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La riviera romagnola non è un posto per tutti.

Ce vo’ er fisico giusto.

Perché non è solo il regno del divertimento.

È anche il regno dell’unto e bisunto.

Qui la cucina popolare è ricca di ricette nate da vecchie tradizioni.

Come i passatelli, che «riciclano» ingredienti come pane, formaggio e uova.

O i cappelletti: la classica pasta all’uovo ripiena, sinonimo di semplicità.

Ma scordateve i classici da tavola.

Perché il cibo di strada che sto cercando è qualcosa di molto più massiccio.

La mia ricerca comincia dalla spiaggia.

Che è l’ambiente ideale per stuzzicare un po’ l’appetito.

(Come se ne avessi bisogno…)

Perché, un bel bombolone dopo il bagno non l’avete mai mangiato?

Proprio questo è uno dei più tipici (e calorici) cibi da strada, qui.

Anche se è riminese solo d’adozione.

Unisce il popolo della notte e quello dei lavoratori.

I primi, se lo mangiano all’alba quando escono dalla discoteca.

I secondi, quando escono all’alba per andare al lavoro.

E ce n’è per tutti i gusti: classico, alla crema.

Elegante, alla marmellata.

Ignorante, alla cioccolata.

Oppure, se puntate a qualcosa di più, potete sempre provare un cannolo fritto alla crema.

Tempo per sbranarlo: 1 minuto.

Tempo per digerirlo: 4 ore.

Poco equo. Ma ne vale la pena.

È la prima volta che metto piede sul suolo riminese.

Ho solo fatto colazione finora, ma ’sto posto già mi piace.

Ora però è il momento di andare a caccia.

E lo faccio in grande stile, partendo dal più famoso cibo di strada romagnolo: la piada.

Riminesi, attenti: sto arrivando.

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In questa giornata splendida, lascio la spiaggia e mi dirigo verso la città.

Trovo diversi chioschetti, pronti a sfornare la piadina.

È un must da provare.

Nasce come un cibo povero, perché gli ingredienti sono i più semplici: farina, acqua, strutto, bicarbonato e sale.

La si può mangiare in ogni modo: al posto del pane, farcita, o anche come dolce, accompagnata da marmellata, miele o creme al cioccolato.

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Nessuno può dire con certezza quando è nata la piada. Ma si sa che già nel XIII secolo esistevano focacce senza lievito, molto simili all’attuale piadina.

Nel tempo la ricetta si è evoluta: nell’impasto primitivo non c’erano lo strutto né il bicarbonato.

Ora ha raggiunto la perfezione.

E già dagli anni del Dopoguerra ha iniziato a diffondersi a macchia d’olio.

Come?

Con i chioschetti di cui vi parlavo.

Come quello in cui sono appena stato.

Da allora molte piadinerie sono rimaste in vita.

E molti di questi posti sono ancora a gestione famigliare.

Be’, cosa c’è di più tipico (e street) di questo?

Piadina

La piadina sta alla Romagna come la coda alla vaccinara sta a Roma.

C’è bisogno di aggiungere altro?

Impastate un chilo di farina, un cucchiaino raso di bicarbonato e 150 g di strutto. Aggiungete dell’acqua (o del latte) a filo, nella quale avrete fatto sciogliere un po’ di sale, fino a ottenere un composto omogeneo e compatto.

Lasciate riposare circa mezz’ora. Poi dividete la pasta ottenuta in palline di uguale dimensione e stendetele con il mattarello.

Cuocetele su una piastra antiaderente caldissima.

Appoggiato a un muro coperto da murales colorati, tiro il primo morso.

E scopro per la prima volta il sapore della vera piada.

Che non è come quella del supermercato.

È quella originale.

Fatta a mano.

Impasto morbido e più spesso.

Ora chi me ferma più?

Ne divoro una dopo l’altra.

La prima, classica: squacquerone, crudo e rucola.

Classica perché questo formaggio non solo è romagnolo doc (anzi, DOP), ma è anche particolarmente adatto alla piadina.

Senza crosta né buccia, cremoso e spalmabile.

La seconda, più tosta: cipolla gratinata e salsiccia.

Sono passato direttamente all’artiglieria pesante.

Mo’ sì che si ragiona.

Ma famme vedè se riesco a trovare qualcosa di più…

Proseguo il mio tour della città e mi addentro in un’altra piadineria.

Punto di ritrovo (e di mangiate) per chi esce dalla discoteca.

Gestione famigliare.

Anzi, matriarcale.

Qui in Romagna sono le donne a mandare avanti tutto: espansive, piacevoli, emancipate, spesso dirigono loro l’attività.

Come in questo caso: mamma molto esigente, controlla il lavoro dei figli ma in maniera garbata.

E la gentilezza con i clienti, la competenza nel suo campo sono i suoi due punti di forza.

