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Terra ricca di tradizioni, di storia.

Un luogo importante per il panorama enogastronomico italiano.

Perché qui la cucina è rimasta in qualche modo molto rurale: le poche influenze esterne hanno consentito di mantenere quasi intatto quel passato in cui pane, pasta, formaggi e carne erano gli unici protagonisti della tavola.

Anni e anni di pecore e caciottine hanno talmente impregnato la terra e l’aria che qui tutto sa d’ovino.

Appoggiato a un muretto, mi godo il sole e la tranquillità della campagna abruzzese.

I prati, i campi, il cielo terso.

Si può chiedere di più?

Non sono qui per caso.

Due sono i motivi che mi hanno portato a esplorare questa terra.

Il primo, è personale.

Conosco bene l’Abruzzo. È una terra a cui sono molto legato.

Ci venivo spesso da bambino, e ricordo il piacere di mangiare quel cibo campestre, dai toni forti.

E conosco da vicino la tragedia de L’Aquila. Due settimane prima del terremoto, ero lì. A trovare degli amici.

Ora che quella città meravigliosa non è più come prima, ci tenevo a mostrare quanto questa regione abbia ancora da dare.

Il secondo, è che volevo raccontare uno street food diverso. Quello che non si mangia per strada, ma tra i campi.

E perché proprio qui?, vi chiederete voi.

Perché qui il cibo di strada nasce per motivazioni storiche, per venire incontro alle necessità e ai riti dei pastori, e nel tempo ha conservato tutte le sue caratteristiche.

Un esempio? La micischia.

Carne essiccata di pecora, talvolta capra.

Solitamente la bestia usata non è giovane: si utilizzavano infatti i capi di bestiame morti di morte naturale, o che non erano più produttivi.

Il sapore quindi non è delicato: è proprio pecora allo stato puro.

La consistenza… è uguale a un pezzo di cartone.

L’aroma è prepotente, selvatico.

Ricorda vagamente le coppiette di maiale, ma è meno elastica e si sfalda più facilmente.

Forse anche per via del modo in cui è preparata.

La carne viene disossata, salata, pepata e lasciata all’aria aperta.

Nessuna cottura. Perché la micischia era un cibo che non doveva deteriorarsi.

Questo, più il suo non essere pesante, la rendevano il cibo ideale per la transumanza.

Non è una parolaccia.

È la migrazione stagionale dei pastori con le greggi.

Quando il freddo autunnale cominciava a farsi sentire, i pastori delle montagne prendevano e partivano con le loro bestie per cercare un clima più caldo nelle zone di pianura della Puglia. Una necessità che nasceva dal dover cercare prati non innevati, che dessero da mangiare al bestiame.

Nel viaggio, seguivano i tratturi: sentieri in terra battuta, vie naturali che mostravano loro il percorso fino al Gargano.

Una volta arrivati, restavano lì tutto l’inverno, fino al sopraggiungere della primavera. Quando il caldo li costringeva a tornare sui loro monti.

Una vita difficile, separati dalle famiglie per molti mesi all’anno e costretti a fare centinaia di chilometri a piedi, con le pecore e le capre a seguito.

Tra i tanti pericoli in agguato, dai lupi ai serpenti ai ladri di bestiame, c’era anche la fame.

Ma dovendo viaggiare leggeri erano pochi i cibi di cui potevano accontentarsi.

Tra questi, la micischia e il pane erano immancabili.

Ora la transumanza è molto poco praticata, e i cibi legati a essa non sono facili da trovare.

Come vedete, questa terra ne ha di storie da raccontare.

Ma soprattutto è ricca di cibi forti, adatti alla mia sfida.

Mo’ devo solo trovare uno sfidante degno di questo nome.

Abruzzesi, arrivo.

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Sono nel cuore dell’Abruzzo.

In un paesino di quelli che sembra siano rimasti congelati nel tempo.

In cui gli unici rumori che senti non sono le macchine e il traffico.

Sono i suoni della natura.

Qui basta farsi guidare dall’olfatto per non sbagliare.

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E, infatti, non mi sbaglio a entrare in una rosticceria.

Mi propongono il fiadone.

La forma è quella di un raviolo.

Ma quando lo spacchi in due ti arriva ’na manata di formaggio che te stordisce.

È un dolce, solitamente legato alla Pasqua.

Esterno: pasta all’uovo dolce, ma si può fare anche salata.

Interno: formaggio, formaggio, formaggio. E uova.

Vi lascio immaginare il perché del suo nome.

’Na tanfa…

Ma il sapore è buonissimo: forte, e spicca molto il latte ovino.

Uno shottino di formaggio.

