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Orchestra Rossa
Alziamo un attimo gli occhi dal mio diario di lavoro e contempliamo un quadretto di vita londinese nelle vie del centro. Non ne sono un testimone diretto, è una ricostruzione fittizia.
La scena è una stradina laterale non lontana da Piccadilly Circus, zona commerciale piena fino all’inverosimile di franchising di moda e centri commerciali. I marciapiedi sono così affollati che i pedoni traboccano sulla strada, ma il traffico è contenuto, grazie ai dossi.
Arriva una donna dai capelli rossi, elegante, in gonna nera, giacca pied-de-poule e tacchi bassi. Porta la custodia di un violino. Forse è una musicista diretta a un concerto. È leggermente a disagio, giù di corda mentre s’insinua tra due impiegati vocianti, mammine appetitose che spingono carrozzine grandi quanto rover lunari, un punk sui pattini e una mendicante con l’hijab. Scende dal marciapiede in Glasshouse Street, attraversa la strada passando tra una BMW X5 surriscaldata e un taxi e svolta in Shaftesbury Avenue.
Da qualche parte nell’intrico di vicoli dietro Charing Cross Road c’è un negozio di strumenti dall’entrata angusta, con la vetrina vuota, a parte qualche spartito ingiallito e degli ottoni un po’ ossidati. La donna vi si ferma, come per esaminare gli spartiti. In realtà sfrutta la vetrina come specchio, per controllare la strada alle sue spalle. Poi poggia una mano sulla maniglia, apre la porta e quando entra si sente un campanello.
Un lato del negozio è interamente occupato da un bancone di vetro e di quercia stagionata, che arriva fino a una tenda a perline che dà sul retro. Ne spunta un individuo cadaverico e prematuramente invecchiato con gli occhi acquosi, vestito da becchino, che la guarda con disappunto.
La donna gli sorride a denti stretti. «Il signor Dower? George Dower?»
«Sì, ho quest’onore.» Più che accoglierla, la guarda come se volesse scacciarla. «Ha un appuntamento?»
«Direi di sì.» La donna infila una mano nella borsetta di pelle nera e ne estrae un portafoglio, che si apre mostrando un tesserino. «Cassie May, di Sotheby’s. Ho chiamato ieri.» Il tesserino brilla di una strana iridescenza nella fioca luce artificiale.
«Ah, sì! Un progetto di restauro, se non sbaglio.»
«Può darsi.» La donna posa dolcemente la custodia sul vetro del bancone. «Il nostro cliente ci ha chiesto una valutazione preliminare e un preventivo dei costi di restauro per uno strumento simile, al momento conservato in magazzino e in pessime condizioni, troppo fragile per essere spostato.» Prende una busta dalla borsetta. «Prima di esaminare lo strumento, vorrei che lei firmasse questo vincolo di segretezza.» Estrae un sottile incartamento.
Il signor Dower è sorpreso. «Ma è solo un violino! Anche se è una rarità…» Ci ripensa. «Vero?»
La donna scuote la testa in silenzio e gli porge le carte.
Il signor Dower scorre rapidamente la prima pagina. «Lei non lavora per Sotheby’s.»
La donna non sorride. «Legga il documento e lo firmi.»
Il signor Dower volta rapidamente le pagine. Senza una parola, sfila una penna dalla tasca interna della giacca.
«Non così.» La donna gli porge un ago sterile monouso. «Prima serve del sangue, poi firmi con questa penna.» Attende paziente, mentre lui preme un dito sull’ago con una smorfia e si strofina il pennino sul pollice. Non ha da ridire per quell’insolita richiesta, e sembra non fare caso al piccolo contenitore per rifiuti ospedalieri in cui lei ritira il pennino e al fatto che ripiega il documento e lo ripone nella busta. «Bene. Per l’autorità di cui sono investita, la vincolo al silenzio sotto le penalità stabilite in questo documento. Intesi?»
Il signor Dower fissa il violino come rapito. «Sì» mormora.
Lei sgancia la chiusura della custodia e la apre.
