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La cucina di strada è sinonimo di Palermo. O Palermo è sinonimo di cucina di strada, fate voi.

E non lo dico solo io.

Classifica mondiale delle migliori dieci città in cui mangiare street food.*

Quinto posto: il capoluogo siciliano.

Unica città italiana degna della top ten.

Non lo sapevo ancora quando sono venuto qui la prima volta, con la nazionale di rugby.

Un ragazzino di sedici, diciassette anni.

Ragazzino più o meno, visto che ero già quasi un metro e novanta.

I tatuaggi? Quelli no, sono venuti dopo.

Tanta voglia di giocare e nessuna di esplorare.

Ci ha pensato il tempo a farmi cambiare idea.

Il mio primo ricordo della città da gourmand invece risale a qualche anno fa.

Quando sono tornato qui la seconda volta, con Antonella.

Maude, la chiamo io.

Come Harold e Maude, il film.

E come nel film, anche lei è un po’ la mia mentore.

Mi ha mostrato la vera città.

I profili arabeggianti della cattedrale.

I carretti che vendevano i fichi d’india, incorniciati da santi e madonne.

Gli immensi giardini.

Le panelle, assaggiate senza il pane per sentire il sapore della farina di ceci.

E poi lo shock.

Il panino con la milza.

Una bomba.

Mi ripromisi che sarei tornato.

Per mangiarlo ancora.

Perché come lo fanno qui, non lo fanno da nessun’altra parte.

I motivi? Chi lo sa, il cibo di strada non sempre lo puoi spiegare. Ma dopo il primo assaggio ogni volta pensi che è naturale che sia così, non potrebbe essere altrimenti.

Così ho fatto.

Arrivo a Palermo per le riprese di Unti e Bisunti.

Ora: presto, molto presto.

Città deserta.

Pochi ambulanti.

Nessuno in giro.

So che è un’illusione: tra poco la città si sveglierà.

E le strade si popoleranno di odori.

Del costante vociare in sottofondo.

Della confusione tipica della signora Palermo.

Sì, signora. Non tutte le città sono femmine, ma mai avuto un solo dubbio sul sesso di Palermo.

Ne approfitto per guardarmi in giro con tranquillità.

Immagino il passato.

Da queste vie sono passati greci, romani, arabi, normanni.

E mo’ pure Chef Rubio.

Palermo è una spugna.

È stata inzuppata per secoli dalla cultura dei popoli che l’hanno conquistata, e da ognuno ha preso il meglio.

Come per esempio lo street food.

Che i greci non chiamavano così, e neppure gli arabi, e neppure i palermitani di oggi.

«Che dicisti?» ti risponderebbero.

Furono proprio i greci inizialmente a travasare sulla nostra isola questa tipologia di cucina.

Nacquero così i sicilianissimi buffittieri.

Dal francese buffet, tavolo.

Improvvisavano su strada dei banconi ricchi di cibo povero, soprattutto interiora e verdure bollite.

Da allora la cucina di strada non è mai scomparsa, si è solo evoluta.

E oggi si può trovare ovunque, soprattutto nei due mercati principali di Palermo: la Vucciria e Ballarò.

Ma anche nei luoghi più insoliti.

Puoi aspettare l’autobus alla pensilina, mentre accanto a te qualcuno cucina la frittola.

O trovare un purparo la sera che bolle i polpi per strada.

E ovunque si vende la rarigghia, detta anche «mangia e bevi»: un cipollotto lungo avvolto nella pancetta e cotto alla brace. Che ti fa venire subito sete.

Qui si mangia bene ovunque.

E a qualsiasi ora abbiate fame, basta andare alla Vucciria o a Ballarò per soddisfare ogni palato.

Lo street food non conosce crisi, qui.

Sembra che non ci siano limiti a quello che si può racchiudere in mezzo a due strati di pane, o mettere in un cartoccio.

E non c’è fast food che regga la concorrenza di quarumari, meusari, purpari e friggitorie.

Costa poco, si mangia in fretta ed è buonissimo.

Polpo bollito contro fish burger: non c’è partita. Match interrotto al minuto cinque per manifesta inferiorità.

Per questo so che tra queste strade troverò il mio piatto sfida.

