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Incubi diurni
Esco dall’ingresso di servizio sulla strada principale come una marmotta abbagliata dai fari di un Hummer che sopraggiunge a tutta birra.
È mercoledì, poco prima dell’ora di punta del pranzo, e i marciapiedi brulicano di gente che va in giro per spese o non ha di meglio dove andare. Mi supera una mandria di autobus che scoreggiano nubi di biodiesel solforoso e attentano ai polmoni dei ciclisti. Ma io non lavoro e qualcosa non va nel mio rapporto con la realtà, come se si fosse verificato un guasto; mi si è staccato un filo dentro.
Mi avvio.
Non voglio ancora andare a casa. Dovrei farmi sessanta o settanta minuti cambiando due autobus e poi non avrei niente da fare, se non starmene seduto a fissare il muro per il resto del pomeriggio. Se fosse una normale giornata estiva potrei farmi una passeggiata al parco di Wandsworth Common, a solo un chilometro e mezzo da qui, ma il cielo è coperto e grigio, e minaccia pioggia. Oppure potrei andare in città, prendere la metro per Euston e fare un salto alla British Library. Ho la tessera e ci sono manoscritti interessanti che volevo esaminare da un po’, in relazione al lavoro… No. Mi pare di sentirla, Iris che mi martella nella testa dicendomi di non farlo mentre sono in permesso malattia.
Alla fine vado alla più vicina fermata d’autobus appena in tempo per veder scomparire la mandria dietro l’angolo e aspetto dieci minuti per la prossima, in compagnia dell’iPod, di un paio di studenti, di una pensionata con un carrello della spesa e di un tipo alla zio Fester con un trench bisunto che evita deliberatamente gli sguardi altrui.
Salgo su un autobus e mi siedo al piano di sopra. È lentissimo. Ci mette una quarantina di minuti per arrivare a Victoria. Salto giù e vado a pranzo in un ristorante “all you can eat” a buffet. È zeppo, data l’ora, ma è meglio del tetro fornaio girato l’angolo del Nuovo distaccamento. Ne esco a stomaco pieno e un po’ rincuorato. Pioviggina. Le goccioline cadono sul marciapiede ed evaporano prima ancora di bagnare. Mi trascino fra turisti, studenti di lingue straniere e impiegati che marinano il lavoro. Guardo le vetrine assorto. Ho qualcosa in testa, qualcosa che non riesco a mettere a fuoco.
Ah, ecco: il tablet! D’accordo, è di proprietà della Lavanderia, ma è andato arrosto! Certo, ho anche un cellulare da quattro soldi, ma mi affidavo al tablet. Fra contatti e calendario, là dentro c’era tutta la mia vita. Sì, esiste un backup, ma si trova nel PC del mio ufficio, che decisamente non è un laptop e non mi è permesso portarmelo a casa. L’ultima cosa che serve alla Lavanderia è un titolone tipo “Funzionario statale perde il laptop: l’intera popolazione di Tower Hamlets divorata da orrori farfuglianti sbucati da oltre lo spazio-tempo”. Quindi per adesso sono alla deriva. Se Mo mi chiamasse ora non potrei davvero telefonare a Pete e Sandy. Aiuto! È una crisi! Be’, una crisi da poco, in fondo. Meglio preoccuparsi dei contatti persi che indulgere nel ricordo ossessivo di un lampo accecante e di un volto imploso. Inoltre, lo shopping è terapeutico, giusto?
Tiro fuori il cellulare e lo guardo disgustato. È un Motorola da niente con la SIM ricaricabile, e i suoi unici pregi sono che è piccolo e fa le chiamate. L’ho comprato un anno e mezzo fa, quando circolò la voce che la sezione Informatica e tecnologia minacciava di infliggerci dei Cazzberry con directory di lavoro centralizzata e di addebitarci le chiamate personali. La voce risultò infondata, ma mi tenni il cellulare (e il tablet che rimediai con l’autorizzazione di Andy), perché fra tutti e due se la cavavano meglio del vecchio Treo. Inoltre tutti gli smartphone ormai sono cagate. È l’unico settore industriale dove lo sviluppo fa rapidi passi indietro, perché le masse preferiscono usare i telefonini più come navigatori e fotocamere che per chiamare o leggere la posta elettronica.
