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Il Club Zero

Torno a casa con un’ora e mezzo di ritardo, stanco morto, confuso e preoccupato. Tutto considerato, non è stata una bella giornata in ufficio: una riunione tutt’altro che chiarificatrice sulle attività dei russi nell’Europa occidentale, una vecchia conoscenza che non mi riconosce più, la scoperta che il Memorandum di Fuller è sparito, e come se non bastasse Panin che mi rimprovera perché sono all’oscuro di tutto. Eppure ho la sensazione di avere a portata di mano tutti i tasselli del puzzle, solo non riesco a capire dove sono. Forse, con la mia solita sfortuna, li ha infilati sotto un divano un gatto invisibile.

Sono le otto passate, giro la chiave nella serratura, passo la mano sinistra sulla protezione ed entro nell’anticamera. In cucina sono accese le luci e c’è un buon odore di pollo arrosto. «Ciao» dico ad alta voce.

«Sono quassù!» Mo è di sopra e non sembra incazzata. Meno male.

Getto da qualche parte la giacca e salgo i gradini due alla volta. La porta del bagno è aperta e lei è immersa nella vasca, ricoperta da una quantità industriale di schiuma verde e con una maschera di fango sul viso. Sembra il mostro della laguna nera. «Hai avuto il mio messaggio?» le domando.

«Sì. A chi alludevi citando la famiglia Addams?»

«Cosa? Oh, cazzo, lascia perdere.» Naturalmente non può leggermi nel pensiero, altrimenti ci sarebbe stato un battaglione appostato davanti al pub senza darmi il tempo del primo sorso di birra. Sto perdendo la mano. «Sono un disastro» ammetto.

«Cosa? Guarda che io ho avuto una giornata molto più noiosa.»

Mo sbuffa e soffia una nuvola di bolle verso di me. «Ho passato quasi tutta la mattina e il pomeriggio seduta su uno sgabello di legno a guardare un esperto ultrasessantenne ed esaurito che borbottava in un dittafono. Poi ho dovuto correre a una riunione. Dopo sono passata dall’ufficio, ma Mike non c’era, allora sono tornata a casa. Al supermercato ho preso un pollo ruspante che adesso è in forno. Speravo tu mi dessi una mano col contorno.»

«Ma certo.» Guardo la vasca. «Ci metterai molto?»

«Almeno mezz’ora. Ho messo a cuocere il pollo prima di salire. Dagli un’occhiata fra un quarto d’ora.»

Preferirei restare qui con lei, ma so distinguere un ordine da una richiesta. «A proposito, mi sono impelagato in queste ricerche di Angleton sul Barone Sanguinario, ma le trovo un po’ confuse. Inoltre, non mi hanno ancora mandato le relazioni su quell’altro lavoro che tu sai. Della scorsa settimana.»

Lei resta in silenzio per quasi un minuto, poi sospira. «C’è una bottiglia di Bordeaux in fondo alla credenza, dietro i piatti e il vasellame. Aprila e falla respirare per un po’.»

Di sotto, sbuccio e faccio bollire le patate, poi le metto in padella, do un’occhiata al pollo, affetto un po’ di carote e le verdure sono quasi pronte quando lei scende con l’accappatoio e i capelli avvolti in un asciugamano. «Che buon profumo» osserva, poi guarda scettica le patate e prende il comando. Io tiro fuori i piatti e verso due generosi bicchieri di vino.

Mezz’ora dopo abbiamo demolito una buona metà del pollo e un’intera padella di verdure stufate, per non parlare della bottiglia di vino, quasi vuota. Mo ha l’aria soddisfatta. Io infilo i piatti nella lavastoviglie e metto da parte il riciclabile. «Volevi sapere di giovedì» dice, guardando ciò che resta del suo bicchiere di vino.

«Non faccio che incontrare persone convinte che io lo sappia.» Vado in cerca di un’altra bottiglia da aprire. «Non posso far finta di niente.»

«Cosa sai del Club Zero?»

«Niente.» Prendo il cavatappi e mi metto all’opera su un pinot nero.

«Sono adepti del cazzo di una setta del cazzo.»