Fiadone

Impastate 1/2 chilo di farina con 1 uovo, 1 bicchiere d’olio d’oliva, 1/2 bicchiere di vino e un po’ di sale.

Per il ripieno, mescolate formaggi morbidi a vostro piacere, aggiungete Parmigiano e pecorino grattugiati, 1 uovo e un po’ di noce moscata.

Stendete la pasta e tagliatela a quadrati della grandezza che volete. Mettete poi al centro una pallina di ripieno e chiudete formando un triangolo. Attenzione a saldare bene i bordi.

Spennellate la superficie con del tuorlo, poi infornate a 180 °C per una ventina di minuti.

Ottimo.

Ma non me ne vado da qui senza aver provato qualcos’altro.

E che te trovo… le ferratelle.

Altro dolce tipico di qua.

È fatto con una pasta simile a quella dei biscotti, spesso viene arrotolato e dentro ci si mette la marmellata o la crema pasticciera.

Lo divoro.

Ora però basta zuccheri: ho bisogno di proteine.

Salgo in macchina e riprendo la strada.

Destinazione: lo saprò quando ci arriverò.

E fu così che sbucò una nuvola di fumo vicina al bordo della strada…

Capisco subito cos’è.

Parcheggio.

E non mi sbaglio: carne alla griglia.

Solo che quella sopra la brace non è proprio una griglia. È un canaletto.

Il concetto è lo stesso ma, essendo concavo, permette allo spiedino di cuocere senza dover poggiare direttamente sulla superficie.

È un po’ come la griglia usata dai giapponesi per cuocere gli yakitori, gli spiedini di pollo: lo stecchetto viene appoggiato solo alle estremità, in modo che non ci sia contatto con la brace ardente; la carne si cuoce lo stesso, ma non si secca e rimane più succosa.

Qui in Abruzzo sono diventati molto popolari, dopo il terremoto, perché sono un ottimo sostituto dei fornelli.

E quell’aroma di carne mi ipnotizza.

Mi avvicino.

Finalmente, gli arrosticini!

Ora sì che mi sento in Abruzzo.

Essenza di pecora.

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Carne tagliata a cubetti e infilata negli spiedini.

«Vuoi provare?» mi chiede l’uomo che li sta cucinando.

E daje!

Ne sfilo uno intero in bocca.

Perfetti.

Me li mangerei uno dopo l’altro.

L’unico modo per fermarmi è darmi qualcos’altro.

E guarda te… ci sono anche le salsicce di maiale.

Belle piccanti.

Da ’sta terra esce l’unto che piace a me.

Ma voglio andare a cercare qualcosa di più.

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Capito in un baretto sulla strada.

Pace, tranquillità, verde.

Riprendo in mano la micischia che non avevo finito prima.

La sgranocchio mentre aspetto che arrivi qualcuno.

Ed eccola: una signora che, vedendomi così affamato da non riuscire ad aspettare, mi porta subito il meglio della casa.

Qui il menù cambia in continuazione. A seconda delle stagioni.

Mi dà una zuppa di ceci allo zafferano.

Profumo potentissimo.

Come se non avessi mai assaggiato prima lo zafferano.

Che qui, si sa, è di casa. Quello di Sulmona, infatti, è uno dei più pregiati.

Anche se non nasce proprio in Italia.

È arrivato nel Mediterraneo con gli arabi, dopo che invasero la Spagna. Ma in questa regione ha poi trovato l’ambiente giusto in cui svilupparsi.

Il segreto per trarne un gusto più saporito è usare i pistilli. Non la polvere, in cui potenzialmente viene tritato di tutto.

’Sti ceci sono ’na meraviglia. Ma io voglio di più. E la signora mi fa accomodare in cucina, dove il marito sta preparando qualcosa di più forte.

La coratella in agrodolce.

Interiora di animali piccoli, come conigli e polli.

C’è anche una nota di piccante.

Non è la mia coratella romana, ma qui si sente proprio il selvatico.

Bella tosta.

Esco e mi risiedo al tavolino per digerire.

E il tipo seduto lì vicino attacca bottone.

«Per una coratella stai ridotto così?»

Da questo capisco che forse lui può aiutarmi.

Mi presento.

«Piacere, Chef Rubio.»

Lui si chiama Orlando, è un veterinario.

E conosce qualcuno che può fare al caso mio.

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Due «personaggi fantastici», li chiama.

Due pastori.

Che fanno una pecora… estrema.

«Te la senti?»

A me, questa domanda, non la devi fare.

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Da una parte, il Monte Gentile.

Dall’altra il Tratturo Magno, il principale sentiero che veniva seguito dai pastori durante la transumanza.

E di fronte a me, due Pastori. Sì, con la P maiuscola.