L’unico smartphone che non fa schifo è sempre l’iPhone di ultima generazione, volgarmente detto JesusPhone, ma mi sono rifiutato di aderire al Culto di Jobs da quando ne ho visto per la prima volta il rilancio da un allegro gazebo. Non può valere fino a quel punto, malgrado le specifiche su carta.
Va a finire che passo un’ora a girare per negozi di telefonini, raffrontando caratteristiche e specifiche finché mi si fonde il cervello, solo per avere conferma che tutti i cellulari quest’anno sono cagate. Poi mi faccio condurre dai passi in un megastore e mi piazzo davanti a un’esposizione austera e minimalista dove luci alogene sono puntate sulla cover sfavillante di un JesusPhone.
Sopraggiunge un commesso. «Posso aiutarla?»
Punto un dito sul telefonino come attirato da un potente incantesimo. «Quanto costa?» Le conosco a memoria, le caratteristiche.
«Il modello da 64 GB? Con un contratto da diciotto mesi…»
Il JesusPhone mi sorride, lo giuro: “Vieni da me, vieni da me e sarai salvato”. Le curve sensuali, l’elegante scivolata delle icone nell’interfaccia multitouch… “Chiunque l’abbia progettato è un sagace illusionista” penso vagamente avvicinando la punta del dito al display. Sarà almeno un glamour di livello cinque.
Poi mi dico: “Non avrei dovuto avvicinarmi tanto”. Ma a quel punto sto già uscendo dal megastore con una busta e una ricevuta da cui risulta un tale buco nel mio conto corrente che questo mese Mo avrà qualcosa per cui imprecare, a beneficio degli azionisti della Apple.
Entro in casa di soppiatto, con una coda metaforica tra le gambe, brandendo il JesusPhone come premio di consolazione per l’assenza di vita reale.
Le quattro del pomeriggio.
La pioggia riversa acqua a cateratte che tracima dalla grondaia sulla finestra della cucina. Io siedo a tavola con un laptop e un JesusPhone fresco fresco di jailbreak, quando suonano alla porta. Mi alzo e mi trascino ad aprire.
«Festa a sorpresa!» Sono due facce familiari. Pinky regge l’ombrello e Brains solleva due barilotti di birra.
Mi faccio indietro. «Ehi, cosa si festeggia?»
«Guardati dagli smanettoni che portano birra: sono peggio dei greci che portano doni.» Pinky piega la testa da un lato e mi lancia un’occhiata folle. Intanto Brains va dritto in cucina e fa spazio su un mobile. «Abbiamo sentito che ti sei bruciato il culo e pensavamo volessi un po’ di compagnia.»
Pinky e Brains: abitavamo insieme. Sono una bella coppia di smanettoni che adesso lavorano per il Supporto tecnico (sezione “marchingegni”, direttorato “brutti scherzi”). Brains si occupa dell’hardware, Pinky dei fattori umani e delle consegne. Ogni estate partecipano al Gay Pride a Regent’s Park, anche se al giorno d’oggi non sarebbero più tenuti a fare coming out per conservare il nulla osta di sicurezza.
Arriva una voce dalla cucina: «Ehi, chi ha lasciato questo coso qui?».
Mi affretto a rientrare. «È mio, da questo pomeriggio.»
«Il mio tessorooo.» Brains è chino sul nuovo telefonino. «Già fatto il jailbreak? Li stavo valutando, sembrano promettenti.»
«Non dire cazzate.» Guardo i barilotti di birra. Li ha allineati accanto al lavello. «Ehi, non sono nitropressurizzati.»