Non uno qualsiasi.

Uno da paura.

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Il mercato più antico.

Un tuffo nel passato.

Tra vicoli stretti e oscuri.

Case basse e poco curate.

Che si mischiano ai colori accesi di frutta e verdura.

Qui la contaminazione araba è fortissima.

Una piccola Medina è il cuore pulsante di Palermo.

Sembra di sentire i profumi d’Oriente, tra le bancarelle coperte da tendoni, illuminati agli angoli da lampadine.

Ogni giorno ci passano centinaia di persone.

Chi è stato a Palermo senza aver visto il mercato di Ballarò, in realtà non è stato veramente a Palermo.

Si alzano le voci dei mercanti, che animano le giornate con le abbanniate, urla cantilenate per attirare i clienti e promuovere i prodotti.

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Capita anche di trovarsi in mezzo a una sfida a suon di rime tra venditori.

«Ma lo senti il profumo delle mie fave? LO SENTI?» mi urla uno.

Un fruttivendolo cerca di fermarmi e di propinarmi un paio di melanzane.

Ma io tiro dritto per la mia strada.

Perché ho già visto qualcosa che mi interessa.

La caponata.

La sintesi di tutte le contaminazioni di Palermo in un solo piatto.

Melanzane, retaggio degli arabi.

Capperi, cipolle.

Olive, direttamente dalla tradizione greca.

E poi la salsa agrodolce, dal medio Oriente.

Il mondo in un boccone.

Te la servono in un piatto di carta, ma è cosi bella che vorresti fartela scodellare in mano.

E infatti la mangio con le mani.

Anche se il venditore mi guarda un po’ storto.

È unta, terribilmente e deliziosamente unta.

Caponata

Anticamente le melanzane erano la carne dei poveri. Un cibo come questo rappresentava un piatto unico, accompagnato dal pane, mentre ora è considerato un contorno.

Esistono numerose varianti della caponata, almeno una per ogni città siciliana.

Togliete il picciolo e la punta delle melanzane, poi sciacquatele.

Riducetele a cubetti grossi e friggetele in olio bollente.

Scolatele e lasciatele sgocciolare su carta assorbente.

Pulite il sedano e tagliatelo a pezzetti prima di metterlo a bollire in acqua salata.

A parte, fate soffriggere una cipolla. Non appena sarà imbiondita, aggiungete il sedano bollito, le olive snocciolate, i capperi sott’aceto e della salsa di pomodoro.

Continuate la cottura aggiustando di sale e pepe.

Unite le melanzane all’ultimo e lasciate insaporire per qualche minuto.

Intanto fate sciogliere due cucchiai di zucchero in un bicchiere d’aceto.

Aggiungete il tutto alla salsa con le melanzane e lasciate sfumare un po’ l’aceto.

IL CONSIGLIO DI CHEF RUBIO: è un piatto che va consumato freddo.

ENERGIA: 388 Kcal

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Mmm... sfizioso.

Ma non m’ha levato la fame.

Proseguo il mio giro d’ispezione, e un cartello mi attira: PANE E PANELLE. CROCCHÈ.

Dietro il bancone, una maxipadella colma d’olio.

Significa solo una cosa: UNTO.

Ah, la tipica merenda siciliana.

Prendi una bella mafalda, il panino con il sesamo.

Morbida e rotonda.

Ci metti dentro le panelle. Le tipiche frittelline di ceci.

E… ma sì, facciamolo bello unto.

Mettiamoci anche le crocchè. Le tipiche crocchette di patate.

Dette anche «cazzilli».

Se guardate la forma capirete perché le chiamano così.

Una spruzzata di limone.

Ed è fatta.

Il panellaro è socievole, si mette a chiacchierare.

Mi racconta che anche i suoi figli e i suoi nipoti lavorano in friggitoria.

Qui, molti giovani seguono le orme dei parenti.

E non importa se passi la giornata tra pesci o schizzi d’olio.

È sempre un onore continuare il mestiere di famiglia.

Panelle

Manco a dirlo, hanno origine araba. Ma tranquilli, le potete trovare ovunque a Palermo: friggitorie, chioschetti occasionali, rosticcerie.

