– XI –
L’International Airport Hartsfield – Jackson di Atlanta è il più trafficato al mondo: ogni giorno vi transitano oltre duecentocinquantamila passeggeri.
All’uscita del Terminal 1, voli internazionali, la mamma la stava aspettando: erano le 4:15 P.M., in perfetto orario.
Mia era spossata per il viaggio, per il fuso orario e soprattutto per tutte le sue recenti disavventure: la mamma si accorse subito delle condizioni della figlia.
Si abbracciarono. Durante il viaggio, dall’aeroporto a casa, si scambiarono poche parole: la ragazza sonnecchiava. In neanche mezz’ora erano a casa e Mia andò subito a letto.
Alle 20:00 Kim bussò un paio di volte alla sua camera, e dopo aver udito una sorta di mugugno, si precipitò all’interno con un tuffò sul letto, e abbracciò la sorella ancora mezza addormentata.
A cena erano tutti curiosi e impazienti, volevano conoscere i particolari del precipitoso rientro della loro cara: non avevano ben capito il motivo.
Mia, abbattuta, con molta fatica e poca loquacità, atteggiamenti che non le appartenevano, raccontò ogni cosa. Le preoccupazioni e la solidarietà verso la figlia dettarono le parole del padre:
“Rimborseremo eventuali danni ai tuoi committenti, però a questo punto è meglio che per un po’ non vai più in Svizzera, troverai un lavoro negli Stati Uniti.”
La mamma annuì: era d’accordo con il marito.
“Cosa c’entra la Svizzera” fece Kim. “Non avete capito che il problema è qui, la società che le ha rubato i disegni è americana, di Atlanta.”
“Prudenza Kim,” intervenne la mamma “meglio non accusare nessuno senza prove certe.”
“Non me ne frega niente delle prove certe. Vado lì e spacco la faccia a tutti quei maledetti stronzi che hanno fatto del male a mia sorella. Li prendo a uno a uno e gli spiaccico il naso con una mazza da baseball. Gli schiaccio i piedi con una palla da bowling.”
“Kim!” gridò la mamma.
“Li prendo per le orecchie e li affogo tutti nelle loro provette. Gli buco le gomme delle loro auto e...”
“Kim! Adesso smettila” fece severo il papà.
Nel vedere sua sorella così minacciosa e pronta a difenderla, addirittura con la forza, Mia si rallegrò. Un sorriso le scalfì il volto. La guardò e fissò per un attimo il musetto imbronciato di quella terribile teenager. Si guardarono e cominciarono a ridere come matte. Dopo un attimo anche papà e mamma divennero di buon umore.
Passato il momento di euforia e conclusa la cena Mia restò sola con mamma e papà.
“Cosa intendi fare?” chiese la mamma.
“È dura, ma non voglio restarmene con le mani in mano. Ne va della mia reputazione professionale e soprattutto del mio stato psicofisico.”
“Tuo padre e io siamo preoccupati. Sei dimagrita. Devi farti visitare.”
“Mamma, ti prego! Voglio capire fino a che punto questa società è coinvolta. Cosa c’entra la nanotecnologia? Voglio capire se sto accusando una ragazza ingiustamente oppure no.”
“Mia, mi fai stare male: non ti mettere nei guai. Non affrontare cose più grosse di te.”
“La mamma ha ragione. Domani chiamo Frank Carter e chiedo consiglio a lui; vedrai che Frank ci aiuterà.”
“Papà! Cosa vuoi che ne sappia un avvocato civilista di queste cose, e poi non ho nessuna intenzione di mettermi nei guai.”
“Be’! Lui conosce un sacco di persone importanti, politici, uomini d’affari: qualche buon consiglio ce lo potrà dare.”
“Ho scritto a Ridley a Urbana-Champaign. Un suo amico sa tutto sulla nanotecnologia, e mi potrà spiegare molte cose. Non preoccupatevi: voglio solo capire cosa significa tutto questo. Venerdì vado da lui.”