«Non preoccuparti. Sono senza anidride carbonica» dice Brains orgoglioso. «Normalmente devi aspettare ventiquattro ore per aprirli, ma con questo…» Tira fuori dalla tasca impermeabile una scatolina di roba elettronica fatta da lui. «… Bastano sessanta minuti.»
«Cos’è?» Faccio una pausa. «Se è un multiplatore temporale, ti avverto: l’ultima volta che ne abbiamo avuto uno in casa, Mo ha dovuto abbattere tutto quello che c’era in frigo con una mazza da cricket, ed era molto seccata…»
«Ma no, è ultrasonico.» Lo accende, lo piazza sul primo barilotto e io mi sento contrarre i muscoli della mascella. Sarà ultrasonico, ma le sue armoniche di bassa frequenza mi fanno pensare a una mosca della grandezza di un Boeing 737.
«Spegnilo.»
Pinky fa qualcosa di strano con l’ombrello. Lo capovolge al centro e mi accorgo a scoppio ritardato che è un nastro di Möbius, e svanisce, tranne un manico tozzo, che appende alla maniglia interna della porta. Sbatto gli occhi. «A cosa devo l’onore?»
«Iris ha detto che ti avrebbe fatto bene un po’ di compagnia» dice Brains in tono blando. Il telefonino manda il suono di un SMS in arrivo e lo leggo. È di Mo: “Trattenuta al lavoro, non restare sveglio ad aspettarmi”.
Non porto al collo una protezione, non ho fatto in tempo a chiederne una sostitutiva di quella che ho tostato ieri, ma non ne ho bisogno per capire che è un trucco. Mi pulsa una ghiandola. «È una messinscena, vero? Che succede?» Lancio un’occhiata all’anticamera, aspettandomi una nuova scampanellata e Andy e Boris che appaiono per un briefing sull’ennesima operazione strampalata.
«Non dire cretinate, Bob» replica Brains seccamente. «Iris ha saputo che la tua mogliettina è stata convocata per un incidente ad Amsterdam e ha pensato che qualcuno doveva farti compagnia oggi. L’angelica Mo dovrebbe tornare domani e fino ad allora eccoci qui.» Accenna alla birra. «Come ai vecchi tempi, eh?»
«No, non è come ai vecchi tempi» sbuffo. Poi afferro. «Un lavoro ad Amsterdam?»
«Avevano bisogno di un primo violino.»
«Oh» faccio. Ecco che significa aver sposato Mo: ogni pochi mesi viene chiamata all’improvviso da qualche parte in Europa con il suo violino. Filosofa di formazione accademica ed epistemologa operativa, non parla di cos’accade in quei viaggi, ma devo tenerla per le spalle e calmarla quando si sveglia prima dell’alba, tremante e sudata. Anni fa, ci eravamo appena conosciuti, ho finito per salvarla da… be’, niente di gradevole, e mi ha ringraziato più che abbastanza. Il violino è un Erich Zahn originale, dotato di pickup da spazio di Hilbert. Sulla custodia c’è un adesivo con una scritta in nero su fondo giallo: QUESTO STRUMENTO UCCIDE I DEMONI. Qualche volta lei se ne sta fino a tarda notte a suonare una musica cui non voglio pensare.
Prendo il cellulare e le rispondo: “Divertiti ad Amsterdam e stai attenta. Baci”. Poi lo metto giù con cura, come se potesse esplodere. Ora sì che ho qualcosa di cui preoccuparmi, per distrarmi dall’autocommiserazione per l’inchiesta e dal continuo rimuginare sul viso di Helen che mi si fonde davanti agli occhi. È una minaccia tangibile di cui preoccuparmi. Se succede qualcosa a Mo non so cosa farò. Non mi guadagno da vivere come pensano i miei genitori e il mio fratello maggiore, che mi credono un impiegato statale di poco conto. E lo stesso vale per Mo, solo che suo padre è morto, sua madre è svampita e la sorella minore ha sposato un ingegnere a Dubai. Siamo soli, ma possiamo contare l’uno sull’altra, sostenerci a vicenda come molte coppie non paiono fare. Comprendiamo i rispettivi problemi. Questo significa che adesso devo bere anche per lei.