Il signor Dower vi guarda dentro per dieci interminabili secondi, trattenendo il respiro, poi rabbrividisce. «Mi scusi» dice, coprendosi in fretta la bocca. Si gira e si precipita dietro la tenda a perline. Qualche attimo dopo lo si sente vomitare. Quando lui riappare, è pallido. «Lo chiuda.»
Lei scrolla le spalle. «Immagino che ne abbia già visto un altro.»
«Sì.» Il signor Dower ha di nuovo un brivido, con lo sguardo smarrito. Sembra contemplare dei demoni dentro di sé. «Cosa devo fare perché lo porti via?»
«Mi faccia una valutazione scritta.» Lei sfodera un altro foglio, contenente un breve elenco puntato. «Una stima preliminare dei costi di riparazione. I materiali necessari saranno forniti dal cliente.»
Lui la fissa. «Da dove viene? Chi l’ha mandata?»
«Lavoro per un dipartimento governativo che ha la responsabilità di tenere strumenti del genere fuori dal suo negozio. Può farlo?»
Il signor Dower fissa il muro alle spalle della donna. «Se proprio devo.»
«Bene. Se allega la fattura alla relazione, gliela faccio liquidare immediatamente.»
«Quando le serve?» chiede lui, come risvegliandosi da un sogno.
«Subito.» Va alla porta ed espone il cartellino CHIUSO.
«Ma io…» Lui deglutisce.
«Ho l’ordine di tenere sempre lo strumento a portata di mano e di portarlo via appena lei ha terminato il lavoro.»
«Perché? Per impedirmi di rubarlo?»
«No, signor Dower: per impedire al violino di ucciderla.»
Torno nel mio ufficio dopo la riunione sul Barone Sanguinario. Il comitato ha verbalizzato che devo cercare di mettermi nei panni di Angleton (ah ah, come no). La tazza di caffè si raffredda sul tappetino del mouse accanto al mio vecchio HP. Mi siedo con la testa fra le mani e un gemito silenzioso, e rimpiango di non essere stato più attento alle lezioni di storia. Tutta questa roba russa mi crea una confusione infernale. Perché non possiamo tornare a preoccuparci di Al Qaeda, dei pedofili in rete e di tutte le solite ossessioni dei servizi segreti?
Sulla scrivania c’è una pila di cartelle impolverate. Poco prima di sparire, Angleton ha detto che erano interessanti, e mi gioco le palle che era un’imbeccata. Ma ho solo una sfilza di numeri di riferimento di vecchie pratiche, scarabocchiati in gran fretta, che indicano la posizione dei documenti sugli scaffali, niente di così semplice come nomi e titoli, che darebbero preziose informazioni al nemico.
Prendo la prima cartella e la apro. Contiene una lettera stropicciata, scritta a mano su un foglio di strane dimensioni. Do un’occhiata alla grafia contorta e cerco di venirne a capo. Per fortuna ho uno scanner. Vi inserisco una per una le pagine e regolo il programma alla massima risoluzione. Sulla prima pagina ottengo un contrasto ragionevole. C’è qualcosa di spettrale, una scrittura in trasparenza, come se l’autore avesse cercato di cancellare qualcosa, e ingrandisco. La prima cosa che distinguo è la data: 11 ottobre 1921. Poi attivo il programma di riconoscimento della grafia e mi poggio all’indietro sulla sedia. Dopo un po’ il testo è pronto per la lettura.
Classificato: S76/45
Caro John,
prima di tutto, saluti da Reval! Spero sinceramente che questa lettera ti giunga in un clima più clemente dell’autunno estone.
Immagino che tu abbia già saputo tramite telegramma dell’esecuzione della Bestia di Dauria il mese scorso. Ha avuto un giusto processo dai Rossi, e anche se solo un decimo delle accuse mossegli fossero vere, non avevano alternativa a fucilarlo.
Ho prestato particolare attenzione ai rapporti dalla Siberia sui banditi di Semenov, e Ungern Sternberg era di gran lunga il peggiore. E stata una storia orribile, una brutta fine per un brutto individuo. Forse dovremmo ringraziare i Rossi per averci liberato da questo mostro.