Versate 1/2 chilo di farina di ceci in 1 litro e 1/2 d’acqua fredda.

Aggiungete sale e pepe.

Attenzione ai grumi.

Cuocete a fuoco basso rigirando bene per evitare che si attacchi tutto sul fondo.

Poco prima della fine della cottura, aggiungete il prezzemolo.

Togliete dal fuoco quando la crema è morbida e compatta.

Spalmatela su una superficie piana, come un piatto.

Lasciate raffreddare; ritagliate le panelle della forma che serve (a seconda di quanto sono grandi i vostri panini da riempire) e staccatele lentamente.

Friggetele in abbondante olio bollente.

Crocchè

Sono crocchette di patate fatte con il purè.

Semplici, ma deliziose.

Fate bollire le patate, pelatele e schiacciatele.

Aggiungete sale, pepe, prezzemolo e un po’ di maizena, per rendere il tutto più compatto.

Friggete in abbondante olio bollente.

Il panellaro mi racconta che qui non si butta via niente.

I residui degli impasti di panelle e crocchè vengono usati per fare la rascatura.

Ovvero delle crocchette fritte, ottenute appunto raschiando il fondo delle pentole.

Non è facile trovare questo piatto, nato in tempi più poveri in cui tutto il cibo si poteva e si doveva riciclare.

Ma, cercando bene, c’è ancora qualcuno che lo fa. Ed è, letteralmente, unto, bisunto e buonissimo.

Passeggiata digestiva.

Ci sta.

E ne approfitto per gettare un occhio nei vicoletti.

Dove le strade sono più strette.

E i colori si spengono.

Ma non gli odori.

Di quelli, Palermo ne è intrisa completamente.

Scelgo una stradina secondaria, che mi porta dritto dritto…

Dallo sfinciunaru.

C’ha un carretto di legno che ha molti più anni di lui.

Prodotti in bella vista.

E un piccolo forno a gas, quasi mimetizzato con il resto.

Prima suo nonno, poi suo padre, ora lui. E se c’ha figli, forse toccherà poi al figlio.

Un mestiere di famiglia: quello di vendere un pezzo di Palermo.

Lo sfincione.

Sembra pizza, ma non lo è.

È un pane pizza, con pomodoro e cipolla.

Alto.

Soffice.

Per questo il suo nome, che deriva dal greco, vuol dire «spugna».

Me lo scalda nel fornetto.

Bello grasso.

Il forno, non lo sfinciunaru.

Così ci aggiunge un po’ di sapore di strada.

Un tempo la ricetta prevedeva anche le acciughe.

Ma ora, per renderlo più leggero, non le mettono più.

See, lo sfincione light. Mi vien da ridere.

È delizioso.

Ma non abbastanza forte.

Vorrà dire che andrò a cercare pane per i miei denti altrove.

Mi lascio guidare dall’olfatto.

Odore di frattaglie.

Odore di tradizione.

Non sbaglio.

Appoggiato a un’Ape, c’è l’uomo che fa per me.

Ha un cestino di vimini coperto da uno straccio.

Impossibile non riconoscerlo.

Perché quello che tiene tra le braccia è un termos d’altri tempi.

Per tenere al caldo… la frittola.

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La si può mangiare in due modi: sui fogli di carta o all’interno di panini. Io la preferisco nuda e pura.

La frittola: scarti delle ossa, cartilagini, nervetti bolliti e fritti nel loro stesso grasso, con aromi e spezie. Poi il tutto viene trasferito nel panaro, il cestino di vimini coperto da uno straccio che mantiene il calore. Assurdo, ma è buonissima.

E frittola sia.

Mi avvicino.

Gli chiedo di darmi un assaggio.

E inizia sotto i miei occhi «Il Rito».

Con una mano scosta lo straccio.

Dal cesto esce del vapore.

Infila l’altra mano dentro. Nuda.

La stessa mano che poi prenderà i miei soldi.

Estrae una manciata di scarti di carne e cartilagini fritte.

(A furia di mettere il braccio dentro il cestone bollente non ha più un pelo.

Una ceretta naturale.)

Li mette su un foglio di carta oleata.

Pepe.

Uno schizzetto di limone, che non guasta mai.