Adepti. Sono come scarafaggi. Noi umani siamo stati incredibilmente affinati dall’evoluzione nel cogliere coincidenze e nessi causali. È un talento molto utile che risale all’epoca della savana, quando notare delle impronte di leone vicino alla fonte per abbeverarsi e collegarle alla perdurante assenza di un membro della tribù poteva salvarti la pelle. Ma una volta sviluppate delle contromisure, come le asce di pietra e il linguaggio, queste ci si ritorsero contro. Infatti ora, quando cogliamo delle coincidenze, le consideriamo subito intenzionali. Da qui nascono le religioni. La natura combina robe strane, perciò dev’essere dominata da entità superiori. Lampi tra le nubi? È Zeus a scagliarli. Muoiono tutti per un’epidemia tranne quelli che adorano uno strano dio che si lava ogni giorno? È magia nera.

Certo, la religione ha i suoi vantaggi, ma diventa un tallone di Achille se la tua civiltà è minacciata da orrori alieni ultrapotenti. Abbiamo un ampio repertorio di comportamenti da primati, compreso il bisogno di leccare il culo al maschio più grosso e cattivo del branco, e la tendenza a credere che in cima alla gerarchia vi sia sempre quello più intelligente e stronzo. Inoltre, ci sono religioni davvero orribili. Ma non contano le specifiche dottrine, quanto il rischio che gli adepti pratichino senza volerlo una vera evocazione, e dall’altra parte, a prescindere da chi viene chiamato con quale nome, arrivi il messaggio: “È l’ora del rancio”.

Prendo un gran sospiro. «Di che culto si tratta stavolta?»

«Di quelli che piacciono agli americani all’estero.»

«Americani? Ma la Camera Nera non…»

«Non hanno alzato dito. Alla Pattumiera hanno avuto una dritta dall’FBI su un mucchio di folli fanatici antiabortisti che la scorsa settimana avevano progettato un botto al summit del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione all’Aia. Sai che di questi tempi sparare ai dottori e lanciare bombe incendiarie sui consultori non è considerato terrorismo in America?»

La lascio sbollire per un minuto. Intanto stappo la bottiglia di vino e le verso nel bicchiere il resto della prima. «Perché è finita a noi?»

«Una chiacchiera tira l’altra.» Scola il bicchiere e lo spinge verso di me. «Non sono i soliti fondamentalisti cristiani, hanno dei precedenti. La Pattumiera e il centro dello spionaggio elettronico di Cheltenham li tengono d’occhio, per questo hanno avvertito il servizio segreto olandese, l’AIVD, ma si sono scordati di noi, ed è stato un guaio. Siamo entrati in ballo solo quando la squadra dell’AIVD che sorvegliava le centinaia di chili di clorato di sodio e le micce dei detonatori che quei fanatici avevano accumulato ha notato l’elenco delle forniture della setta e le capre bianche. La Libera Chiesa del Regno Universale…»

«La Libera Chiesa di cosa

Mo manda giù una lunga sorsata di vino. «La Libera Chiesa del Regno Universale. Secondo loro, Gesù è venuto solo a dare il buon esempio e noi abbiamo la capacità di salvarci da soli. Alcuni sono predestinati alla salvezza dall’inizio dei tempi, e hanno il compito di diffondere il credo sull’intero pianeta con il fuoco e la spada. Sono contro il controllo delle nascite e vogliono affrettare il secondo avvento sovrappopolando la Terra di anime in pena che Gesù non potrà più ignorare. Ancora non ci arrivi?»

«Sono dei fan del caso Nightmare Green?»

Mo annuisce con decisione. «Ne sono incantati. Il loro credo non ha senso in termini di teologia cristiana tradizionale, per non dire di logica. Questo perché dietro la facciata della setta si nasconde qualcosa di molto più sinistro. I membri che sorvegliavamo agivano sotto un glamour davvero orrido, di livello quattro o perfino più alto.»

«Allora Amsterdam?…» la incalzo.

«Quattro di loro erano già lì. Altri tre erano arrivati in aereo la settimana prima, per questo è stata attivata una squadra di sorveglianza in pieno assetto. All’inizio quelli dell’AIVD credevano che si preparassero a lanciare una bomba contro una clinica dove si eseguivano aborti. Poi però il pastore ha portato un paio di capre bianche e hanno pensato che gli obiettivi fossero Franz e i suoi, così ci hanno chiesto di intervenire.»