«Sullo scaffale superiore del frigo, a sinistra, c’è una bottiglia di vino aperta» dico, e tiro fuori dei bicchieri dalla credenza. «Non siete in macchina, vero?»
«Sarebbe da irresponsabili, Bob» dice Pinky, solenne. «È questa la bottiglia?»
«Portala qui.» Resto con la bottiglia sospesa su un bicchiere invitante. «Boris non ha niente a che fare con questo?»
«Piantala con le stronzate» ribatte Brains, impadronendosi della bottiglia e del bicchiere. «Quest’anno Boris è assegnato alla Pattumiera. Prendi questo. Che ne dici di un brindisi? Al caos nelle file del nemico!»
Alzo il bicchiere. «Quale nemico?»
Scrolla le spalle. «Informatica e tecnologia, Risorse umane, l’implacabile rapina del tempo, quello che ti pare.»
«Brindo a quello!» dice Pinky, e annuisco.
Sarà una lunga serata, ma lo sarebbe stata comunque, e almeno così non dovrò passarla a rimuginare da solo.
Il mattino dopo mi sveglio con la bocca come se ci avesse dormito e fatto colazione un ratto, e Mo non è ancora tornata. Mi giro dal suo lato del letto. Vuoto. È presto ma sbadiglio e mi tiro su a sedere, poi vado in bagno a cambiare le lenzuola al ratto e scendo incespicando di sotto. Il lavello è pieno di bottiglie vuote e qualcuno ha lasciato sul tavolo un JesusPhone collegato al mio laptop…
Cazzo! Non era un sogno. Accendo il bollitore e mi passo il pettine tra i capelli, chiedendomi se posso restituire quel maledetto aggeggio. In fondo, non l’ho ancora attivato.
Accanto c’è un appunto scritto a mano. Lo leggo col cuore in gola: “Ciao Bob, spero ti piacciano le sorprese. Brains”.
No, non posso restituirlo, almeno finché non scopro cosa ci ha fatto Brains. Mi frugo nella memoria in cerca di dettagli, ma è tutto confuso. Ricordo di avergli sentito dire che stava facendo una valutazione. Gesù, potrebbe avergli messo dentro di tutto. Non che Brains ci installerebbe software segreto e sperimentale legato al nostro lavoro, ma la cosa cambia se ha pensato che fosse una dotazione d’ufficio.
Accendo la radio proprio quando il bollitore tintinna e si spegne. Tiro fuori dalla credenza la caffettiera, la riempio di cucchiaini di caffè, ci verso l’acqua e resto a fissarla, come se questo la facesse filtrare più in fretta.
A quel punto mi accorgo che è giovedì e non mi aspettano in ufficio, o meglio si aspettano che io non ci vada. Non ho la più vaga idea di cosa fare. Non è come in vacanza, dov’è tutto organizzato per divertirsi sulla spiaggia con Mo, o come un fine settimana a vegetare in casa davanti alla TV. Piuttosto, mi sembra di essere ai domiciliari. Il permesso malattia non è affatto divertente quando ci sei obbligato dal tuo capo.
La radio blatera le notizie: il Primo ministro parla della necessità di avere scuole religiose, poi qualcosa su un convegno dell’ONU nei Paesi Bassi sul Fondo per la popolazione, un calciatore del cazzo che ha un ingaggio multimilionario da una squadra di calcio del cazzo… Le solite schifezze che amiamo ascoltare solo per sentirci informati. Ora come ora, mi sembrano provenire da un altro mondo.
