24

Avevo diciott'anni compiuti da un giorno e mezzo. Lui appena diciassette, ma era molto maturo: sarà stato il carcere minorile a farlo maturare così. Il Conte sembrava un uomo, non un ragazzo. Si occupava di me, ma non era possessivo come Ermanno, era gentile e basta. Veniva a prendermi e mi riaccompagnava a casa. A piedi, perché non aveva la patente.

A San Valentino mi regalava una rosa e a Natale un profumo francese, come aveva visto fare nelle pubblicità. Non criticava mai quello che facevo o dicevo. Non litigavamo mai. Per lui, io ero perfetta: ero la sua donna.

Così lo sentii definirmi un pomeriggio in un bar di spacciatori: «La mia donna non lavora». Detto a un pusher che evidentemente gli aveva proposto uno scambio in natura.

Il Conte aveva risposto tranquillamente: una normale informazione tra colleghi. In quell'ambiente, tante ragazze "lavoravano". Io no.

"La mia donna non lavora" mi piacque. Quando stavamo insieme avevo un mio posto nel mondo: ero la donna del Conte, il pusher più giovane di Verona.

Avevamo deciso di passare il Capodanno a Berlino perché Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino di Christiane F. era l'unico libro che avesse mai letto. Quando ho proposto di andarci ha accettato subito: sarebbe venuto ovunque, con me – un tossico la roba la recupera dappertutto –, ma a Berlino immaginava di trovarsi bene.

 

Era alto, con la pelle chiara e i capelli neri. Magro, ma non scheletrico, la faccia allungata, gli occhi nocciola dalle ciglia lunghe e un bellissimo neo vicino al labbro inferiore. Portava jeans imbottiti e scarponcini con il pelo perché aveva sempre freddo. La prima volta che l'ho visto eravamo a casa della Mary, un travestito che batteva e spacciava al Villaggio dell'Oca Bianca.

Il Conte mi è piaciuto subito, perché parlava poco. Mi ha presa per mano e mi ha portata in camera della Mary, sul lettone coperto da una trapunta di raso rosa. «Vieni qui, tesoro, mettiti giù» ha detto. Parlava poco, ma diceva la cosa giusta. Non aveva la pelle e i denti rovinati dei tossici, ma denti bianchissimi e una pelle perfetta, morbida, color avorio.

Ci siamo messi insieme come se ci fossimo riconosciuti, come se non dovessimo spiegarci niente. Una liberazione, per me, che in seconda liceo ero stata con un capetto degli studenti logorroico e narciso: Ricki, uno che parlava alle assemblee.

Ricki pretendeva di discutere ogni cosa, sempre, anche se non ne avevo voglia, finché non gli davo ragione.

In suo onore avevo composto la poesia Seghe mentali: 

"Seghe mentali, / biribì biribò. / E Freud e Nietzsche / e Marx e Engels, / tutto per giustificare / a te e a me: / facciamo l'amore?".

Quando lo zio Ruggero, il giorno prima che compissi diciotto anni, mi comunicò che il babbo aveva il cancro, decisi di andare a cercare Dirupo, il mio ex compagno di classe tossico.

Più che una decisione fu un'ispirazione, una sorta di richiamo oscuro, fatale, che si insinuò nella mia coscienza e si impadronì di me, come quando a tredici anni avevo letto Il demone meschino e avevo nascosto la polvere del Piccolo Chimico nel portafoglio.

Dirupo aveva abbandonato la scuola l'anno precedente: era il più sensibile e il più spiritoso dei miei compagni. Ricki lo disprezzava, diceva che farsi le pere era una cosa da fascisti. A me invece Dirupo piaceva, così anarchico e dolente. E bello, con i capelli lisci e gli stivaletti da punk.

Il giorno del mio compleanno andai a cercarlo in piazza Dante alle due del pomeriggio, dove l'avevo visto tante volte lavare siringhe alla fontana e stazionare con i suoi amici tossici, e gli chiesi se mi faceva provare quel che prendeva lui.

«Non è una buona idea» mi disse.

«Solo per oggi» risposi. «Per festeggiare.»

Dirupo mi portò a casa della Mary, che ci accolse sistemandosi il seno enorme sotto un kimono di seta. Fu gentilissima con me: «Finalmente una signora, Dirupo, invece di quei delinquenti con cui giri tu».

Dirupo mi regalò la sua camicia di jeans, con una macchiolina di sangue nell'incavo del braccio, in ricordo di quel pomeriggio.

Il giorno seguente tornai dalla Mary da sola, e conobbi il Conte.

Dal pomeriggio che ci siamo messi insieme, con il Conte è stato come fossimo sposati, ma sposati come le coppie di una volta.

