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Sul set so tutto, sono un bravo capo, ma in casa annaspo. Non riesco a spiegarmi con la signora che ci aiuta: se non sai far le cose tu, non sai nemmeno farle fare agli altri. Non so tenere in ordine gli armadi, non so organizzare una spesa settimanale, non so quando vanno lavate le tende. E non so neanche fregarmene.

La signora che mi dà una mano fa quel che può, ma anche lei ha altro per la testa. Pensieri caraibici, magie, mutui da pagare: da ragazza voleva fare l'avvocato, non la donna di servizio a ore. Chi può capirla meglio di me? Anch'io vorrei godermi figlie e lavoro e basta. Ma la famiglia è fatta di pensieri. Di cose che qualcuno deve fare.

Una volta un attore, il ragazzo che avevo scelto per Cosmo da giovane in Torno presto, mi ha detto che ha fatto l'artista perché da piccolo vedeva sua madre passar la vita a mettere a posto, e non voleva diventare come lei.

Ecco, neanch'io lo vorrei. Ma non sono stata così brava da innamorarmi di uno che mette a posto: Pietro è peggio di me. Però lui se ne frega, delle tende e degli armadi.

Forse, se fossi stata una persona meglio organizzata, adesso non avrei lo stress index a 250,2, qualunque cosa voglia dire. Certo, non sarei stata io, ma non è detto che sarebbe stato un male.

 

Ieri ho telefonato alla nonna di Pietro: compie novantasei anni. È ancora lucidissima, legge Proust in francese e ogni mattina ascolta la rassegna stampa di Radio Radicale.

Le ho chiesto come sta e mi ha detto senza amarezza che ha vissuto abbastanza, che il mondo intorno a lei non è più il suo e preferirebbe andare.

Quando la sente dire queste cose Pietro minimizza: «Dài che stai bene, nonna».

Pietro non ammette che qualcuno possa sentirsi stanco di vivere, neanche a cent'anni. Io invece la capisco: mi sento come lei. Ma ho quarant'anni, non novantasei.

Il mio nuovo medico dice che mi sento così per via delle surrenali – che ho sforzato troppo – e della tiroide che funziona poco. Di certe vitamine e sali minerali che mancano e soprattutto dello stress. Garantisce che non è niente di grave, che le sue cure mi faranno tornare come prima. Raccomanda di non prendere decisioni affrettate prima che la cura sia finita.

Stavolta ho scelto un medico allopatico, che ha lavorato dieci anni in America. Dice che sono come un'atleta, o un'astronauta, che il mio lavoro non si può lasciare perché l'adrenalina crea dipendenza. Non crede che io voglia davvero smettere, come continuo a ripetergli.

"Non spaventarti, Eugenia: vivi di alti e bassi perché sei un'artista, devi solo ricaricarti" mi ha scritto ieri con il Blackberry.

Mi sono ringalluzzita. Artista io? Non ci avevo mai pensato. Minatore, schiava, scaricatore forse. Mi sono sempre sentita una che fatica, non un'artista.

Oltre al Nootropil, mi ha prescritto quattordici pillole da prendere ogni giorno per tre mesi. Sette al mattino, quattro a pranzo, due il pomeriggio e una prima di dormire. Dice di prenderle tutte e riposare molto.

 

Finalmente siamo al mare, nella casa tra i pini che affittiamo ogni estate da dieci anni.

Sono arrivata all'ultimo giorno di montaggio in ginocchio. E adesso sono così stanca che anche le cose che mi piace fare quando vengo qui – andare in paese a comprare il pesce, camminare tra le rocce, nuotare – mi sembrano impegni gravosi e insostenibili. Non faccio niente.

A malapena ho la forza di trascinarmi fino alla spiaggia, stendermi sull'asciugamano con la testa appoggiata allo zaino e guardare il mare mosso dal maestrale. Rimango sdraiata per ore, senza leggere, senza trafficare con il telefono, senza guardare niente che non sia cielo e mare.

Il momento migliore è il mattino. Mi alzo alle sette, quando Pietro e le bambine dormono ancora. Prima di uscire preparo le medicine: quella per la tiroide è azzurra e tonda, il Nootropil è un pillolone oblungo con due enne incise sopra come la zeta di Zorro, poi c'è una capsuletta bianca che si chiama Dhea. Preferisco non sapere bene cosa facciano. Le altre quattro sono innocue, almeno credo: tre capsule di erbe, Fitorodiola e Fitoliquirizia, e una di vitamina C. Metto le pillole dentro a un foglio di Scottex, lo piego in quattro e con quel pacchetto nella tasca dei calzoncini scendo per il sentiero che porta al mare.

La spiaggia è grande, deserta, bianca, circondata da rocce rosse. A quest'ora l'acqua è azzurra e trasparente. Cammino lungo la riva fino all'unico baretto, quello di Graziano. Chiedo un caffè e un succo d'ananas per ingurgitare le pillole, prendo i quotidiani ripiegati sul bancone.

Sono sempre la prima cliente. Quando arrivo, Graziano sta scopando la sabbia dalle assi di legno del terrazzo. Ha messo un cd a volume altissimo e Mina urla nel vento di maestrale.

Graziano inizia sempre la giornata così, anche se quando mi vede abbassa il volume con un sorriso di scusa.

Dopo mezz'ora arriva il pensionato. Ha un cappello di carta di giornale in testa, come quello degli imbianchini di una volta, canottiera bianca e calzoncini. Ordina latte macchiato e brioche.

Ci guardiamo in cagnesco: so che aspira ai miei quotidiani e sono gelosa di quel momento di solitudine. Il pensionato parla a voce alta con Graziano, che risponde sussurrando per non disturbarmi. Mi conosce da anni. Sa che mi danno fastidio i rumori e che non parlo mai, non lo facevo neanche quando stavo bene.

Soltanto in spiaggia, più tardi, farò due chiacchiere con Darhu e Hassan, i venditori senegalesi. Loro non mi agitano come certi clienti del baretto. Con i senegalesi attacco bottone io: racconto a tutti la stessa storia, di quando sono stata in Senegal prima di sposarmi. Di come mi piacevano i fiumi, i bambini e la luce che c'era a Gorée, l'isola con la casa degli schiavi. Gli dico che sono tornata con l'urgenza di avere un bambino al più presto, anzi, tanti bambini. Loro annuiscono pazientemente. Poi mi raccontano che d'inverno lavorano a Brescia, e d'estate in spiaggia. Darhu fa il camionista, Hassan l'operaio. Lo conosco da anni, Hassan, parla tre lingue e ogni mattina viene a bere il cappuccino da Graziano prima di cominciare a vendere asciugamani in spiaggia. Alle otto al baretto ci siamo solo il pensionato con il cappello di carta, Hassan e io: i turisti arrivano più tardi. Il primo giorno che l'ho rivisto, quest'anno, gli ho chiesto scherzando quando diventerà un grande manager. Ne avrebbe le capacità.

«Finché vendo asciugamani è dura far carriera» ha risposto, abbassando lo sguardo. Ho capito di aver detto una cosa crudele.

È triste, Hassan: lo vedo incupirsi ogni anno che passa. I suoi colleghi anziani sembrano contenti: forse sono rassegnati, forse pacificati dall'età. Hassan è arrivato in Italia da bambino, probabilmente si era illuso di fare una vita migliore.

Passo il "Corriere" prima a lui che al pensionato.

In un attimo legge le pagine economiche e risolve il sudoku dell'ultima pagina, poi va a preparare gli asciugamani. Li piega bene, li lega insieme, se li carica in spalla, scende in spiaggia e inizia a camminare.