Abbasso con cura lo stantuffo della caffettiera – è irrigidito e se non si sta attenti fa schizzare caffè dappertutto – mi verso una tazza e siedo di fronte al JesusPhone. Però, è davvero lucido.
Che può averci fatto Brains? Non ci metto molto a scoprirlo: l’icona che sembra un’asciugatrice non è molto discreta. Vi poso il pollice e compaiono delle nuove icone. Che cazzo?… È molto più di una valutazione. Chi di noi va in missione deve portarsi dietro un’intera gamma di software dedicato che non necessita di particolare hardware, basta un normale processore in grado di effettuare insoliti calcoli a moltissime cifre, e il nuovo smartphone è più che sufficiente. Questo, poi, sembra il primo passo per adattare al JesusPhone l’intero apparato difensivo occulto, e significa che posso scordarmi di restituirlo.
Brains ha involontariamente smerdato la nostra barriera di sicurezza, installando software segreto su un dispositivo non autorizzato. È stato solo un equivoco e non c’è nessun problema se introduco di nascosto il telefonino nel Nuovo distaccamento e glielo faccio ripulire, riportandolo allo stato originario, come se non fosse successo niente. Ma fino ad allora devo portare addosso di continuo questo cazzo di coso e difenderlo a costo della vita. Oppure deferirlo alla Supervisione operativa, ma non mi eccita affatto essere sottoposto contemporaneamente a due commissioni d’inchiesta.
«Gesù, Brains» mormoro. «Cosa bolle in pentola?» Pigio sulle opzioni, ammirato. Ha fatto un ottimo lavoro di acquisizione. È integrato quasi quanto la vecchia versione che avevo sul Treo, prima che lo ritirassero perché violava le nostre norme sullo smaltimento.
Mezz’ora dopo mi squilla il vecchio e indesiderato Motorola. Lo prendo e leggo sul display: “Trattenuta”. Significa che si tratta o di televendite o di lavoro, perché ho inserito la deviazione di chiamata sul mio numero segreto d’ufficio.
«Sì?»
«Bob?» È Andy, il mio ex dirigente. Brava persona, quando non ti pugnala alle spalle.
«Che c’è? Sai che sono…»
«Sì, Bob. Ehm, si tratta di Mo.» Mi siedo di schianto. «Arriva da Amsterdam al London City Airport.» Il cuore riprende a battere. «Meglio che tu vada a prenderla. Atterra alle undici e ce la fai se ti muovi entro dieci minuti.»
«Cosa le è successo?» Stringo il telefono così forte da costringermi a riaprire il pugno. Meglio non romperlo prima di avere trasferito il mio numero.
«Niente» risponde, troppo in fretta. «Devi solo…»
«Vado! Vado! Mi tiro giù dal letto di malato, lamentoso e zoppicante in vestaglia, e corro all’aeroporto, va bene?» Mi guardo attorno in cerca delle scarpe: le ho lasciate in anticamera ieri sera. «Sicuro che stia bene?»
«Non del tutto» risponde piano, e chiude.
In un lampo mi vesto e sono fuori di casa, diretto alla stazione della metropolitana dietro l’angolo, per prendere il treno per Bank e la linea leggera per il London City Airport. All’ultimo momento ricordo di prendere il JesusPhone e me lo infilo nella tasca a chiusura lampo del giubbotto. Sulla piattaforma della linea leggera mi accorgo di aver dimenticato di radermi. Se Andy mi ha preso in giro…
Ma i dubbi cadono quando arrivo alle undici meno dieci al terminal degli arrivi e vedo sul pannello il volo KL 1557, previsto fra un quarto d’ora. Se è ferita…
Ma non lo sarà. Non fisicamente, almeno. Nel suo ambito lavorativo, se qualcosa va storto, è letale. Al massimo la trasporterebbero in un reparto di terapia intensiva, e io andrei a visitarla tra le espressioni di rammarico e i biglietti aerei omaggio gentilmente offerti dalle Risorse umane.