La sua morte però lascia alcune domande senza risposta. Ho deciso di far visita ai suoi genitori, non il padre, ma la madre e il marito, Sophie Charlotte e il barone Oskar Von Hoyningen-Huene. Vivono a Jerwakant, e anche se il tempo è inclemente, con quaranta centimetri di neve, sono riuscito a organizzare la visita nel fine settimana.
Come probabilmente saprai, sulla stirpe degli Ungern Sternberg aleggia la follia. Il padre del barone, Theodor, una volta appassionato geologo dilettante, noto per l’interesse per i fossili insoliti, oggi è in una casa di cura. A mio parere, Sophie Charlotte deve aver molto sofferto con lui, perché lo stato mentale del barone andò deteriorandosi quando erano ancora sposati. È un argomento spinoso, specialmente alla luce del destino sfortunato del figlio, perciò ho cercato di non turbarla, prendendolo alla larga.
La residenza degli Hoyningen-Huene è un edificio imponente, degno di una famiglia benestante. D’inverno si offre alla vista con una facciata fiabesca, dai tetti spioventi e le torrette placidamente ricoperti di neve, un’isola di quiete nel pieno dell’oscura foresta di pini. È un castello dell’aristocrazia tedesca, che discende dai Cavalieri teutonici e ha servito l’impero russo finché l’ultima sollevazione non l’ha privata dell’oggetto della propria lealtà. E l’estensione della tenuta è stata ridotta dalla riforma agraria del Riigikogu, il parlamento estone, che riconosce ai contadini i diritti sui frutti del loro lavoro.
Ho fatto visita agli Hoyningen-Huene lo scorso fine settimana, con la scusa di scrivere per il «Guardian» un articolo a favore dell’accordo stipulato nella contea di Rapla, dove non ci sono state turbolenze e soprusi sul governo precedente come altrove. Ho lasciato capire anche che mi sarebbe piaciuto vedere il circondario e parlare dei cambiamenti avvenuti con i proprietari della zona. Il prestigio del «Guardian» come quotidiano inglese pesa di più della sua reputazione politica nei posti più dimenticati.
Dopo la visita obbligatoria alla cappella luterana, tipica del Baltico, decorata di insegne araldiche a base di tenebrose danze macabre e teschi incisi su legno grezzo, nonché priva di riscaldamento anche d’inverno, ho avuto occasione di parlare con il barone, e grazie a due o tre bicchieri di schnapps è venuto fuori l’argomento del figliol prodigo.
“È stato una fonte di delusione per me e di sofferenza per la madre” ha detto Oskar Von Hoyningen-Huene. “Quest’ennesima vergogna è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso della sua depravazione.” Ha sospirato profondamente. “Ho cercato di fargli mettere la testa a posto quando era giovane. Ma è stato sempre un violento. Ha preso dal padre, e poi aveva quell’ossessione per lo sciamanesimo, come la robaccia idiota con cui Theodor tormentava mia moglie prima del loro divorzio.”
“Robaccia?” ho chiesto, insistendo.
Oskar ha sbuffato. “Un vero figlio mio non si sarebbe mai macchiato di quello scempio” ha asserito con fredda determinazione. “Ci scriveva perfino delle lettere in cui se ne vantava! Esecuzioni di prigionieri per squartamento, con gli arti legati ad alberelli flessibili che poi faceva scattare in direzioni diverse come fionde. Impiccagioni, accoltellamenti e fucilazioni di massa. Diceva che lungo la strada per Mosca avrebbe allineato commissari politici ed ebrei impalati ogni duecento metri. Neanche a me piacciono i giudei, ma lui giurava di ucciderli tutti, per purificare la Russia e ripristinare la servitù della gleba. Ci crederebbe? Per non parlare delle sue pratiche occulte. Assolutamente disgustose.”
Gli ho chiesto cosa ne avesse fatto delle lettere.
“Le ho bruciate!” mi ha risposto indignato. “Tranne un paio, che Sophie non mi ha voluto dare. Non ho avuto il cuore di privarla dei… ricordi.” Per qualche minuto è caduto in un silenzio cupo, ma poi si è scosso con l’aiuto di un altro bicchiere. «C’erano i fossili di suo padre. Secondo me, è iniziato tutto da quelli.»
