E così, Gregor si sedette e aspettò mentre i secondi passavano. Non con il ticchettio insistente che aveva sentito tanto spesso da quando era iniziata la guerra, ma con lenti, cauti tic, tac inframmezzati da lunghi silenzi.

I decifratori continuavano a decodificare messaggi. Non riuscivano a sopportare di starsene con le mani in mano, a prescindere dalle circostanze. Boots, che non sapeva bene cosa stesse succedendo, si addormentò su un cumulo di coperte. Temp e Hazard ripresero la loro conversazione, sottovoce. Ma Gregor, Ripred e Vikus sembravano sospesi nel tempo mentre attendevano notizie dell’imboscata.

“Forse li hanno mancati” pensò Gregor. “Oppure c’è stato uno scontro e Solovet, Marcus e Horatio sono riusciti a cavarsela e a scappare.” Perché no? Montavano i loro pipistrelli ed erano ottimi soldati. Ma ogni volta che lanciava un’occhiata di nascosto al viso cinereo di Vikus, Gregor sentiva che non sarebbe stato così. Avrebbe voluto non averlo detto, che Solovet non gli piaceva. Però era vero. E come avrebbe potuto piacergli dopo che era risultata coinvolta nella faccenda dell’epidemia, dopo che l’aveva gettato nelle segrete, dopo che Ripred l’aveva avvertito che non avrebbe mai lasciato andare i suoi cari? In un certo senso, se fosse morta, per Ripred sarebbe stato più facile riportare a casa sua madre, Lizzie e Boots. Certo, se era vero quello che avevano detto sul fatto che dopo la guerra sarebbe stata Luxa a regnare, Gregor era sicuro che lei le avrebbe rimandate indietro lo stesso, qualunque cosa dicesse sua nonna. Vero? Era comunque felice di avere la promessa di Ripred come piano di riserva.

Solovet.

No, non poteva fingere che gli piacesse. Eppure, nel tempo, c’erano stati momenti in cui l’aveva trattato abbastanza gentilmente. Quando era arrivato a Regalia, era stata la prima persona a toccarlo, prendendogli le mani in un gesto di benvenuto che gli era sembrato sincero. Lo aveva protetto, insistendo perché lo addestrassero, e ora sapeva che, se non l’avesse fatto, lui sarebbe morto. E gli aveva regalato il suo pugnale. Tastò l’impugnatura e si sentì in colpa, pensandola sotto attacco senza la sua arma. Almeno aveva tentato di seguirla, nonostante quello che provava per lei. Sperava che chiunque portasse la notizia a Luxa, ne avrebbe parlato. Forse non l’avrebbe odiato così tanto.

Dopo un paio d’ore, Heronian disse sottovoce: — Abbiamo ricevuto un messaggio. Tutti e tre gli umani e i loro pipistrelli sono rimasti uccisi nell’imboscata.

Ripred si passò una zampa sulla cicatrice che gli sfregiava il muso. — Be’, io ho questa per ricordarla.

Allora era stata Solovet a fargliela. Quando? Nel corso di una guerra tra umani e ratti? Mentre si battevano l’uno contro l’altra per divertimento? Gregor pensò che Solovet aveva lasciato cicatrici di ogni genere, sui ratti, sulla sua famiglia, sui deboli tentativi dei Sottomondo di arrivare alla pace.

Ripred si girò verso Vikus. — L’ha sempre detto, era così che voleva andarsene.

— Combattendo. — Le labbra di Vikus formarono la parola, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono.

— Sì, combattendo. Non ammalata in un letto, ma con la spada in mano — confermò Ripred.

Gregor cercò di pensare a qualcosa di consolante da dire a Vikus, però non era mai stato bravo in quel genere di cose. Howard sì che lo era, e anche Luxa, ma tutto quello che veniva in mente a lui sembrava vuoto e scontato. E in quel caso era ancor più in difficoltà perché, pur sapendo che Vikus doveva aver amato Solovet (erano sposati da quarant’anni o giù di lì), sapeva anche che i due litigavano moltissimo. Le loro idee su come gestire i problemi erano completamente diverse: Solovet era per l’uso della forza, Vikus per il dialogo. Scoprire il ruolo avuto da sua moglie nello sviluppo della pestilenza aveva distrutto Vikus. Ma doveva averla amata molto, perché adesso era annientato dal dolore.