«Capre…»

«Animali sacrificali per l’evocazione. La squadra di sorveglianza era così concentrata a tenere d’occhio gli esplosivi da non notare gli attrezzi per la lavorazione dei metalli e i crocifissi, o il fatto che avevano affittato da tre mesi una cappella luterana sconsacrata e invitato il loro vescovo a visitarla. Solo martedì scorso hanno collegato le cose e si sono resi conto di cosa stava succedendo. A quel punto hanno chiamato me.»

È gelida e distante, come se l’unica fonte di calore del mondo fosse il bicchiere che stringe.

«La bomba era solo un diversivo. C’erano già due cellule all’opera, una delle quali, esterna alla chiesa, non sapeva neppure di fare da copertura. Gli altri, quelli con la capra e la griglia evocatrice nella cripta della cappella, erano i veri agenti, iniziati alla vera fede. Erano pronti ad aprire un portale a…» Deglutisce. Le siedo accanto e le prendo la mano. «Le odio quelle cose» dice lamentosa.

«Non erano solo capre, vero?» azzardo. «Le capre preludevano a qualcos’altro.»

«La cappella era vicina a un asilo» dice, e sprofonda in un silenzio impenetrabile.

Potrei commentare solo con un “brrr”, perciò tengo la bocca chiusa e le stringo la mano finché lei non se la sente di riprendere.

«Abbiamo messo assieme una squadra di forze speciali olandesi e un’unità antiterrorismo della polizia che stavano per isolare la zona. Il problema è che era pieno pomeriggio e c’era molta gente in giro. Pensa, un’operazione antiterrorismo nei pressi di un asilo, con i genitori che vengono a prendere i loro piccoli. Un terreno di caccia che attira i media come mosche in una fogna. Perciò avevano deciso di rimandare tutto alla sera. Ma a un tratto i monitor dell’autocarro di controllo OCCULUS hanno perso l’audio delle cimici, e io ho iniziato a rilevare possibili interferenze nei paraggi della cappella. Ormai era troppo rischioso aspettare ancora. Le forze speciali hanno fatto irruzione e io le ho seguite. È stato molto spiacevole.»

«Cos’avevano?…»

«Avevano costruito una griglia evocatrice sull’altare e creato un circuito più grande, con una geodesica puntata… sull’asilo al di là della strada.» Deglutisce ancora a vuoto. «Avevano iniziato con le capre per riscaldarsi. Ma c’era una senzatetto e l’avevano usata come…» Mo trattiene il fiato e si asciuga le labbra. «Intestini. Corde, matasse e grovigli di… Un grande circuito fatto di interiora umane, ancora unite per il sacrificio.» Non sta deglutendo, cerca di trattenere il vomito.

«Basta.» Cerco di lasciarle la mano. «Non sei costretta a continuare.»

«Invece sì.» Mi stringe le dita con lo sguardo fisso su di me. «L’avevano crocifissa, capisci? I microfoni avevano captato le loro preghiere prima del sacrificio: “Io sono la via, la verità e la vita. Solo attraverso di me si arriva al Padre”. Lo intendevano alla lettera. Non so perché non abbiamo sentito le sue grida, forse l’avevano sedata, o almeno spero.» Speranza vana: la sofferenza è una fonte di energia. Ma non glielo faccio notare. Ora sta tremando. «Il portale era aperto, Bob, e io ho dovuto attraversarlo.»

La mia Giovanna d’Arco. Voi vi gettereste in un portale fatto di intestini fumiganti che vi succhia l’anima, armati solo di un violino ricavato dalle ossa di vittime sacrificali urlanti? Lei sì.

«Le cose penetrate nei corpi degli adepti avevano già divorato il viso e la gamba sinistra di un’insegnante bionda» prosegue Mo. «Ma c’era un bambino somalo che urlava ancora e ho dovuto occuparmi di lui.»

Il suo stomaco non regge più e riecco la cena. Vado al lavello e tiro fuori la ciotola di plastica e i detersivi, poi le porto un bicchiere di acqua del rubinetto. «Sciacquati e sputa» dico, tenendole la ciotola sotto la bocca.

«Fottuti dei, Bob…»

«A letto. Subito.»

«Abbiamo ucciso quelle cose orribili, ma era troppo tardi per una bambina con i codini, ho recuperato la testa, ma…»

Adesso piange e le viene fuori tutto, ogni dettaglio, come una fogna che rigurgita un decennio di merda e piscio. La porto di sopra e posso solo infilarla sotto la trapunta e rimboccargliela. Piange ancora, anche se i singhiozzi sono più lenti.