Mettiamoli alla prova.

Le piade che ho provato fino a ora erano buonissime.

Ma si può fare ancora qualcosa per migliorare il ripieno.

E dargli lo sprint che piace a me.

Mi capiscono al volo.

Mi propongono la Cafona: taleggio, melanzane alla piastra e prosciutto.

Fanno scaldare la piada su una lastra di ghisa.

Impasto sottile, ripieno spesso.

Piegata in due.

La addento al centro.

’Mazza però, è bollente.

La mamma mi osserva come farebbe una nonna quando ti vede mangiare: controlla che tutto ti piaccia, ma soprattutto che non lasci niente.

Bona, è bona.

Ma voglio un ripieno che sia cafone davvero.

Madre e figli si guardano negli occhi.

Sanno già cosa propormi.

Un nome: Arturo.

Numero ingredienti: 7.

Prosciutto, squacquerone (il classico torna sempre), salsiccia, insalata, funghi, melanzane, peperoni.

Più che un invito a provare un piatto, pare ’na minaccia.

E io la piglio come una sfida.

Mi danno una piadina talmente piena che manco si chiude.

C’ha un peso specifico smisurato.

Voto 10 per il ripieno, ma ’sto impasto è ancora leggero.

La mamma mi guarda delusa. Pronta a rimproverarmi.

«Non mi guardi così, signora. È che voglio di più.»

Se voglio qualcosa di più unto, la parola d’ordine è una sola: strutto.

E piadina + strutto (ancora di più di quello che già c’è) = sfogliata.

Vado in un’altra piadineria.

Dove, nel retro, fanno questa meraviglia: 8 piade sovrapposte, separate le une dalle altre da uno strato di strutto.

Un’ode al maiale.

Con la pasta ottenuta si forma un maxirotolo, che poi viene diviso in più pezzi.

Un po’ il concetto della pasta sfoglia.

Un lavoraccio.

Che qui però continuano a fare.

Dietro a tutto questo ci sta una signora.

Carattere forte, passione e onore la fanno andare avanti ogni giorno a sfogliare piadine.

Mi racconta che una volta la sfogliata si faceva solo la domenica.

Sia perché ci vuole tempo per farla, sia perché è il giorno più adatto per riuscire a smaltirla (e a digerirla).

Il giorno di festa insomma era il tripudio dello strutto.

Dopo aver provato a convincermi che lo strutto fa bene, e che è anche un’eccellente crema di bellezza, sono io che la convinco a farmi assaggiare ’sta meraviglia.

Ripiena di ogni cosa.

Formidabile.

Molto più fragrante della normale piadina.

Ma mi cola tutto il ripieno.

E il cibo non si spreca così…

Quindi la signora mi propone qualcos’altro.

Il cassone.

È il cugino della piadina.

Il ripieno si mette sull’impasto ancora crudo, poi si chiude tutto a mo’ di raviolo sigillandolo con il retro di una forchetta.

Viene chiamato anche crescione, perché un tempo la farcitura si faceva con quest’erba che cresceva lungo i fossati.

A me lo danno con mozzarella, pomodoro e salsiccia.

Quasi un calzone.

Buonissimo.

Anche se, ancora una volta, la voracità è la mia peggior nemica: me so’ scottato di nuovo…

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Ne prendo uno in più da portare via.

Voglio gustarmelo con calma, dopo le riprese.

Troppo buono.

Ora invece torno in riva al mare.

Niente è meglio di un bel cassone mentre hai i piedi a mollo.

Ma ecco che qualcuno viene a disturbare la mia pausa pranzo.

È un surfista.

Ma no, ha una pagaia.

Eh?

Attacca bottone criticando il mio costume da bagno.

Che c’ha di male?

A me piace vestire classico.

Poi l’argomento cade sul mio cassone.

Glielo faccio assaggiare.

Ma pare che non condivida il mio entusiasmo.

«Dovresti assaggiare quelli del mio amico Roby. Surfista e cuoco.»

Sì, e astronauta.

Ma m’incuriosisce.

Che sia lui l’uomo giusto per la mia sfida?

Devo scoprirlo.

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Parcheggio.

Sulla spiaggia c’è un bel chioschetto.

Una struttura che una volta veniva usata durante i festival rock.

Festival gestiti sempre da questo Roby…

Non vedo l’ora di conoscerlo.

E finalmente, eccolo lì: capello grigio, abbronzatura doc.

Pare il classico vitellone romagnolo.

Scopro presto che è una persona profondamente buona, superdisponibile, a cui piacciono in particolare tre cose: cucinare, fare surf e fare festa.

Niente male.

Ha le carte in regola per essere il mio sfidante.

Manca solo un’ultima cosa: sarà vero che i suoi cassoni sono così speciali?

«Ma ’sto cassone… so’ solo storielle o si può pure assaggià?»

