale sottofondo. I giovani non si muovevano. Una sagoma spezzettata dai listelli delle persiane si spostava da una finestra all’atra: qualcuno stava cercando di guardare all’interno.
Peter sdraiato per terra non fiatava. Quando la figura, che sembrava di un uomo, comparve davanti alla portafinestra dove stava trafficando, gli si raggelò il sangue: non aveva chiuso bene il catenaccio della gelosia. Se l’uomo avesse tentato di aprirla dall’esterno ci sarebbe riuscito, e l’avrebbe visto lì, disteso per terra, come un ladro colto con le mani nel sacco.
L’uomo si appoggiò all’anta di legno, e in quel preciso momento il catenaccio, sotto l’occhio vigile di Peter, si abbassò di qualche millimetro. Poi scosse l’anta, e il catenaccio si abbassò di un centimetro. Era salvo: da lì il visitatore non sarebbe entrato.
La sagoma indietreggiò di alcuni passi e poi si allontanò. Anche il rumore del mezzo, forse agricolo, aumentò di volume per poi scomparire.
“Lo avete trovato?” fece Peter rilassato per lo scampato pericolo ma preoccupato.
“Tutto ok. Dobbiamo fotografarlo” fece Bruno.
“Sbrigatevi! Non vorrei che il tipo con il trattore tornasse, magari più deciso e determinato.”
Mia e Bruno avevano concluso la riproduzione fotografica e sistemato tutto nascondendo ogni traccia, soffiando e ridistribuendo la polvere. Anche Peter aveva finito.
“Cos’hai fatto?” chiese Bruno nel vedere un intreccio di corde attorno all’anta e alla maniglia della portafinestra.
Peter, con modi da professionista dello scasso, accostò l’anta e da fuori, come un burattinaio, mostrò ai suoi amici le manovre per chiudere il catenaccio dall’esterno e recuperare la fune.
Mia e Bruno strabuzzarono gli occhi nel vedere il marchingegno di Peter.
“Geniale!” fece Mia.
Peter sorrise.
Bruno gli diede una lieve pacca sulla spalla. “Sei un mito! Però adesso andiamocene da qui.”
I tre amici uscirono passando tra le due ante, cercando di non manomettere il meccanismo di chiusura. Peter dall’esterno iniziò a manovrare le sue funi. La prima, agganciata al pomello del catenaccio, tramite un laccio fisso scendeva verso il pavimento, passava attorno al cardine basso, risaliva verso il cardine medio e usciva dall’anta a ribalta per poi penzolare all’esterno. La seconda, fissata al laccio fisso, usciva diretta dall’anta a ribalta per poi penzolare anch’essa.
Peter rilasciò la seconda fune e il catenaccio si abbassò di qualche millimetro per peso proprio, poi tirò con una certa forza la prima. La fune andò in tensione sui due cardini e provocò una forza contraria al punto di trazione: la finestra si chiuse. Peter era entusiasta della sua trovata. Lasciò libera la prima fune e tirò a sé la seconda recuperandole entrambi. Accostò le due gelosie e con lo stesso sistema che aveva utilizzato per aprirle, le chiuse. Rimise tutto nello zaino e si girò verso i suoi amici.
Mia con uno scatto si allontanò dall’edificio, estrasse il cellulare e fece qualche foto alla residenza: aveva visto con la coda dell’occhio qualcuno che arrivava.
“Fermi dove siete!” gridò una voce.
Due poliziotti con i caratteristici pantaloni verde oliva, giubbino nero e cappello bianco con visiera nera, avanzavano minacciosi: li accompagnava una terza persona.
“Vi dicevo che c’era qualcosa di strano” disse l’uomo che faceva strada ai due poliziotti.
Bruno e Peter erano davanti, Mia qualche passo dietro.
“Cosa state facendo in questa proprietà privata? Favorite i documenti” disse loro uno dei poliziotti.
Mentre Bruno e Peter cercavano i loro passaporti, Mia si precipitò verso il gruppetto, e anticipando i suoi due amici iniziò a dare delle spiegazioni.
“Buongiorno. Mi chiamo Mia Gerwing. Sono un architetto americana. Mi sono fatta accompagnare da questi miei due amici svizzeri a visitare gli edifici settecenteschi della Renania Settentrionale-Vestfalia. Sto facendo una ricerca che mi serve per la tesi di dottorato.” E così dicendo consegnò a un poliziotto il telefono aperto sull’immagine appena scattata e all’altro il suo passaporto blu notte. Nel frattempo anche Bruno e Peter avevano consegnato i loro passaporti rossi.
Mentre un poliziotto controllava i passaporti, l’altro guardò la foto della residenza sul cellulare, scorse con il pollice lo schermo e ne vide una simile, scorse di nuovo e vide una pagina di un vecchio libro. I tre giovani erano tesi e a fatica ostentavano indifferenza. Fissavano il poliziotto con il cellulare e a ogni movimento del dito sullo schermo avevano l’impressione che da un momento all’altro sarebbe finita male.
Il poliziotto che guardava le foto, alla quinta immagine, con aria annoiata, restituì il cellulare. E l’altro i passaporti.
“Controllate gli zaini” disse l’accompagnatore.
Bruno e Peter consegnarono con solerzia i loro zaini: non c’era niente, se non delle mappe della zona, una bottiglia d’acqua, dei biscotti secchi, dei guanti, una riga trasparente di trenta centimetri e uno spago arruffato.
“Niente! Vedi” fece un poliziotto.
“Sparite! E non entrate più nelle proprietà senza permesso” disse l’altro poliziotto.
I tre giovani salutarono e con passo spedito e in silenzio si allontanarono. Salirono in auto e sempre senza aprir bocca lasciarono la zona.
Un’altra auto lasciò la zona dopo alcuni istanti e prese la stessa direzione della vecchia Polo di Bruno. Wulf con una mano guidava e con l’altra scriveva un SMS: “Sono entrati in un vecchio palazzo nelle vicinanze di Lohmar. Non hanno preso niente. Ecco le coordinate: 50.898, 7.261”.
“Accidenti! Mia, per poco non mi veniva un infarto” ruppe il silenzio Peter.
“L’idea della ricerca per il dottorato è stata davvero geniale” fece Bruno.
“Gli eroi siete voi.”