“Fossili?” ho domandato.
“Roba strana, non ho mai visto niente di simile. Credo che Sophie li abbia lasciati nella sua vecchia camera. Ci giocava da bambino. Lo sorprendevo a fissarli. Pensavo che da grande avrebbe fatto il geologo, come il padre, e non sarebbe stato male in confronto a quello che poi è diventato.”
Visti i tuoi interessi, sentendo che la madre aveva conservato la camera del figliol prodigo intatta, come in attesa del suo ritorno, ho colto l’occasione per darvi un’occhiata, sperando di ricavarne indizi del carattere.
(Allegate 8 fotografie sfocate in bianco e nero di frammenti irregolari di roccia, sfaldatisi lungo piani di fratture. Perlopiù, si tratta di ardesia, anche se è difficile accertarlo. Ne abbiamo già visti di simili, vero? “In quei giorni sulla Terra camminavano dei giganti…”)
Chiederò per vie traverse se è possibile acquisire la collezione infantile di fossili di Roman Von Ungern Sternberg e le lettere in possesso della madre. Inoltre, cercherò di organizzare un’altra visita, anche se sarà difficile fino al disgelo primaverile. (Lo Chateau Hoyningen-Huene è un po’ isolato e la gente perbene non viaggia troppo d’inverno: una visita prematura attirerebbe un’attenzione indesiderata.) Nel frattempo svernerò a Reval e ne approfitterò per indagare più a fondo sul Barone Sanguinario Bianco e sul mistero della sua scoperta nel palazzo di Bogd Khan.
Il tuo fedele amico,
Arthur Ransome
La donna che si fa chiamare Cassie May attende paziente, seduta su uno sgabello senza spalliera dietro il vecchio registratore di cassa nel negozio di George Dower, tenendo d’occhio il proprietario, occupato dietro la tenda a perline che lei ha aperto per poterlo sorvegliare.
Il retrobottega non è come se lo aspettava. È già stata in laboratori di liutai, ha sentito l’odore della colla e del legno appena piallato, della cera e della vernice. Conosce altri apparati musicali, generatori di segnali, centraline, amplificatori e filtri, il ronzio e l’odore metallico di amplificatori sovraccarichi. Il negozio di Dower non è niente del genere. Sembra piuttosto il laboratorio di un gioielliere o di un orologiaio, ma neppure questo. È estate, ma l’aria è stranamente fredda, non per via di un climatizzatore, anzi: è soffocante e sa leggermente di ossario, come se vi fosse qualcosa di morto sotto l’impiantito del pavimento.
Dower si è infilato un paio di guanti di cotone bianco e si è appeso al collo un dittafono. Tiene a distanza il violino bianco avorio, come se non volesse stargli troppo vicino, e mormora nel microfono: «Lo spessore della costola varia fra 3,2 e 5,5 millimetri. La curva inferiore sembra di materiale duttile e rigido, anche se l’ingrandimento per 6 rivela la caratteristica struttura spongiforme dell’ossificazione endocondrale…». Deglutisce, come in preda alla nausea. (Lo strumento è effettivamente fatto di ossa, conservate e trattate in modo che abbiano una rigidità e una risonanza simili a quelle dell’acero montano. I trattamenti che modificano il materiale in questo modo sono applicati mentre il donatore è ancora vivo, tra sofferenze atroci.) Scruta nella sonda a fibra ottica, inserita in uno dei fori di risonanza del violino. «Il blocco superiore sembra intagliato dal corpo e dal corno piccolo di un osso ioide; il corno grande è avulso in un modo che di solito indica la morte per strangolamento…»
Dower forse sospetta, ma la donna lo sa per certo, che i materiali usati per realizzare questo strumento provengano dai corpi di almeno dodici innocenti, le cui morti premature si ritenevano parti essenziali del processo. Prima di diventare un liutaio altamente specializzato, Dower ha studiato da chirurgo. È un sensitivo, capace di vedere al di là degli occhi. Gran parte della gente non riconoscerebbe il vero orrore dello strumento, lo crederebbe solo un violino bianco. Per questo la donna è venuta qui, dopo avere consultato un elenco di restauratori adatti.