Non consiglio di gironzolare nella sala arrivi di un aeroporto se si è nervosi. Mi sento addosso gli occhi dei poliziotti che si chiedono cosa fa un tipo agitato con la barba lunga incapace di stare fermo. I minuti e i secondi passano con una lentezza glaciale che mi manda in bestia. Poi c’è uno scatto sul pannello: il volo è atterrato, e…
Eccola. Esce dal recupero bagagli, stracarica di valigie, con la custodia del violino a tracolla. Gli zigomi tempestati di lentiggini, i lunghi capelli rossi raccolti in una coda, con un insolito abbigliamento formale: dev’essere un travestimento per l’incarico ricevuto. Dalla sua andatura e dalle spalle curve capisco che è stanca morta. Agito una mano, mi vede e ci veniamo incontro. Un abbraccio e un bacio.
Si stacca subito. «Per favore, portami a casa.» Sembra… giù di corda.
«Andy ha detto…»
«Andy è un coglione. Andiamo a casa. In taxi. Immediatamente.» Si appoggia a me e barcolla un po’.
«Mo? Cosa c’è che non va?»
«Dopo.» Fa un lungo respiro incerto. «Adesso andiamo a casa.» Costerà sui venti sacchi, ma al momento il denaro è l’ultimo dei problemi. Se sta troppo di merda per la metropolitana…
Restiamo in silenzio per l’intero tragitto, con smorfie sincronizzate quando saltiamo sui dossi, oscilliamo lungo curve a esse e subiamo tutti gli inconvenienti del traffico che rallentano le ambulanze, costano vite e triplicano il prezzo di una normalissima corsa. Pago il tassista, le tengo aperta la porta ed entriamo nell’anticamera, dove lei si accascia su una parete come se fosse reduce da una maratona. «Caffè, tè o qualcosa di più forte?» le domando.
«Caffè.» Fa una pausa. «Con qualcosa di più forte.» Un attimo dopo si stacca dal muro e si trascina nel soggiorno, dove si abbatte sul sofà che abbiamo ereditato da sua sorella Liz quando si è trasferita.
Corro in cucina e riempio di nuovo la caffettiera, quindi le verso una dose generosa di whisky nella tazza. Quando torno nel soggiorno, lei è ancora sul sofà, con la custodia del violino appoggiata su una pila di riviste. All’inizio sembra sia scossa da una risata silenziosa, poi mi accorgo che piange.
Poggio le tazze sul tavolino e mi siedo accanto a lei. Dopo un istante si gira dalla mia parte e mi si appoggia sulle spalle. Le sue lacrime mi gocciolano sul collo.
Mo piange a dirotto, quasi in silenzio, con qualche secondo di pausa per riprendere fiato. È talmente silenziosa, come se avesse paura di far rumore. La stringo dolcemente e le mormoro qualche sciocchezza, carezzandole la testa. Me la prendo con la mia impotenza. L’ho già vista sconvolta in passato, ma mai così…
«Che è successo?» le domando, quando è un po’ più calma.
«Non ti riguarda.» Tira su col naso. «Dio, sono un disastro. Dove sono i fazzoletti?» Ci sciogliamo dall’abbraccio e vado a cercare qualcosa per farle asciugare il naso. Quando torno si è tirata su a sedere, stringe la tazza e fissa con sguardo demolitore il caminetto decorativo di cui volevamo sbarazzarci da quando siamo venuti ad abitare qui.
Poggio i fazzoletti sul tavolo davanti a lei, che li ignora. «Morti?» chiedo.
«Ti ho detto che non ti riguarda.» Ha un leggero brivido, mette giù la tazza e afferra un fazzoletto. Noto delle chiazze rossastre sotto le unghie, mi ricorda un romanzo di Heinlein. Si soffia il naso un paio di volte, rumorosamente. «È stato tremendo. Mi hanno fatto… Non so se posso dirtelo… Bob, ricordi gli Idraulici?»
