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Soffro di tonsilliti acute, ogni due mesi ho la gola ricoperta di placche e mi viene la febbre alta.
Lui ha trentacinque anni e la fama di miglior medico omeopatico di Milano.
Capelli ricci, occhiali di metallo, un tono di voce basso e monotono, da prete. Si chiama Alessandro, Alessandro Santiago. È il medico di Ermanno, che si concede il meglio di tutto: mi ci ha mandata lui.
Alessandro Santiago mi visita per la prima volta un pomeriggio di novembre, nel suo studio pieno di libri, illuminato solo da una lampada appoggiata sulla scrivania di legno scuro.
Dopo avermi scrutato la gola e interrogato a lungo: «Le danno fastidio gli spifferi? Prova più sollievo con le bevande calde o fredde? Ha spesso paura di essere ingannata?» mi fissa con aria grave.
Poi sentenzia: «Lei ha un karma pesante, signorina».
Io lo so di avere il karma pesante, ma resto male lo stesso.
Vi sembra una cosa da dire a una ventenne con le placche in gola? A una ragazza infelice?
Mi innamoro di lui.
Con Ermanno sono di nuovo ingrassata, golosa degli sfizi che mi prepara. Un pomeriggio vado a mostrare le analisi del sangue a Santiago, che dopo avermi curato le tonsille si sta occupando del fegato.
Seduta di fronte alla sua scrivania, su una sedia di legno, lo osservo con il mio sguardo più intelligente e rispondo alle sue domande con battute fulminanti. Come fa a resistermi? Mi piace tanto, così distaccato mentre parla di stitichezza. Sento che c'è qualcosa d'importante, tra di noi.
«Lei sa che deve dimagrire, signorina?» fa all'improvviso.
Nessuno me l'ha mai fatto notare così brutalmente. Rispondo che mangio molti carboidrati perché fanno bene al fegato, e lui mi ride in faccia.
Alla visita seguente ho già perso due chili. A quella dopo un altro. Sono magra e carina come prima di lasciare il Conte, ma sono vestita con il tailleur avvitato e le scarpe con il tacco alto che piacciono a Ermanno e probabilmente non piacciono a Santiago, così alternativo.
Mi presento all'ultima visita prima delle vacanze in pantaloni, camicia e sandali da frate. C'è il sole e lui ha aperto le tende: è la prima volta che vedo tanta luce nel suo studio. Lo trovo allegro e sorridente. Ha una gamba ingessata e i capelli, di solito un po' unti, lavati di fresco.
Inaspettatamente, mi invita a bere un aperitivo al bar sotto al suo studio. «Per salutarci» dice. Inizia a darmi del tu. Racconta di essere caduto in moto.
«Sabato sono andato in campagna dai miei, a Piacenza. I miei stanno in cascina, hanno le mucche. C'era fango e sono scivolato.»
Non lo facevo motociclista. Né contadino. Senza il camice bianco, Alessandro sembra ancora più giovane. Porta una camicia di cotone sgualcita e dei pantaloni kaki. Mi piace sempre di più e non mi sembra vero di essere lì con lui, seduti al sole. È dalla prima volta che l'ho visto che ne sono innamorata: da mesi gli spedisco a casa poesie d'amore anonime e vagamente persecutorie: "Ti seguirò / dove non saprai di andare…".
Nessuno sa della mia cotta e delle poesie, nemmeno Adriana.
Non lo racconto quasi neanche a me stessa, quanto mi piace Santiago, e non per Ermanno: le cose proibite mi hanno sempre attratto, non è una novità. Ma questa volta è diverso. Alessandro Santiago mi piace davvero: dopo il Conte, è il primo uomo che mi capisce.
La seconda volta che ero andata da lui mi aveva prescritto un farmaco omeopatico di nome Lachesis: «È il veleno di un serpente del Sudamerica, il Surrucucu» aveva detto. «Lei è proprio il tipo.»
Ero corsa a controllare sul manuale di omeopatia: il tipo Lachesis era descritto come "orgoglioso, vendicativo e aggressivo. Caratterizzato da un'alternanza di eccitazione e depressione". Una pazza stronza.
Comunque sia, Lachesis mi fa bene.
Al bar, Alessandro dice che sono stata brava, a dimagrire e soprattutto a guarire. Che le mie analisi sono buone e il fegato è a posto. Brindiamo con la spremuta di pompelmo.
Il giorno dopo, seguendo un impulso Lachesis, gli mando in studio un mazzo di cento rose rosse con il gambo lungo. Le pago un terzo del mio stipendio, trecentomila lire. Non metto biglietti, ma non può non capire che sono stata io, e non mi chiama: ho rovinato tutto.