Tre ore dopo, Dower va a rilento, ma ha quasi terminato il lavoro. La donna guarda l’orologio con crescente preoccupazione. Finalmente lui ripone l’archetto nell’apposito vano e chiude la custodia, con uno scatto dei ganci. Fa un passo indietro e si sfila con cura i guanti, lasciandoli cadere in un bidone dei rifiuti, attento a non toccare la loro superficie contaminata. Spegne il dittafono. «Ho finito» afferma con voce incolore.
La donna si alza, liscia le grinze della gonna e annuisce. «La sua relazione scritta» dice.
«La preparerò dopo aver mangiato qualcosa. Può ritirarla nel pomeriggio, dopo le quattro…»
Lei scuote la testa. «Non tornerò.» Prende dalla borsa un’altra busta. «Stampi una sola copia della sua relazione e la infili qui dentro. Poi la incolli e la spedisca.» Non c’è nessun indirizzo sulla busta. «Poi cancelli i file dal suo computer, bruci i nastri o quant’altro. Sarà lei il responsabile, se la relazione esce di qui.»
«Ma qui non c’è…» Prende la busta. «Ne è sicura?»
«Se la imbuca, la riceverò domani mattina» gli dice, fissandolo con gli occhi verdeazzurri calmi come prima di una tempesta. «Data l’enormità della minaccia che fronteggiamo, servono misure estreme. Addio, signor Dower, confido che non ci rivedremo mai più.»
Di nuovo in ufficio.
Foto n. 1: un’ampia lastra di ardesia su un tavolo accanto a un righello di legno, in base al quale è alta 50 centimetri e larga 45. Sfaldatasi lungo un piano di frattura, rivela un fossile ben conservato di stella marina. A un esame più attento, però, nel fossile c’è qualcosa che non va. Anche se possiede la caratteristica simmetria quintupla, ogni tentacolo ha la punta che sembra spezzata. Inoltre il corpo non mostra segni di segmentazione radiale, bensì è un insieme compatto, che dà l’impressione della sezione trasversale di un gombo o di un grosso echinoderma, un cetriolo di mare.
Foto n. 2: un’altra ampia lastra di roccia spezzata, che stavolta rivela il braccio parzialmente sezionato e fossilizzato di un giovane Blue Hades…
Foto n. 3: è nella pila che Bob ha appena lasciato cadere sul pavimento.
Mi sfrego gli occhi e ringhio a bassa voce: «Porca puttana!».
È un po’ troppo tardi per il pranzo, e finora ho capito soltanto che tra i corrispondenti di F negli Stati baltici c’era questo Ransome. Un giornalista in corrispondenza con un colonnello del ministero della Guerra, le cui lettere sono finite negli archivi della Lavanderia. E quelle foto! È chiaro che Roman Von Ungern Sternberg ha avuto un’infanzia problematica, se la sua idea di “collezionare fossili” includeva i resti dell’antica razza. Non c’è da meravigliarsi che il babbo sia finito in una gabbia di matti e la mammina sia andata a vivere con un noioso signorotto di campagna.
Guardo il mucchio di carte: nove buste di cartone marroncino con su scritte date e classificazioni di sicurezza sotto la curva della geometria Dho-Nha, il sigillo della Sicurezza interna (“se leggete senza autorizzazione vi si fonderanno i bulbi oculari”, o analoghi in lingua enochiana). Sono identificate per numero, con un sistema che chiamiamo Codex Mathemagica: quattro cifrari a flusso di tre cifre, come gli indirizzi IP – e non è una coincidenza significativa, dato che gli archivi della Lavanderia precedono Internet di trent’anni? – senza alcun significato complessivo, tranne che sono unici nell’indice…
Nove cartelle.
Frugo sulla scrivania in cerca dell’appunto originale di Angleton. Non parlava di dieci pratiche? Dieci sequenze numeriche? Non riesco a trovarlo, maledizione, ma so dove ho inoltrato la richiesta dell’incartamento. Avvio il computer e richiamo il registro della transazione. Sì, ho richiesto dieci pratiche.