Annuisco. Mi sento attanagliare lo stomaco dalla morsa della paura. «Quella volta ad Amsterdam, quando al ritorno ti hanno messo in quarantena con un incantesimo? È stato così brutto? No, non dirmelo. Sta’ qui e basta.»
Lei annuisce isterica. «Non ne posso parlare» dice, e lo sottolinea.
«Devo fare una chiamata.» Vado in cucina e chiamo Andy. Lui mi risponde distratto. Io faccio un respiro profondo. «Te lo chiedo una volta sola: con chi devo prendermela? Con te o con quello stronzo figlio di puttana di Tom della Risoluzione conflitti? O con qualcun altro? Perché la situazione è grave.»
«Cosa…» Andy fa una pausa. «Bob? Sei tu?»
«Mo è tornata da Amsterdam» scandisco. «Sta male e non può sfogarsi con me perché qualche cretino degli Idraulici le ha stretto addosso il cerchio magico come un cappio. Non so cos’è successo laggiù, ma Mo è sull’orlo di un esaurimento nervoso. Non posso aiutarla se le si impedisce di parlare con me. Rompete l’incantesimo o la Lavanderia dovrà sostituire una preziosa dipendente, anzi due, o meglio tre, quando avrò messo le mani addosso al responsabile. Capito?»
«Non sono stato io!» Ora Andy è sconvolto. «Resta in linea. Dove ti trovi?»
«In cucina, a casa, registrata in archivo come Rifugio Lima Tre Sei. Mo era nel soggiorno, l’ultima volta che l’ho vista. Soddisfatto?»
Lo sento battere in fretta su una tastiera accanto al telefono. «Ascolta, non hai il nulla osta e non posso dirtelo al telefono. Di solito ti autorizzerebbero, ma sei sotto inchiesta e questo ti fotte, perciò al momento non posso farci niente. Ma manderò qualcuno appena possibile. Puoi resistere per un’ora?»
«Chi mandi, di preciso?»
«Un maledetto stagista, se necessario, purché abbia una lettera di rottura incantesimo, ti basta?»
Sospiro. «Per forza. Ma sbrigati o la prossima settimana subirete una brusca riduzione di personale.»
Torno nel soggiorno. Mo è sul sofà, immobile, nella stessa posizione di quando l’ho lasciata. Sposto il tavolino e mi inginocchio davanti a lei. «Mo, mi parli?»
Lei fissa il caminetto, confusa. «Non posso» risponde.
«Ho chiamato Andy. Non ti fanno parlare con me per via dell’inchiesta.» In realtà è lo sciocco incantesimo lanciato da qualcuno degli Idraulici su chiunque abbia assistito agli eventi di Amsterdam. «Ho minacciato di prenderlo a calci nel culo e sta mandando un corriere con una lettera di rottura solo per te.» Un simbolo fisico che la scioglierà dall’incantesimo. «Ha detto che ci vorrà un’ora, forse poco più. Ce la fai a resistere?»
All’improvviso mi guarda. «Grazie al cielo» dice, e cade in avanti come una marionetta cui hanno tagliato i fili.
Mezz’ora dopo suonano al campanello.
Sento lo squillo di sopra, nella camera da letto, seduto con Mo. Ci ho messo un po’ di tempo a farla salire e distendersi, poggiata ai cuscini con la trapunta tirata su fino al mento, ancora vestita e con la tazza in mano. È scossa dai brividi, un po’ scioccata, ma ha ripreso colore e dieci minuti fa mi ha chiesto di portarle il violino. Non lo lascia mai incustodito, e fa bene: sono cazzi se uno stronzo del quartiere tira un mattone sulla finestra e se lo frega. È pericoloso come un mitra carico senza sicura.
Parliamo di sciocchezze, finché arriva la scampanellata.
«È la lettera.» Mi alzo. «Torno subito.»