«Dormi e pensa solo che è tutto finito» le dico carezzandole la fronte. Mi sfilo l’amuleto e glielo metto al collo. «Richiesta lieve paramnesia livello due, otto ore in fase REM, priorità, fine.» Poi le carezzo di nuovo la fronte. «È finita, Mo.»

Mentre scendo di sotto a ripulire, la sento russare.

Per dieci minuti mi distraggo ripulendo la cucina, ma non abbastanza da dimenticare tutto quello che mi ha messo in mente Mo. È impossibile, ho affrontato anch’io merdate del genere. Mi sono trovato in situazioni in cui dovevo andare avanti a ogni costo, perché se mi fossi fermato sarei stato finito. Ma questa è particolarmente terrificante.

Dipende dal fatto che ci sono state vittime tra i civili. In genere so badare a me stesso, e anche Mo, ma un asilo… Non voglio pensarci, ma è impossibile, perché finiremo tutti così quando crolleranno i muri della realtà e gli dei si agiteranno nelle cripte.

Di solito evito i funerali: mi mandano in bestia. So che confortano i familiari dei defunti e permettono di dare l’estremo saluto, e questo è un bene. Ma in genere nella confezione c’è anche un prete, e quando questo comincia con le solite idiozie sul fatto che zio Fred, morto a sessantadue anni di un tremendo tumore al cervello, è al sicuro nelle amorevoli braccia di Gesù, non provo nessun affetto per il creatore. Al contrario, vorrei riempirlo di pugni in faccia.

Sono figlio dell’Illuminismo, cresciuto con la convinzione che i principi morali ed etici siano universali e validi per chiunque. Ma questi valori non si conciliano con una religione che presuppone un Creatore. Per come la penso, un essere onnipotente che mette su un universo popolato di creature senzienti che si riproducono, invecchiano e muoiono, di solito immerse nel dolore, nella solitudine e nel terrore, è un sadico su scala cosmica. Di conseguenza, considero la teologia e i credi religiosi un mucchio di cazzate superstiziose. Preferisco l’ateismo inglese. Purtroppo, però, so troppe cose.

Vedete, ci siamo evoluti quasi per caso. Il cantuccio dell’universo in cui viviamo ha 13,73 miliardi di anni, e non c’è nessun padreterno onnipotente, onnisciente e invisibile con cui prendersela per tutte le nostre sofferenze. Tanto meglio: vivo libero in un cosmo indifferente e non in un planetario meccanico costruito dal sadico in questione.

Sfortunatamente, la cosa non finisce qui. Quelli che a volte chiamiamo “gli antichi dei” sono intelligenze aliene evolutesi a modo loro in posti ed epoche inconcepibilmente lontani, in zone dello spazio-tempo del tutto separate dalla nostra, dove le regole sono differenti. Ma questo non significa che non possano arrivare da noi. Come ha detto Clarke, una tecnologia abbastanza avanzata è indistinguibile dalla magia. Quindi, un’intelligenza aliena abbastanza avanzata è indistinguibile da una divinità della sottospecie furiosa, monoteista e sadica. E gli antichi non sono amichevoli.

Per questo preferirei essere ateo.

Pigio il bottone della lavastoviglie, mi raddrizzo e do un’occhiata all’orologio della cucina. Sono quasi le dieci e mezzo, ma io sono sveglio come un grillo e pieno di gelida rabbia esistenziale. Non voglio andare a letto, potrei disturbare Mo e lei ora ha bisogno di dormire. Salgo le scale in punta di piedi, le do un’occhiata e vado in bagno, poi riscendo. Posso restarmene in una cucina che puzza di candeggina o in un soggiorno infestato di ricordi paurosi. Non sono in grado di sopportare le sciocchezze della televisione o concedermi il conforto di un libro. Perciò mi aggancio la fondina, prendo la giacca ed esco a passeggiare.

Anche se è estate, è già buio e i lampioni sono accesi. Cammino sul marciapiede tappezzato di foglie, fra le siepi potate e le auto parcheggiate. I muri chiazzati di lichene e i bidoni a rotelle sono squallidi nell’arancione malato del crepuscolo riflesso dalle nubi. Il traffico romba distante, al ritmo di una città insonne. Qua e là, finestre illuminate internamente dal teatro di ombre delle allucinazioni televisive. Svolto a un angolo e proseguo in discesa sotto il vecchio ponte ferroviario, poi giro a sinistra e supero un garage in fondo a una stradina senza uscita.