Ed eccola.

Fantastica.

Roba da palati forti.

La frittola è forse il cibo più popolare, più povero.

Ma assaggiarla è come passare una linea di confine. Che non sono in molti a oltrepassare.

Per due motivi.

Il primo, gli ingredienti.

Perché è la somma di tutti gli scarti.

Il secondo, il modo in cui viene venduta.

Serve uno stomaco adatto per digerirla, ma ci vuole fegato per comprarla. Visto che la figura mitologica del frittolaro è nemica di ogni regola igienica.

Nonostante tutto, è uno dei cibi simbolo dello street food palermitano.

Faccio qualche domanda al frittularu.

Ma è taciturno, non ama parlare.

Non vuole svelarmi i suoi segreti.

Ha lo sguardo stanco di chi ha lavorato tutta una vita.

Segnato dal sole e dal tempo.

Non si espone nemmeno quando lo stuzzico.

Perché leggenda vuole che nella frittola si possa trovare un po’ di tutto.

Bottoni, pezzi di asfalto.

Sempre una sorpresa.

Lui ride e sta zitto.

Ok, mi ha già risposto così.

E rido anch’io.

Ora, con permesso, devo andare a cercare uno sfidante.

Prossima meta: il cuore pulsante di Palermo.

La Vucciria.

Ho bisogno di un passaggio.

E vedo qualcosa che fa al caso mio.

Avete presente i carrettini che vendevano i gelati per le strade e arrivavano suonando un campanello?

Be’, qui ci sono ancora.

Ma motorizzati.

Salgo sul furgoncino anni Ottanta di Francesco.

Che mi racconta che ogni giorno fa il giro di tutti i quartieri.

Sempre con il sorriso sulle labbra.

Mi offre un cono.

Gusto: fragola.

Partiamo.

Musica a palla.

Panorama di vie strette e poco animate.

Bambini che ci guardano e indicano il furgone.

Mi godo questa gitarella a bordo di un mezzo che sembra venuto dal passato. Destinazione: la Vucciria.

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Alle 4 scaricano il pesce.

Alle 5 arrivano frutta e verdura.

Alle 6 i primi clienti.

La stessa routine da secoli.

La Vucciria nasce come mercato dedicato alla carne.

Lo dice il nome, che sicilianizza il francese boucherie.

Con il tempo si cominciarono a vendere anche pesce, frutta, verdura e molto altro.

Che poi ora la parola «Vucciria» in siciliano abbia preso il significato di «confusione» non è un caso.

Anche se al giorno d’oggi è molto meno viva di Ballarò.

E più piccola.

Una piazzetta circoscritta, circondata da edifici ora decrepiti, che incarnano il fascino di un passato che non c’è più.

Ma è il tempio dello street food.

Intorno a me, bancarelle di ogni tipo, soprattutto di cibo.

E sopra, i panni stesi alle finestre. Pare ’na cartolina.

Più tipico di così.

Come si dice da queste parti, «Viva Palermo, santa Rosalia e la Vucciria».

Sono venuto qui anche ieri, in cerca dei purpari.

Sono pescatori che la sera, di ritorno dal mare, portano i polpi appena presi alla Vucciria.

E li cucinano all’istante, bolliti.

Ma non sono riuscito a trovarli: mare mosso e brutto tempo non mi hanno aiutato.

Mi guardo in giro, stordito da un’invasione di profumi.

Da una parte, un invitante quarumaru.

Dall’altra, un venditore di carciofi al cartoccio con le patate.

C’è solo l’imbarazzo della scelta.

Perché più mi spingo in là, più cibo di strada trovo.

Ognuno allestisce il proprio banchetto, e più spartano è, meglio è.

Bastano solo un tavolo, gli ingredienti base e qualche pentola.

Questo posto è un vero ristorante.

Dove direttori, avvocati o turisti vengono a cercare il meglio.

La Vucciria non è solo bancarelle e ambulanti.

È anche un luogo dove consumare un rito.

Quello di mangiare insieme.

All’aperto.

E onorare una tradizione culinaria.

Ecco perché per me questo non è un mercato.

È un’arena.

Il Colosseo di Palermo.

E tra poco inizierà una lotta tra gladiatori.