Esco dalla camera e scendo le scale a due a due. Hanno fatto in fretta, mi dico, afferrando impaziente la maniglia della porta.
All’improvviso mi fa male la testa. Subito dopo penso: Che cazzo ci faccio sul pavimento?
Alzo gli occhi e ho la vista annebbiata, come per un’emicrania. Zio Fester si china su di me puntandomi in faccia una pistola dalla canna grossa.
«Где же она?» dice.
«Eh?»
Mi sento la faccia spaccata in due. Quel bastardo mi ci ha sbattuto la porta.
Zio Fester mi spinge la canna sulla fronte, provocandomi una fitta di dolore. «Скажи мне сеичас, или я буду убивать вас.»
Sembra lo zio pazzo di Nico Bellic, quello del videogame, il sozzone in galera per pedofilia, con un brufolo acceso di luce rossa sulla fronte. E io sono fregato, perché non capisco una parola di cosa dice, ma giurerei di aver visto il suo gemello alla fermata dell’autobus, ieri.
Mette via la pistola. Adocchio la grossa canna. Se sapessi dove ho messo le mani, si può fare un ballo scherzetto a un idiota che ti punta un’automatica troppo da vicino. Basta afferrare il cursore e spingerlo indietro per impedire alla culatta di scattare in avanti. Una vera prodezza da agente segreto, se non sei sul pavimento dell’anticamera, con un braccio sotto di te e il sangue che ti cola dalla faccia.
«Parli inglese?» chiedo.
Zio Fester è seccato. «Kosa?»
Lo guardo negli occhi e mi si gela il sangue. Ho già visto quei vermi verdi fosforescenti che mulinano sotto la superficie vitrea dei suoi occhi e si dibattono nelle acque fangose di una mente risucchiata dove la coscienza umana fonde come grasso in una padella bollente…
Sento un suono alle mie spalle, come un gatto della stazza di un autobus che lancia un miagolio di rabbia e di sfida a un rivale che ha osato invadere il suo territorio.
Zio Fester (o qualunque cosa calzi la pelle di un morto che cammina) alza la pistola verso la scalinata. Il mio braccio sinistro scatta senza volerlo verso la sua gamba destra, premo e spingo con tutta la forza il pantalone, incurante di cosa succede se gli tocco la carne, perché devo assolutamente fargli perdere l’equilibrio ora che punta la pistola su Mo…
Infatti mi cade addosso. Queste creature non se la cavano mai troppo bene nel coordinamento di una struttura tensegritaria come il sistema muscoscheletrico di un mammifero. Dalla pistola parte un colpo dal suono smorzato, e dalla cima delle scale viene di rimando l’acuto che mi fa stridere i denti e mi assorda. Musica per spezzare i colli.
All’improvviso zio Fester barcolla e mi ricade sulle gambe. Ed ecco l’orrido sospiro e l’odore inimmaginabile della non vita e del movimento che abbandonano il suo corpo.
«Bob?» Mo ha una vocina terrorizzata.
«Sono a posto!» le dico ad alta voce. «E tu?»
«Controlla.» Scende i gradini con lo strumento alzato, l’archetto pronto e un’espressione intenta e distaccata che contrasta con la sua voce. Quando si avvicina le vedo uscire un rivolo di sangue dalle punte delle dita strette sul manico del violino. Strumenti del genere hanno un costo, e nella banca della vita lei è a metà dello scoperto. Perlustra la casa stanza per stanza con le mani contratte e alla fine conferma che zio Fester era solo.
Ho la fronte umida e mi sento male. Mi spingo su per chiudere la porta e impedire a qualche vicino curioso di vedere qualcosa che gli darebbe un’idea sbagliata della casa, e mi si appanna di nuovo la vista. Cerco di detergermi il viso e la mia mano viene via rossa e appiccicosa. Strano, mi dico. Non mi avevano mai sparato prima. Poi tutto si fa confuso e perdo i sensi.