Angleton è scomparso. Perché? E dove si trova? Alle Risorse umane non risulta nessun domicilio. È come se non avesse un’esistenza propria. Non c’è da sorprendersi. Non ce lo vedo in un cottage vecchio di quattrocento anni in un villaggio di campagna, con una signora Angleton che appende il bucato nel giardino sul retro. Oltre ad aver sposato il suo lavoro, non va mai in vacanza, è sempre in ufficio, e c’è quella foto, forse ereditata da Dorian Gray. Questo è il primo indizio che qualcosa non va. Angleton non fa mai niente per caso. Perciò o c’è del marcio in Danimarca o si è imbarcato in un’impresa di cui non intende parlare con nessuno.

Giro a destra e attraverso una via principale, vuota a quest’ora di notte, proseguo e svolto a sinistra in una strettoia tra filari di alte recinzioni di cortili posteriori pieni di erbacce, bidoni di spazzatura e perfino un camper che cade a pezzi.

Il Memorandum di Fuller è sparito. Di qualsiasi cosa si tratti, è ancora una patata bollente dopo più di settant’anni. Anglenton si interessava a questo, al Barone Sanguinario e all’incombere del caso Nightmare Green.

Domanda: perché i russi s’impicciano? E cosa intendeva Panin a proposito della teiera da ritrovare? Alludeva veramente all’attendente psicotico di Ungern Sternberg? Ho controllato. Teiera fu ucciso dalle truppe ribellatesi al barone prima di consegnare quest’ultimo ai commissari di Trotskij. O almeno gli ammutinati dissero di averlo fucilato. E se invece fosse riuscito a scappare nella foresta siberiana e loro avessero inventato una frottola?

Giro a destra su un sentiero stretto che porta a una pista ciclabile, costeggiata di faggi e castagni spuntati dai ripidi terrapieni laterali e fiocamente illuminata da lampioni isolati. Decenni fa era una linea ferroviaria, ma non per pendolari, chiusa come altre per i tagli ai trasporti nella prima metà degli anni Sessanta. Me la sono ritrovata davanti poco dopo che ci siamo trasferiti qui, e mi ha incuriosito al punto di fare qualche ricerca.

La London Necropolis Railway era una tratta che partiva da dietro la stazione di Waterloo e arrivava al grande cimitero di Brookwood, nel Surrey. Questo tracciato è uno dei suoi affluenti, un placido torrente che alimenta il grande fiume dei morti. Oggi i ciclisti lo usano per evitare le arterie intasate che vanno verso il centro. Inspiegabilmente, però, nessuno viene a farvi un po’ di moto dopo il lavoro, perciò è tutto mio, mentre rimugino sul quadro della situazione.

Il Club Zero e Mo. Chi ha mandato zio Fester? Le alternative sono tre: Panin & Co., gli adepti che lei doveva sopprimere o una terza componente. Ma Panin è un professionista che rispetta le regole. Non ce lo vedo a spedire uno zombie sulla porta di casa dell’agente di un servizio segreto straniero. Non è pratico: un assassinio tira l’altro e così non vince nessuno, per questo le grandi potenze lo evitano. Però adepti come quelli del Club Zero certe cose le fanno eccome. Perciò sono pronto a scommettere che zio Fester era un emissario degli adepti che Mo doveva neutralizzare su richiesta dell’AIVD… A meno che non ci sia in gioco una terza parte, ma il solo pensiero mi agghiaccia.

La pista ciclabile si restringe e scende sempre più in basso. I lampioni si diradano ancora di più e molti sono spenti. A un tratto sento un fruscio dietro di me, come di un animale che dà un balzo. Mi guardo alle spalle e qualcosa balena nei cespugli tra i lampioni. Sembra un cane, con una grossa coda pelosa. Una volpe urbana? Forse, ma non ho visto orecchie né muso. Le volpi urbane non sono un problema, se non sei un gatto, ma i cani randagi sono un altro paio di maniche. Continuo a camminare nel crepuscolo. D’estate Londra è calda e umida, ma qui fa freddo e si sente un vago odore di fogna, dolciastro e leggermente marcio. Mi avvio in una corsetta per lasciarmelo indietro.