Hazard si avvicinò e si inginocchiò accanto al nonno, facendo scivolare la mano nella sua. Vikus gliela strinse ma non disse niente.

— Mi dispiace per tua nonna, Hazard — disse Gregor. Fino lì poteva arrivarci. — Stai bene?

— Sì. Per la verità, non so come dovrei sentirmi. Solovet mi parlava raramente. Non credo che mi volesse bene. Forse perché lei e mio padre si odiavano tanto — osservò Hazard con la sua solita franchezza.

Quelle parole erano semplici e prive di cattiveria, ma il loro effetto su Vikus fu repentino e devastante.

Solovet e Hamlet.

La tremenda storia familiare tra sua moglie e suo figlio: la tragedia al Giardino delle Esperidi, la folle fuga di Hamlet da Regalia, la rabbia reciproca nella giungla, Hamlet perduto non una, ma due volte.

Vikus fece uno strano suono di gola. Portò la mano alla guancia e cadde di lato. — Vikus? Tutto a posto? — chiese Ripred. Il vecchio tentò di rispondere ma le parole che gli uscirono di bocca erano confuse e impastate. — Dottore! — chiamò subito Ripred. — Fate venire un dottore!

Ripred continuò a parlare a Vikus, con il naso vicino alla sua faccia, raccomandandogli di stare tranquillo. Il medico arrivò, diede un’occhiata a Vikus, gli versò qualcosa in gola e lo fece caricare su un pipistrello. Il tutto in meno di un minuto.

Hazard si appese alla manica del medico. — Cos’ha mio nonno?

— Si tratta di un colpo apoplettico. Dobbiamo riportarlo a Regalia — disse l’uomo.

— Si riprenderà? — chiese Gregor.

La sua voce suonò giovane quasi come quella di Hazard. Una parte del viso di Vikus si era afflosciata e Gregor si accorse che non riusciva a muoverla.

Era terribile vederlo così.

Gregor non voleva che il vecchio lo lasciasse.

Non voleva perdere l’unico Sottomondo che aveva sempre avuto a cuore i suoi interessi.

— Faremo tutto il possibile — rispose il dottore, e il pipistrello decollò.

— Un ictus — mormorò Ripred. — Mi meraviglio che non sia successo prima. Quest’ultimo anno l’ha distrutto.

— È stato per quello che ho detto? Su mio padre? — chiese Hazard, preoccupato.

— Diamine, no! Sarebbe successo comunque. Adesso torna a… non so… torna a vedere se puoi dare una mano con quel codice, d’accordo? — disse Ripred. Hazard ubbidì. Quando non fu più a portata di orecchio, il ratto sussurrò a Gregor: — Forse non è stato il momento migliore per tirare fuori tutta quella storia di Hamlet. Ma Vikus ci avrebbe pensato lo stesso.

— La gente si riprende dagli ictus. Giusto? — chiese Gregor.

— Alcuni sì. Col tempo — rispose Ripred.

Non sembrava desideroso di continuare la conversazione.

La grotta pareva molto vuota, senza Solovet e Vikus. — E adesso? — disse Gregor.

— Adesso mi serve un umano in grado di comandare. Mareth è a Regalia… — replicò Ripred. Mandò a chiamare Perdita. Quando lei arrivò, il ratto andò dritto al punto. — Solovet è morta. Vikus è fuori combattimento. Anche se solo provvisoriamente, sei appena diventata il comandante in capo del tuo esercito.

Perdita apparve turbata, e subito dopo combattuta. — Ci sono altri con più esperienza di me.