Guardo sotto e dietro la scrivania, poi nello schedario circolare, non si sa mai. Conto di nuovo le pratiche, controllandole ciascuna due volte, nel caso quella mancante sia stata inserita erroneamente all’interno di un’altra. Niente.
Nove cartelle. Merda.
Sono un agente operativo preparato a tutto. Lavoro nella Lavanderia da quasi dieci anni. Ho affrontato orrori farfuglianti provenienti da altri universi, ho subito un intreccio psichico con una dea serial killer con le squame di pesce, sono stato braccato da zombie, fatto prigioniero da un miliardario megalomane e sono sopravvissuto perfino all’attenzione dei Revisori. Ma non ho mai perduto una pratica classificata, e non voglio che succeda per la prima volta.
Mi costringo a sedere e chiudo gli occhi. Quando li riapro il problema è ancora lì. Mi chino sulle ginocchia e inizio a raccogliere le fotografie, rimettendole in ordine, quindi le infilo nella busta giusta e le ripongo con cura sulla mia sedia. Poi prendo un blocchetto di post-it e copio il numero scritto sulla busta. Ripeto l’operazione per le altre otto. Infine passo e ripasso la scrivania finché non trovo il foglio con la grafia contorta di Angleton, su cui leggo dieci numeri. Li confronto con quelli sulle buste e alla fine identifico quello mancante: 10.0.792.560.
Lo cerco sulla mia richiesta ed effettivamente c’è. Perciò l’ho ordinato, ma non si trova nel mio ufficio. Merda. Ripesco dal cestino dal computer il file della transazione e leggo: “Documento non trovato a scaffale”.
Quasi svengo per il sollievo, ma riesco a impormi di prendere il telefono e fare il numero dell’ufficio preposto. «Pronto? Archivio?» Dall’altro capo risponde una voce di donna, distratta, un po’ gracchiante e molto umana. Mi fa piacere: non tutto il personale d’archivio è a sangue caldo. «Salve, sono Bob Howard della divisione operativa. Giovedì scorso ho chiesto dei documenti, dieci pratiche. Ora le sto controllando e ne manca una. Ho il numero della pratica e una nota da cui risulta “non trovato a scaffale”. Può dirmi che significa?»
«Che l’addetto non l’ha trovata» risponde la donna irritata. «Non era al suo posto.»
«Capisco. C’è un rapporto fra il numero di riferimento della pratica e un determinato scaffale?»
«Certo. E lei dovrebbe utilizzare un nome in codice nel caso ne fosse stato assegnato uno nuovo alla pratica in questione. A volte succede. Se ha un nome in codice, gliela cerco…»
«Mi spiace, ma il collega mi ha fornito solo un elenco di numeri di riferimento» spiego. «Inoltre adesso è, ehm, in malattia. Perciò cerco di capire cos’è che manca. Temevo che la pratica mi fosse stata inviata e fosse finita fuori posto, ma se non c’è sugli scaffali immagino sia stata rinumerata. Oppure il collega ha scritto il numero di riferimento sbagliato.» Non ci credo neanche per un attimo, Angleton non lo avrebbe mai fatto, ma non voglio che qualcuno ficchi il naso nella mia indagine. «Arrivederla.» Metto giù il telefono e mi poggio all’indietro, riflettendo.
Angleton lavorava al Barone Sanguinario. Quando sono tornato in ufficio mi ha dato un elenco di dieci pratiche da leggere, poi è sparito. Questo coincide con un’impennata dell’attività dei russi, tra cui il deliberato ricorso a misure estreme. Dall’archivio arrivano nove pratiche, che risultano noiose informazioni collegate indirettamente alle vicende storiche del Barone Sanguinario. La decima pratica non è sullo scaffale. Ho un numero, ma non un nome in codice.
Bisogna andare a fondo, in via non ufficiale.
Torniamo alla ricostruzione fittizia.