Ho la crescente sensazione che mi sia sfuggito qualcosa di molto importante. Finora, per lo stress, le varie situazioni critiche mi sono apparse del tutto slegate. Ma se fosse il contrario? Se ci fosse un nesso fra la scomparsa di Angleton e la ricerca di Teiera da parte di Panin, e la spiegazione si trovasse nel Memorandum di Fuller? E se gli adepti sapessero che la fine dei tempi è più prossima di quanto crediamo e cercassero di affrettarla…

Sento un crepitare di rami spezzati sotto gli alberi dietro di me. Un ansito affannoso e disumano che accompagna i passi pesanti di qualcosa a quattro zampe che mi insegue. La luce arancione al sodio si smorza lentamente intorno a me e al suo posto lascia una tonalità differente di oscurità. In alto gli alberi incombono minacciosi avvinti gli uni agli altri con braccia avvizzite e scheletriche come vittime dei campi di concentramento. Una nebbia sottile ai miei piedi nasconde la pavimentazione e ho una stretta allo stomaco. Non sto più correndo nella Londra suburbana, ma lungo lo spettrale tracciato ferroviario della Necropolitan Line, braccato dai mastini infernali. Ho lasciato a Mo la mia protezione e sono un fottuto imbecille.

Cazzo, cazzo, cazzo. Qualsiasi cosa io abbia alle calcagna, tra pochi secondi mi sarà addosso. Già il cuore mi batte all’impazzata per la coglionaggine di essermi messo a correre appena un’ora dopo cena. In più, oltre alla certezza di essere inseguito da una creatura infernale – nel qual caso dovrei prima colpirla con la pistola e poi fare domande – ho l’orribile sensazione che mi venga dietro per conto di qualcuno, o peggio che mi stia spingendo da qualche parte.

Ho una pistola, una Mano della Gloria e un JesusPhone. Tiro fuori il cellulare, apro la custodia e lo sbocco strisciando il pollice, mi giro di scatto, punto la fotocamera e pigio l’icona del teschio che sogghigna.

C’è un metodo nella mia follia e il mio inseguitore non è stupido. Intravedo dei garretti che balzano via dal sentiero e si nascondono tra gli alberi con un guaito.

Lo schermo mi rimanda un paio di fauci dai bordi rossi spalancate verso di me. Mi si rizzano i capelli e il cellulare e le punte delle mie dita sono inghiottite da un lampo azzurro. Torno in fretta sulla schermata principale e apro un’altra app, diagnostica. Il risultato mi fa imprecare sotto voce. Ne apro un’altra. Sullo schermo appare un tesseratto 5D che mi erge attorno un cerchio protettivo. La creatura canina rimane nascosta, le spire di nebbia si ritirano dai miei piedi. Rimetto in tasca il cellulare, sfilo la pistola e senza smettere di correre torno da dove sono venuto.

L’emulatore del cellulare è un pessimo sostituto della mia protezione e reggerà solo finché durerà la batteria che alimenta al massimo il suo minuscolo cervello elettronico, ma essere armato e protetto è il primo passo per la sopravvivenza, e solo ora vedo con agghiacciante chiarezza il pericolo in cui mi trovo. La seconda app che ho controllato era il taumometro, e avrei dovuto dargli un’occhiata prima, quando camminavo, dato che è quasi oltre il limite. E tutto perché mi muovo lungo la Necropolitan Line. Se si vuol creare un allineamento energetico ley, quale migliore fonte di un luogo in cui si sono accumulati il dolore e la sofferenza di milioni di persone che hanno perduto i loro cari, per non parlare dei cadaveri in putrefazione che vi sono passati? Dovevo aspettarmelo, ma di solito uso questo sentiero solo come scorciatoia per andare e tornare dalla stazione della metropolitana, di giorno.

Di certo mi seguono degli adepti. I bastardi che hanno ucciso i piccolini dell’asilo e le loro insegnanti, costretto Mo a passare per quegli indicibili orrori, e adesso ci provano con me. La questione è se mi danno la caccia o vogliono catturarmi.

Rallento la corsa in un passo svelto e guardo avanti. Mi stringo la pistola al petto con tutte e due le mani, e spero che l’incantesimo che la rende invisibile faccia sembrare solo che mi afferro il polso sinistro con la destra. La nebbia al livello del suolo vortica e si rapprende intorno a un paio di binari paralleli traslucidi dal colore di vecchie ossa, che poggiano su un letto di traversine eteree. Sopra di me gli alberi si agitano annodati, imploranti e supplichevoli. In lontananza sento strani suoni, singhiozzi spettrali, voci profonde che intonano qualcosa, parole indistinte.