— Non voglio loro. Voglio te — ribatté lui. — Mi serve una persona di cui tutti noi possiamo fidarci.

Il ratto cominciò a riesaminare il piano di battaglia con Perdita, lasciando Gregor ad affrontare quella doppia tragedia per conto suo.

Prima Solovet, poi Vikus.

Anche se Vikus poteva sempre rimettersi. Se non l’avesse fatto…

I pensieri di Gregor tornarono a Luxa. Fece scivolare dalla tasca la foto di loro due al museo e cercò di pensare a tempi più felici, ma inutilmente. Continuava a vedere il suo viso nel momento in cui aveva proposto di rinchiuderla nelle segrete. Non sopportava che fosse quello l’ultimo ricordo che li legava. Prese una striscia di codice e chiese un pennarello a Lizzie. Lei stava scrivendo con penna e inchiostro. — I pennarelli si sono seccati tutti — disse. Ne recuperò uno rosso dallo zaino. — Puoi provare a far uscire qualche altra lettera da questo. Se bagni la punta.

Gregor sputò nel cappuccio del pennarello, lo chiuse e lo lasciò lì per un momento. Il suo biglietto avrebbe dovuto essere breve. Pensò di scriverlo nel Codice dell’Artiglio, ma se i ratti l’avessero intercettato, avrebbero saputo che erano riusciti a decifrarlo. Scelse di usare i segni del Diagramma di Trasmissione. Così l’avrebbe reso un po’ più privato, in qualche modo. Dopo un paio di minuti, aprì il pennarello e lo provò. Il risultato era appena visibile ma ancora leggibile. Scrisse:

LUXA

/\ || // /\ |. |/\ |. // |/| |//.

|| /. |/| |// /.

|/ \ ||\\ \. ||\\ / ||\\ \ \/ \.

“Forza” pensò. “Scrivilo. Tanto sarai morto prima che lo legga. E comunque è vero.”

/| /. | |/\ |//.

GREGOR

Le ultime parole si leggevano malissimo. Gregor si fece un taglietto all’indice con la spada e le riscrisse, lasciando una linea di sangue sottile e un po’ sbavata. Ecco, così.

Non era una gran lettera. Aveva l’impressione di essere stato troppo avaro, a usare solo undici parole. Ma anche se avesse avuto intere scatole di pennarelli, cos’altro avrebbe detto? Forse avrebbe spiegato meglio perché uno di loro dovesse vivere. In modo che vivessero entrambi. In modo che uno di loro potesse ricordare l’altro mentre andava avanti con la propria vita. E siccome non sarebbe stato lui, doveva per forza essere lei. Voleva potersela immaginare adulta, attiva, felice un giorno, se doveva avere il coraggio di affrontare i suoi ultimi istanti di fronte al Flagello.

Luxa era in gamba. Avrebbe capito cosa voleva dire. O almeno lo sperava.

Gregor arrotolò il messaggio e lo diede a Lizzie perché lo consegnasse a Luxa, una volta a Regalia.

— Perché non glielo dai tu? — chiese la sorella.

— Perché adesso è molto arrabbiata con me — rispose. — Però lo leggerà, se pensa che venga da te. E poi, è probabile che tu torni là prima di me. — Lizzie accettò di prendere il messaggio. Gregor si chiese se anche lei l’avrebbe odiato quando avesse scoperto che sulla profezia le aveva mentito fin dall’inizio.

Disse che si sarebbe allenato ancora un po’ e tornò nella galleria. Poi si sdraiò sul fondo di pietra con la testa appoggiata a una roccia. Non aveva voglia di usare la spada, così spense la torcia elettrica e si mise a far schioccare la lingua. Le sue capacità di ecolocalizzazione stavano migliorando rapidamente. Riusciva a vedere un sacco di cose: i bordi frastagliati della volta, i singoli sassolini sul fondo, ogni minimo dettaglio della superficie ruvida delle pareti. Sperimentò suoni diversi. Tossì, canticchiò, fischiettò. In un momento di silenzio, si accorse che persino il suono del suo respiro gli rimandava delle immagini. Ne fu rassicurato, perché significava che, finché era vivo, era in grado di vedere.