Il giovedì mattina Mia l’aveva programmato per un salto nel passato. Aveva spento tutti i suoi pensieri negativi, e si era fatta promettere dai suoi, per un giorno, di non accennare nemmeno all’allucinante storia: voleva avere ventiquattro ore di super relax.
Iniziò la giornata con una prima colazione ipercalorica fatta da cibi dolci e grassi, ma alquanto appetitosi: toast imburrati, uova al tegamino, bacon fritto, sciroppo d’acero, muffin alla cioccolata, succo d’arancia, cereali con latte freddo, caffè e frutta fresca.
La mamma la guardava quasi spaventata: quanto mangiava sua figlia quella mattina! Anche Kim rimase allibita dalle pietanze che maneggiava la sorella, tant’è che prima d’andarsene la salutò con una battutina: “Ciao ex salutista, stasera Big Mac – Meal e poi un gigantesco Shakes alle fragole”.
Era esattamente quello che avrebbe preso per cena, ma prima doveva pensare alla giornata che aveva davanti: doccia bollente, bici, e via alla ricerca del suo recente passato.
Mia sapeva benissimo che le rimpatriate sono delle cose orribili. Incontrare gli amici del liceo, anche solo dopo dieci anni, poteva essere un piccolo dramma, un’inspiegabile delusione per i cambiamenti avvenuti, perché purtroppo o per fortuna le persone cambiano.
Gli amici non sono più come ce li ricordavamo, sono cambiati, a volte irriconoscibili e spesso trasformati. Sono diventati più robusti o forse grassi, con meno capelli o forse pelati, ora hanno le rughe e la cellulite, e soprattutto hanno meno voglia di divertirsi.
Nella maggior parte dei casi non sono più soli. Hanno il mutuo, i bambini da crescere, il fondo per l’università da rimpolpare e forse debiti da pagare.
Lavorano tutta la settimana, e di sabato tagliano l’erba, fanno la spesa e puliscono la macchina. La domenica preparano il barbecue e a volte invitano i vicini di casa. La sera guardano i serial alla televisioni e d’estate vanno in vacanza al campeggio. Se avanzano un po’ di soldi partono per l’Europa: Roma, Firenze, Venezia, Londra, Parigi.
Mia guardava nel vuoto e rifletteva sulle vite degli altri, e con una leggera arroganza pensò: “Che vita banale e scontata”.
Adesso i vecchi amici, con molta probabilità, non saranno più spensierati e incoscienti come ai tempi del liceo. Non avranno più la voglia e la forza di fare follie: il tempo li avrà piegati alle peripezie e alle gioie della vita.
Perché il tempo tutto piega.
A Mia piaceva immaginare il tempo come un gigantesco martello a due teste del maglio. La mazza a battente della macchina metallurgica, con lo stesso ritmo, costante e inesorabile, picchia sull’incudine, schiaccia e spiaccica tutto quello che trova. Sotto la sua forza bruta tutto si deforma, si trasforma e nulla rimane indenne. E questo martello accanito continua con la medesima battuta, con la stessa tenacia da migliaia di anni, a picchiare e ripicchiare: non lascia tregua.
Le riflessioni sul tempo che passa la rendevano melanconica. Distratta di continuo da episodi e da eventi che le sembravano decisivi, sempre alle prese con il presente, di tanto in tanto aveva l’impressione di aver perso il treno, uno di quelli che non passano più.
La mattinata era piena di luce, e i colori della primavera inoltrata riempivano i giardini e i viali. Prese dal garage la sua bici, in perfetto stato nonostante non la usasse da due anni. Suo papà era un genio nelle manutenzioni: non la lasciava deperire.
Penny Goodmaeyer, detta Penny Lane: ovvio. La sua amica del cuore al liceo, che non vedeva da dieci anni. Ecco chi voleva incontrare per prima.