Lui si occupava di me, era il mio garante in società: non c'era tossico, ladro o puttana che non mi portasse rispetto. Scoprii che in quell'ambiente sono molto conservatori e rispettosi di ruoli, codici e parentele. Mi portò subito a casa, per presentarmi sua madre.

I genitori del Conte erano separati. Sua madre Fernanda era alta e magra come lui, con la faccia lunga e i capelli neri. Aveva fatto per anni l'operaia in una ditta di confezioni, ma non lavorava più. Il fidanzato ufficiale era un bell'uomo brizzolato, sposato, che veniva ogni pomeriggio a trovarla sulla sua Lancia metallizzata, vestito con il giubbotto di pelle marrone e gli occhiali a specchio. Non ho mai saputo che lavoro facesse: alle quattro si presentava a casa e Fernanda, che lui chiamava Nanda, gli preparava il caffè.

Nanda viveva con i figli, il Conte e sua sorella Barbara, commessa in un negozio di scarpe, in una casetta di due piani a San Zeno. Sembrava contenta di sé, della famiglia e di quel fidanzato con il giubbotto di pelle. Puliva la casa, stirava e andava al mercato in bicicletta a comprarsi i jeans all'ultima moda, che le stavano benissimo, tanto era sottile.

Il padre del Conte aveva l'officina lì vicino, e dalla nuova compagna gli era nata una bambina down che aveva chiamato Angelica. Il Conte era affezionato ad Angelica e anche al fratello del padre, zio Paolone, un rapinatore molto popolare in città: andavamo a trovarli spesso.

La famiglia del Conte era premurosa con me. La domenica pomeriggio guardavamo tutti insieme – madre, fidanzato della madre, Barbara, il Conte e io – la televisione in soggiorno, bevendo succo di albicocca e mangiando la torta.

Nanda comprava al supermercato delle squisite torte industriali, che a casa mia non sarebbero mai entrate, e ce ne serviva una bella fetta sopra a un tovagliolino di carta rossa.

Con il Conte ho sperimentato i piaceri della vita normale: guardare i programmi televisivi della domenica pomeriggio, chiacchierare del più e del meno con i parenti, mangiare i prodotti pubblicizzati in tv. Quando sei fatto di eroina sei sempre bendisposto verso gli altri e trovi tutto sensato. I tossici, se sono fatti, hanno un bel carattere, ciarliero e accomodante. Tanto, non gli importa niente di te. Non gli importa niente di niente, a parte della roba. E un po' della famiglia, ma molto meno.

I genitori del Conte sanno che lui si fa, ma a casa loro avere un figlio tossico o un parente in carcere è normale come nella mia avere una zia in sedia a rotelle: dispiace, ma così è la vita.

Sua madre sembra preoccuparsi soltanto che il Conte non abbia freddo, così sul letto della sua camera, al piano terra, ha messo una coperta elettrica. Noi ci andiamo sempre a sentire i dischi, ma è una stanza umidissima. Allora ci infiliamo sotto la coperta elettrica e a volte ci addormentiamo in quel bel calore artificiale.

 

Sono stata bene con il Conte. Lui sapeva sempre quel che andava fatto, e lo faceva con dignità. Quando gli ho proposto di lasciarci è rimasto in silenzio per un po'. Ha acceso una sigaretta e ha detto: «Facciamo come dici tu». Mi ha baciata, poi, dato che piangevo, mi ha sistemato i capelli dietro alle orecchie con due dita e mi ha asciugato le lacrime con il palmo della mano.

Non mi ha più cercata. Non si sarebbe mai permesso di fare qualcosa che potesse mettermi in difficoltà.

E poi aveva l'eroina, gli bastava.

 

Tre giorni prima che morisse mio padre, mentre correvo a Verona da Padova, sono tornata da lui. La prima volta che ero andata a cercarlo in piazza, stranamente non c'era.

Quel pomeriggio ho corso, corso, corso, fino a casa sua: sapevo che era iniziata la fine, avevo bisogno di un abbraccio, di uno sguardo, non so di cosa avevo bisogno. Avevo bisogno di lui.

Stavo suonando alla porta, quando Barbara è uscita con il sacchetto della spazzatura in mano.

«Come stai? C'è il Conte?» le ho chiesto, ansimando.

Lei ha appoggiato per terra il sacchetto e mi ha messo una mano sulla spalla: «Pensavo che qualcuno te l'avesse detto. Dopodomani sono due mesi che è morto. Fumava a letto, si è addormentato con la sigaretta accesa e la coperta ha preso fuoco».

Poi mi ha abbracciata, mi ha tenuta stretta.