È tutto molto inquietante, ma quando la realtà comincia a imitare un pessimo videogioco, si capisce che i cattivi hanno esagerato. Qualche testa di cazzo mi sta lanciando un glamour sperando di spaventarmi. È una tattica che potrebbe funzionare se fossi meno cinico, se loro avessero abbastanza immaginazione da renderlo davvero terrificante.

Quindi, se questo è un messaggio dello stesso gruppo che la scorsa settimana ha cercato di rifare il centro di Amsterdam, hanno inviato la squadra B.

Accelero di nuovo il passo, e proprio allora sento un raschiare proveniente dalla massicciata di sinistra. Mi si rizzano tutti i peli della nuca.

Mi giro di scatto, allungo le braccia davanti a me e infilo l’indice sul grilletto della pistola. La cosa si precipita giù sul sentiero e balza a capofitto verso di me, con un ringhio ripugnante e famelico che le risuona nel petto come i bassi di un organo, e mentre si lancia su di me penso a quanto cazzo odio i cani.

Schiaccio il grilletto due volte, mirando in basso. Colgo in un lampo fauci spalancate e una lingua che sbava, non ha occhi ed è più grosso di tutti i cani immaginabili. La pistola mi sobbalza silenziosa tra le mani e sento un rumore di poltiglia spiaccicata. Scarto di lato e la bestia sbatte sulle traversine nel punto in cui mi trovavo io un istante fa, con un ululato di agonia, serrandosi le fauci sulla spalla.

Non è un cane. I cani non sono scuri come un buco nero e le loro muscolature e le articolazioni sono quelli dei mammiferi. Questa cosa si piega a un angolo innaturale, mordendo l’aria e agitandosi. Mi porto dietro a quella creatura che si contorce, abbasso la mira sul retro del suo cranio e grido: «Fatti vedere, stronzo, o faccio fuori il tuo cane di merda!».

Sento un risolino smorzato. «Portaci la teiera e ti lasceremo vivere, mortale.»

Mortale? È proprio la squadra B, probabilmente in tonache con crocifissi capovolti e simili. Sono gli equivalenti occulti degli attentatori suicidi che postano le loro confessioni in video su YouTube due settimane prima di scoprire a loro spese che cercare di farsi esplodere con farina per pane azzimo non serve a niente se non a dare ai poliziotti la scusa per prendersi a pacche sulle spalle e rassicurare la gente con “Tutto è sotto controllo”. «Fatti vedere, stronzo» gli intimo.

Quella specie di mastino sui binari lancia un guaito di dolore. Poi noto con la coda dell’occhio che sulla spalla, dove l’ho beccato con un colpo grande come un pugno, dai bordi sfrangiati della ferita fuoriescono dei tubicini neri che si spingono all’interno. Merda. Se è quello che penso, spedendo la squadra B l’hanno fatta fuori dal vaso, e anch’io. «Hai cinque secondi» aggiungo. «Non morirà, ma s’incazzerà di brutto e sarà colpa di tutti e due.»

«Credi davvero di poter sparare impunemente a un Mastino, mortale?»

Questo è un autentico pallone gonfiato. Il tipico idiota da squadra B è o un fanatico religioso cresciuto con i deliri dei predicatori che schiumano nell’inglese del diciassettesimo secolo oppure una brutta copia che ha visto troppi film dell’orrore. Indietreggio di un passo: un contatto accidentale con questa variante canina è come sfiorare il terzo binario della metropolitana, quello elettrificato. Infilo la mano sinistra in tasca e mormoro la parola d’ordine per attivare la Mano della Gloria, che faccio per tirare fuori.

Le sue luci si accendono immediatamente, ma il mignolo s’impiglia nella fodera e l’amuleto fuoriesce con una nuvoletta puzzolente di stoffa bruciata. Comunque è un’altra arma da usare contro quel topo di fogna. Faccio un lungo passo di lato, poi un altro, allungando la mano avvizzita da una parte. La Glock mi sta addormentando l’altro braccio. Non posso reggerla così per sempre.