Il ritmo del suo cuore rallentò e Gregor si appisolò, scivolando dentro e fuori dal sonno, in un’alternanza di fantasie e realtà. La paura si insinuò nei suoi sogni. Era steso sulla schiena, inerme, quando sopra di lui apparve un ratto, poi un altro, e un altro ancora, finché non si ritrovò circondato dai loro musi. Gregor scrollò la testa per svegliarsi, ma scoprì che non dormiva affatto. I ratti incombevano ancora su di lui, ed erano ratti in carne e ossa.

Senza nemmeno tentare di alzarsi, estrasse la spada dalla cintura e menò un fendente sopra il suo corpo per proteggersi. I ratti arretrarono, offrendogli l’opportunità di balzare in piedi. Nel frattempo aveva sguainato anche il pugnale, ed era sul punto di muoversi per uccidere quando la voce arrivò al suo cervello: — Fermati, Sopramondo!

Gregor esitò. Conosceva quella voce di ratto. Era più acuta del rauco brontolio di Ripred. Apparteneva a una femmina. Ma non aveva le tonalità argentine con cui Twirltongue l’aveva ingannato tanto facilmente. Twitchtip? No, lei era morta. E questa voce non si abbinava al viaggio sulla Distesa d’Acqua o alle impossibili tortuosità del labirinto dei ratti. Rievocava piuttosto il calore della giungla, il sudore, il profumo dolce di fiori letali. Schioccò la lingua e cercò di mettere a fuoco chi aveva parlato. — Lapblood?

— Sì, sono io. Metti via la tua spada. Non siamo qui per batterci con te — rispose lei.

Gregor schioccò di nuovo la lingua. Il piccolo branco si era fatto indietro e nessuno dei suoi componenti era in posizione di attacco. Rinfoderò lentamente la spada. Ratto o non ratto, non credeva che Lapblood gli avrebbe mentito. Non dopo quello che avevano passato insieme. E poi, se i ratti avessero voluto il suo sangue, se lo sarebbero preso quando era a terra. — Cosa ci fate qui?

— Siamo venuti a unirci a Ripred per combattere contro il Flagello — rispose Lapblood. — Dovrei incontrarlo proprio adesso per ricevere i nostri ordini di battaglia.

— Sul serio? Quanti siete? — chiese Gregor. L’ecolocalizzazione era fantastica, ma voleva tornare a servirsi della vista. Accese la sua torcia, facendo strizzare gli occhi ai ratti per il bagliore improvviso. — Scusate. — Puntò il fascio di luce verso terra.

— In questa galleria siamo una decina. Ma centinaia di noi sono in attesa nelle grotte più in basso — replicò Lapblood.

— Centinaia? — ripeté Gregor. Sapeva che Ripred aveva un suo piccolo seguito di fedeli nella Terra Morta, ma da dove erano saltate fuori centinaia di ratti?

— Pensavate che volessimo tutti il Flagello come nostro capo? — chiese Lapblood. — Che avremmo accettato volentieri di vivere sotto il suo regime?

— In effetti… — ammise Gregor. — Cioè, a parte Ripred, non è che abbiamo visto una gran resistenza da parte vostra.

— Be’, vi sbagliate — lo rimbeccò Lapblood. — Molti di noi non sopportano quella creatura paranoica e assetata di sangue o la connivenza di coloro che lo dominano.

— È bello sentirlo — commentò Gregor. Notò due ratti più piccoli accovacciati al fianco di Lapblood. Erano troppo grossi per poter essere definiti cuccioli, ma non erano neppure adulti. — Sono…? — Non voleva dire i loro nomi, in caso si sbagliasse. — Chi sono?

— Flyfur e Sixclaw. I miei figli — rispose Lapblood.