Si avventurò lungo la Beech Haven Road fino alla Sheridan Road. Il quartiere era cambiato parecchio da quando scorrazzava in bicicletta con i suoi amici. In auto, da un’altra prospettiva e a un’altra velocità, non si notavano le modifiche.
Arrivata sulla Sheridan Road, andò a destra, dopo circa cinque minuti si trovò all’improvviso davanti alla casa di Penny, sulla Mayfair Drive, o meglio alla casa dei suoi genitori. Si fermò un istante, dall’altro lato della strada, a osservare il posto: innumerevoli ricordi affiorarono, e un sorriso le ammorbidì le guance.
Una donna con un grande pancione, che aveva l’età di Mia, uscì di casa. Una bambina bionda, di due o tre anni, la seguiva. La donna incinta raccolse dei giocattoli sul giardino e si diresse verso la cassetta delle lettere e prese la posta. Guardò l’orologio e poi lungo il viale: stava aspettando qualcuno. Mise i giocattoli in un cassettone sotto la veranda e ne raccolse altri. La bambina la seguiva.
Mia si era bloccata, guardava la donna da seduta sulla sua bici: non la conosceva. Un’auto bianca arrivò ed entrò nel vialetto davanti al garage. Un uomo della stessa età della donna incita, o forse di qualche anno più grande, scese e si abbracciarono. L’uomo prese in braccio la bambina ed entrarono in casa.
Gli occhi di Mia divennero lucidi, aspirò un paio di volte dal naso, girò la bici e ritornò sui suoi passi: non aveva più voglia di fare rimpatriate. Pensò a quella scena che avrebbe definito banale, pensò alla vita ordinaria e scontata di quella coppia. Pensò ai suoi guai e alle sue vicissitudini, e iniziò a pedalare con rapidità verso casa. Quando raggiunse la massima velocità, che la sua vecchia bici le permetteva di toccare, in lacrime, iniziò a gridare a squarciagola:
“Voglio una vita banale! Voglio una vita banale!” E si lasciò correre tra i viali con l’aria nei capelli.
Lo sfogo emotivo e quello fisico le calmarono l’animo e si rasserenò. “In fin dei conti faccio la vita che mi sono scelta e sarò padrona del mio destino fino in fondo: costi quel che costi” pensò caparbia. E poi si disse: “La mia vita non è poi così orribile. Uno sgradevole e amaro episodio non me la rovinerà. Tutto si sistemerà, ci voglio credere”. E abbozzando un leggero sorriso concluse il suo pensiero: “Alla fine avrò una storia originale da raccontare ai miei nipotini, quando li dovrò accudire e vorranno farsi narrare una favola prima di dormire”.
Rientrata in casa andò in camera sua con il portatile della mamma. Voleva controllare la posta. SPAM, una e-mail del sito che aveva utilizzato per la prenotazione del volo, una mail di Peter e una di Ridley.
Ciao Mia, hai fatto buon viaggio? Spero di sì. Oggi è venuto un giornalista di un quotidiano domenicale, voleva sapere del furto. La notizia è ormai trapelata. Voleva una tua fotografia. Io e Bruno siamo stati diplomatici e abbiamo cercato di sminuire la questione. Gli abbiamo detto di attendere il tuo ritorno dagli Stati Uniti, ma non credo aspetterà. Non sanno mai cosa scrivere, e una notizia di questo genere, legata al ritrovamento della villa, è roba ghiotta per questi tipi. Posso immaginare che domenica ci sarà una paginetta sull’argomento. Ho preferito avvisarti prima. Peter.
“Grazie Peter” pensò Mia. “Me l’aspettavo: prima o poi qualcuno della stampa sarebbe arrivato a curiosare. Ma ora non voglio pensarci. Devo concentrarmi sul furto e scoprire cosa c’è dietro, altrimenti non mi riprenderò più.”
Ciao. L’appuntamento di domani è confermato. A presto. Ridley.
La mail del suo amico la tranquillizzò.