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Roby mi guarda scettico, come se non credesse che ho il coraggio di provarlo.

Me lo porge.

Sembra bello.

Patate, sughetto niente male, finocchio selvatico.

Pesa.

Il sapore è una bomba.

Ma… che è questo? Un gommino?

Non l’ho mai visto…

«Questo viene direttamente da lì», dice indicando il mare.

È un bacio. O lumaca di mare.

È un lontano parente delle lumache, quelle che si mangiano i francesi.

Questo non è un piatto tipico riminese.

È una variazione. Un’invenzione di Roby.

Perché qui, i baci, si mangiano con il sugo. A mo’ di zuppa o intingolo.

Quindi ha preso un piatto della tradizione romagnola e l’ha messo nella piadina chiusa a calzone.

2 in 1.

Ottima idea.

Roby, hai vinto una sfida.

E l’esercito di surfisti sarà la nostra giuria.

It’s time for shopping.

Il mercato sta per chiudere, ma posso ancora sperare di trovare qui i fondamentali.

Aglio, peperoncino, pomodoro, finocchio selvatico ok.

Ma ’ste lumache di mare? Dove le prendo?

Mi ritrovo ad andare in giro a chiedere baci.

Alla mia domanda un po’ ambigua risponde un pescivendolo, che guarda un po’ ha le lumache di mare sotto il bancone.

Mi manca solo lo strutto.

Che sembra non abbia nessuno.

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Fortunatamente ci sta una fabbrica di strutto proprio qui vicino…

Mi ci fiondo.

Dentro, sembra non ci sia nessuno.

Le serrande si aprono e si chiudono non appena entro.

Buio.

Vapore.

Rumore di macchinari, di liquidi che vengono rimestati.

Sembra di essere nel laboratorio del dottor Frankenstein.

Tubi e oblò sui contenitori, valvole, aggeggi che sbuffano.

C’è da fare attenzione.

Raggiungo la fine della lunga serie di macchinari.

E la trovo: una fontana di strutto.

La tentazione è troppa. Devo assaggiarlo.

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Lo strutto si ottiene dopo un lungo trattamento dei grassi del maiale.

Questa lavorazione ha origini spagnole, che sono poi state adottate dai siciliani.

Lo strutto: il sapore non è un problema. Il problema è che è grasso puro… colesterolo da bere.

La location è perfetta, il momento anche.

Non posso trattenere un grido.

«SI… PUÒ… FAREEE!»

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Il cassone con i baci

•  Ingredienti

Per il cassone:

1 kg di farina 00

60 g di strutto

sale

un cucchiaino di bicarbonato

acqua tiepida

Per il ripieno:

100 g di baci di mare

pomodoro

vino bianco

aglio, olio, finocchietto selvatico

Cominciate mettendo a bollire i baci di mare per almeno un’ora/un’ora e mezza.

Preparate la piadina, che poi chiuderete a cassone. Disponete la farina a fontana e create un buco nel mezzo. Sciogliete lo strutto nell’acqua tiepida, poi versate il composto ottenuto al centro della farina con il bicarbonato e il sale. Impastate fino a ottenere una pasta morbida.

Lasciate riposare per mezz’ora.

Separate l’impasto in pagnotte da circa 150 g l’una. Stendetele a uno spessore di circa 5 millimetri.

Nel frattempo preparate i baci. Fate un soffritto di aglio, finocchietto selvatico e pomodoro a piacere, cui aggiungerete anche i baci. Sfumate con vino bianco e lasciate cuocere per pochi minuti. Fate raffreddare un pochino.

Versate quindi i baci su metà della piadina ancora cruda. Poi chiudetela aiutandovi a sigillare le estremità con una forchetta. Fate cuocere su una piastra o una padella antiaderente finché la piadina sarà cotta.

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Come si mangia

A morsi.

Curiosità sugli ingredienti

Lo strutto serve a rendere friabile l’impasto.

Consigli di cottura

I baci fateli sbollentare prima di cuocerli nel sugo. Così si eliminano le impurità e sarà molto più facile toglierli dal guscio e privarli dell’opercolo.

Varianti

Il ripieno ve lo potete fare come volete. Ma ’sti baci ve li consiglio.

P.S.

Questa è stata l’ultima puntata della prima serie.

E mi sento in dovere di ricordare due cose, defunte dopo questo finale di stagione.

La prima, sono le mie scarpe.

Buttate via.

Sono arrivate fino a Rimini a pezzi.

Bucate.

Puzzavano tremendamente.

Manco ci avessi girato per mezza Italia…

La seconda, l’ho abbandonata di mia iniziativa.

È che con la fine di questa stagione si è chiusa un’epoca.

E ho voluto darci un taglio.

Letteralmente.

Ai baffi.

Sono finiti sul pavimento del barbiere subito dopo le riprese.

Senza rimpianti.