I figli che aveva cercato di salvare andando nella giungla, alla ricerca della cura contro l’epidemia. Figli anche di Mange, allora, nonostante lui non fosse vissuto abbastanza per rivederli. Era stato intrappolato e divorato da gigantesche piante carnivore. Ma i suoi cuccioli erano sopravvissuti. Gregor li osservò con più attenzione. Loro fissarono lui, spaventati ma risoluti. — Somigliate molto a vostro padre — disse, e si sorprese lui stesso per l’emozione che trapelava dalla sua voce, per quanto era commosso e felice che ce l’avessero fatta.

— E tua madre? — chiese Lapblood.

Gli sembrava passata un’eternità da quando qualcuno gliel’aveva chiesto. In genere, tutti evitavano l’argomento, come se parlarne non facesse altro che ricordargli dolorosamente la sua malattia. Ma Lapblood sapeva che non era così. — Sta bene, credo. Cioè, era molto malata per via del contagio, ma poi è migliorata. Però l’ultima volta che l’ho vista aveva la polmonite, e dopo l’hanno evacuata alla Fonte. Alla fine è stato un bene, perché l’ospedale di Regalia era affollatissimo, ma da allora non ho più avuto sue notizie. Ripred dice che la riporterà a casa al posto mio. Dopo la guerra. Visto che io non potrò farlo. Ripred dice che ci penserà lui. — Gregor si accorse che stava balbettando e si controllò. — Grazie per averlo chiesto.

Gregor ebbe l’impulso improvviso di toccare Lapblood, di posarle la mano sulla testa e sentire di nuovo quel pelo setoso sotto le dita. Ma sapeva che agli altri ratti sarebbe parso strano, se non addirittura minaccioso. Perciò si limitò ad avviarsi lungo la galleria in salita. — Forza. Ripred è quassù.

Fu Lapblood a seguirlo. Gli altri rimasero nelle profondità della galleria. Meglio così. Gregor temeva che l’arrivo anche di un solo ratto potesse provocare un attacco di panico a Lizzie. Ma lei prese esempio dalla reazione di Ripred e fu lieta di vedere Lapblood.

— Bene. Ce l’hai fatta. Quanti ne abbiamo? — le chiese subito lui.

— Almeno settecento. Forse mille — rispose Lapblood.

Ripred si accigliò, un tantino impressionato. — Così tanti? Ti sei data da fare.

— Dove vuoi che ci piazziamo? — chiese Lapblood. Ripred le diede rapidamente ora, posizione e istruzioni. Lei annuì, si girò verso Gregor e disse: — Ti ringrazio per quello che hai fatto nella giungla.

Gregor le aveva salvato la vita, ma Lapblood aveva salvato Boots. — Anch’io ringrazio te.

Lapblood gli sfiorò il polso col muso, poi sparì.

“Un altro addio” pensò Gregor.

Un’altra ultima volta. Ma non era niente in confronto a quelle che avrebbe dovuto affrontare nei due o tre giorni successivi.

Ripred ordinò a tutti di andare a dormire. Il sonno di Gregor fu profondo e senza sogni. Venne svegliato dal naso di Ripred che gli toccava la spalla. Gregor si stropicciò gli occhi e si guardò intorno. Non c’era nessun altro in piedi. — Di qua — sussurrò il ratto, e Gregor lo seguì in fondo alla grotta. — Il giorno è arrivato — disse Ripred.

“Il giorno in cui morirò” pensò Gregor. Ma il suo solo commento fu: — Così presto?

— Sì. Dobbiamo muoverci in fretta. Ma c’è una cosa che voglio dirti in privato — proseguì Ripred. — Riguarda un certo verso della Profezia del Tempo.

La morte del guerriero.

“Ci siamo” pensò.

Si preparò a un addio, ma le parole che il ratto pronunciò in seguito furono qualcosa di assolutamente inaspettato.

— Il fatto è… — iniziò Ripred. Lanciò un’occhiata intorno per accertarsi che tutti gli altri stessero ancora dormendo. — Il fatto è che io non credo alle profezie di Sandwich.