Il signor Dower finisce di battere la sua relazione quasi alle sei. Ha perso la cognizione del tempo, concentrato com’è sull’autopsia dello strumento. Ha già letto qualcosa su violini del genere. Il loro progetto è attribuito a un violinista tedesco sordomuto di Parigi dei primi anni Venti, ma non ne fu mai realizzato uno finché nel 1931 il terribile dottor Mabuse non ordinò un’intera sezione di archi da un liutaio berlinese. Non c’è da sorprendersi che quest’ultimo abbia fatto fortuna sotto il regime nazista, ma sia stato giustiziato dallo SMERSH dopo un processo sommario nel 1946. Questo particolare strumento giunse in Occidente nel bagaglio di un reduce, fu dotato di pickup elettrici negli anni Cinquanta e dopo una serie di incidenti spettacolari fu acquistato da un collezionista nel 1962, ritenuto in realtà membro di un dipartimento del governo britannico deciso a evitare che strumenti del genere finissero nelle mani sbagliate.
Il signor Dower trema al solo pensiero di cosa preannunci la sua ricomparsa. D’altro canto, la giovane donna che l’ha portato sembra perfettamente a conoscenza dei poteri letali del violino.
Prende con un brivido le ultime cinque pagine di descrizione a interlinea singola uscite dalla stampante, le unisce alle sei piene di foto, compreso l’esame a fibra ottica dell’interno dello strumento, e vi acclude una fattura di poco più di duemila sterline. Riordina le carte con un colpetto e le raggruppa con una graffetta. Poi le infila nella busta datagli dalla donna che si fa chiamare Cassie May. Passa la lingua sul risvolto e la chiude. In un lampo di curiosità, accende la lampada anticontraffazione sul registratore di cassa e la esamina ai raggi ultravioletti. Ma nulla. Non appaiono i puntini fluorescenti che le poste stampano sulle buste per seguirne il percorso di consegna.
Se “Cassie May” pensa di recuperare così una busta anonima, buon per lei. Il signor Dower torna al computer, cancella tutto e guarda l’orologio. Mancano cinque minuti alla chiusura: inutile tenere ancora aperto. Si alza, si stiracchia e spegne il computer. Inutile depositare in banca quello che c’è in cassa: prima della visita della donna erano solo pochi contanti. Si infila la giacca, capovolge la tazza del caffè sullo scolapiatti, spegne le luci e apre la porta d’ingresso.
La donna lo aspetta e gli sorride. «Ha finito la relazione?» chiede.
Lui annuisce confuso. «Andavo a imbucarla, come mi ha chiesto.» Si batte la tasca.
«Ho fretta. C’è stata… un’accelerazione. Le dispiace?» Lo guarda impaziente.
«Niente affatto.» Sfila di tasca la busta e gliela porge. «Ho allegato la fattura.»
«Di quello non deve preoccuparsi.» Ripone la busta nella sua borsetta di pelle e sorride.
Lui si gira verso la porta e si fruga in tasca in cerca delle chiavi. Perciò non la vede estrarre dalla borsetta una pistola col silenziatore. Lei la alza fino alla nuca del signor Dower e gli spara un unico colpo nel cervelletto. La pistola non fa rumore, tranne lo scatto del grilletto, ma il silenziatore si ricopre di ghiaccio, e l’aria che vi viene a contatto si liquefà mentre gela a poco più dello zero assoluto. Il signor Dower cade in avanti verso la porta. Il braccio della donna lo segue in basso con assoluta precisione e gli spara un secondo proiettile sulla sommità del cranio, ma non è necessario: lui è già morto.
Lei si guarda intorno con occhi verdi come cenotes sacrificali. Dentro di essi, un testimone sensitivo vedrebbe dimenarsi dei vermi luminosi. Ma nessuno guarda. Passa solo la solita gente che esce dal lavoro. Lei rimette la pistola ghiacciata nella borsa e si allontana a grandi passi dal cadavere: è solo un’altra donna in carriera che torna a casa dall’ufficio. Nessuno ha assistito all’omicidio, e ci vorranno una ventina di minuti prima che un poliziotto di passaggio si accorga che l’ubriaco addormentato sulla soglia non si rialzerà mai più.