Da dietro il mastino che si dimena, dov’ero poco fa, viene una seconda voce, che chiede stridula: «Ehi, dove sta andando?».

Ha un tono… fievole. Chiamiamolo il Lacchè n. 1.

«Cazzo!» Questo è Pallone Gonfiato. Sembra incazzato. «Così lo perdiamo! L’Onnisuprema ne sarà contrariata!»

«Gli sto alle costole.» Una terza voce, femminile, gelida e controllata. Forse fa parte della squadra A, col compito di condurre la mandria sul carro. È la Lacchè n. 2. «Cammina verso…»

I piani non reggono mai al contatto col nemico, specialmente quando questo è invisibile, a portata d’orecchio e vigile, ma più che altro gli adepti non sopravvivono al contatto fisico con un Mastino. Il cagnolino dell’apocalisse dimena una zampa sul terreno e s’inarca preso dalle contrazioni, come mi aspettavo da quando l’ho colpito con quel proiettile extralarge. Peccato per il Lacchè n. 1, che se la becca in pieno, lacerato dai barbigli che la ricoprono. Il suo urlo si perde in un gorgoglio, ma è già morto, è solo il riverbero nella laringe dell’aria espulsa dai polmoni del cadavere. I muscoli gli si contraggono, con schiocchi delle articolazioni slogate e dei legamenti recisi, in una spasmodica breakdance che finisce in un cumulo informe accanto al Mastino.

Non aspetto il seguito. Scatto e fuggo sul terreno asciutto della massicciata, correndo in diagonale fra i tronchi degli alberi.

«Lo perderemo!» grida la Lacchè n. 2 con una voce squillante. «Piano di riserva!» Per un istante credo dica a Pallone Gonfiato di ritirarsi, poi però sento il secondo rumore più agghiacciante della serata, quello inconfondibile dello scatto del cursore di un fucile a pompa.

Mi appiattisco contro la massicciata e ruoto su me stesso, senza mollare la Mano della Gloria e la pistola. Due figure con le tonache compaiono sul sentiero, puntano le armi e fanno fuoco spazzando di proiettili la pista ciclabile da un capo all’altro. I boati mi scuotono i denti. Non mirano a niente, spargono solo nugoli di pallettoni ad altezza uomo. Col fiato in gola, lancio un’occhiata alla Mano della Gloria che stringo nella sinistra. Le punte delle dita sono in fiamme, sarò invisibile ancora per tre o quattro minuti. Fucili contro una pistola silenziata a venti metri? Scherziamo? Potrei anche colpirli, ma dovrei lasciare a terra la Mano della Gloria, e se non li becco entrambi con i primi due colpi, per un attimo il sopravvissuto mi avrebbe sotto tiro. Con un fucile.

Fottuti adepti della squadra B. Se fossero la squadra A, evocherebbero qualcosa di esotico e mortale per farmi il culo, e io saprei come esorcizzarla. Ma la squadra B era in fondo alla coda il giorno che l’Onnisuprema distribuiva incantesimi mortali, perciò si limitano a fare fuoco con i fucili.

Dieci colpi dopo li abbassano, e io mi sento la testa come se avesse sbattuto dieci volte di fila contro una porta. «Se l’è filata» dice Pallone Gonfiato.

«Infatti. Andiamocene.» La voce della donna è gelida come un climatizzatore. «Philip è morto e questo non piacerà all’Onnisuprema. Lascia parlare me, se ci tieni alla pelle.»

«Ma non possiamo…» piagnucola Pallone Gonfiato. Non sento il seguito, perché la donna dice qualcosa di stranamente distorto. Poi nell’aria all’improvviso si apre e si richiude una cavità nella quale spariscono. Anche il Mastino. E con lui il cadavere del Lacchè n. 1. Sono tornati nel posto da dove venivano. Sparisce anche il glamour: la pista ciclabile è di nuovo una viuzza dei sobborghi, illuminata dai lampioni che si riflettono nel cielo nuvoloso.

Per un po’ sono scosso da brividi incontrollabili. Poi spengo con cura le dita della Mano della Gloria, ripongo la pistola nella fondina, scendo incespicando dalla massicciata sul sentiero e mi do una spolverata.

Non cercavano Mo, cercavano me. Sapevano come scovarmi e volevano sapere della teiera. Una volta è un caso, due un’azione del nemico, e questo significa che è il momento di darsi da fare.