Rubio contro Palermo. Non si fanno prigionieri.

Sento che qui da qualche parte c’è il mio piatto. E il mio sfidante.

Passeggio mangiando un arancino, forse il più famoso fra i prodotti di esportazione siciliani.

Mo’ sento già qualcuno che dice: «No, è la cassata», «No, è il cannolo», e lo spiritoso che dice: «No è la mafia»...

Mi blocco all’improvviso.

Il cibo mi cade di bocca.

È lui.

Ecco il mio uomo.

Capelli brizzolati, faccia segnata dalle cicatrici.

Un chioschetto molto spartano, che emana un profumo da estasi. Strutto, non burro. Si sente subito. Limone mescolato a... Sì, a lei...

Un pentolone da una parte.

Un coltellaccio e della milza dall’altra.

E un sogno che si avvera.

Il panino ca’ meusa.

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Lui si chiama Rocky. Stavo a cercare il gladiatore, e invece c’ho il pugile.

Si presenta subito offrendomi un assaggio.

Bravo, cominci bene.

È un personaggio: fa questo mestiere da anni.

Mi racconta che il cinema lo ha tentato diverse volte.

Ma lui, tra fare l’attore e fare il meusaro, ha scelto di continuare a cucinare.

Una missione, più che un mestiere.

Si vede che ci tiene molto a quello che fa.

Tiene aperto giorno e notte.

E il frutto del suo lavoro è ottimo.

Non ho dubbi.

Sfida sia.

«’Sta sfida la possiamo fare, tanto non puoi vincere», mi dice sprezzante.

A Rocky… me sa che stasera vai ar tappeto.

Gli ingredienti sono pochi, ma bisogna trovarli buoni.

La materia prima è fondamentale.

Mafalde, strutto, polmone, trachea e milza. E un po’ di caciocavallo.

Mi manca tutto.

Ma trovo tutto a Ballarò.

Rocky e sua moglie fanno bollire la milza per quattro ore, la sera.

Io non ho tempo, ma per fortuna la trovo appena cotta.

Eccomi di ritorno alla Vucciria con le armi del duello nelle borse della spesa.

Pronto, anche se non ho l’attrezzatura da meusaro.

Ovvero la tipica pentola inclinata verso il basso, all’interno della quale far sciogliere lo strutto.

In alto, in attesa di essere fritti, ci si lascia la milza, il polmone e la trachea. La carne viene fatta scivolare in basso solo quando deve essere fritta. Cioè solo quando deve essere servita.

Last second.

Bene.

Io e Rocky ci guardiamo.

Affiliamo le armi.

Sembra una sfida da Far West, anche se non si capisce bene chi sia lo sceriffo.

Invece sarà una sfida all’ultimo panino.

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Il panino ca’ meusa

•  Ingredienti per un panino

focaccia vastiadda

20 g di milza

80 g di polmone

20 g di esofago e trachea

strutto q.b.

limone q.b.

sale

Dopo avere fatto un lavoro di preparazione che prevede la bollitura della milza, del polmone, dell’esofago e della trachea (1 kg di milza richiede un’ora circa di bollitura), tagliate gli stessi a fettine sottili.

Sistematele in un tegame di rame e soffriggetele nello strutto.

Tagliate a metà la vastiadda (focaccia bianca di forma rotonda cosparsa di semi di sesamo), farcitela con le frattaglie di vitello e completatela spremendo qualche goccia di limone sulla farcitura e aggiustando di sale.

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Come si mangia

Subito. Bollente.

Curiosità sugli ingredienti

Lo strutto è lo strato sottocutaneo del maiale. Mettetene poco, altrimenti ammazza i sapori.

La trachea viene messa per la consistenza. Dà tenacità e callosità a un piatto che altrimenti sarebbe solo morbido. Tritatela in pezzi molto piccoli.

Consigli di cottura

Tagliate la carne a fettine molto sottili.

Varianti

Il panino con la milza si può trovare in due varianti, a seconda di come viene condito: schietta o maritata.

La prima prevede solo una spruzzata di limone e del pepe.

La seconda si chiama maritata, cioè sposata, perché accompagnata da una grattata di caciocavallo o di ricotta.