Mi faccio subito presentare da Orlando, ché mi sa che non gli piacciono gli intrusi.

Ma continuano a non sciogliersi, a stare sulle loro.

Ci vorrà un po’.

Tartaro, irrequieto e burbero. Ma solo all’apparenza.

Tonino, più mansueto.

Entrambi testardi e capoccioni, più dei loro montoni.

Ma in fondo scoprirò che hanno un cuore grande.

Hanno il volto consumato da una vita dura.

Non è che fare il pastore sia così facile come si crede.

Siedono a un tavolo con una tovaglia cerata.

Sotto un cielo che pare dipinto e un sole che spacca.

Pura poesia.

Caldo assurdo.

Ogni tanto buttano un occhio al gregge, lì vicino.

Ammazza, quante sono ’ste pecore.

Mi ricordano la Nuova Zelanda.

Ma lì ce n’erano un po’ di più.

Circa 20 per persona.

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E sono molto più grosse: ho mangiato di quelle costine che parevano di brontosauro.

Ora vediamo se anche qui avrò qualche soddisfazione.

Mi siedo con loro e cerco di fare amicizia.

Davanti a me ci stanno bottiglie di vino e un formaggio pieno di mosche.

Tutto normale, siamo in montagna, no?

Tartaro mi invita (ma che, mi mette alla prova) ad assaggiare il marcetto, ovvero quella massa bianchiccia attira-insetti.

Ci metto un dito dentro: è quasi cremoso.

Latte di pecora, poco ma sicuro.

Dal nome avevo già intuito che fosse qualcosa di forte.

Ma loro aspettano che l’abbia messo in bocca prima di raccontarmi come si fa.

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È un cibo per veri estimatori. Il suo sapore straforte lo rende inadatto a diventare un condimento, quindi si mangia da solo o con il pane.

Il marcetto: è formaggio avariato. Lo si lascia all’aperto e le mosche ci fanno le uova dentro. Quando si schiudono, fanno i vermi. Chi ha coraggio, mangia pure quelli.

Questi due possono darmi grandi soddisfazioni, già lo so.

Ho passato il loro test assaggiando il marcetto. Ora però sono io che li metto alla prova. Vediamo se hanno qualcosa di adatto alla mia sfida.

Noto una pentola coperta sul tavolo: è pecora alla cottora.

Piatto tipico dei pastori, le cui origini sono collegate alla transumanza.

Quando le pecore che morivano di vecchiaia, o rimanevano ferite, venivano cucinate in questo modo.

Ovvero con quello che capitava: erbe di campo, verdure.

L’importante era usare il paiolo che dà il nome a questo piatto: il cotturo.

Trattandosi di carne di animale vecchio, era essenziale cuocerla a lungo, tra le quattro e le sei ore.

Ora ho l’occasione di assaggiare uno dei cibi più tipici di questa zona.

Mosche anche qui, ma ’sta volta non fanno parte del condimento.

Sono ovunque.

Annuso.

Odore di selvatico.

Assaggio.

È pecora anziana, senza dubbio. Perché il sapore è fortissimo.

«Non si ammazza una pecora giovane, perché serve», mi risponde Tonino.

Insomma, ’sto piatto è un omaggio alla vita della bestia.

Ed è buonissimo.

Anch’io voglio omaggiarla. A modo mio.

Con una sfida.

Tartaro ride mentre glielo propongo e si fa la scarpetta nel brodo.

Nessuno si tira indietro.

Il vecchio e il nuovo si sfidano sulla stessa tradizione.

Sarà una sfida con i fiocchi.

Fàmose ’sta pecora.

Bene, mi servono erbe e verdure.

Per fortuna qui le erbe aromatiche non mancano.

Mi butto in un campo.

Nel vero senso della parola.

Mi immergo nell’erba.

Salvia, rosmarino, timo e alloro ci stanno.

Ora mi servono solo aglio, carota, cipolla e sedano.

Ma per fortuna incontro un lavoratore della terra, che ha un orticello proprio qui vicino.

Mi ci porta a bordo del trattore.

Non condivide il mio entusiasmo, ma poi accetta anche di portarmi dal macellaio.

Non uno qualsiasi.

Per questa sfida, devo affidarmi a un professionista.

E proprio in questa macelleria, durante il sopralluogo per la trasmissione, ho assaggiato alcuni degli insaccati più buoni: salsiccia di maiale sotto strutto, salsicce di fegato e l’annoia, simile alla salsiccia ma fatta con budella e stomaco di maiale, aromatizzati con peperoncino, aglio, semi di finocchio e bucce d’arancia.

Ora invece sono qui per cercare una pecora.

Mi porta nella cella frigorifera e scelgo il pezzo migliore.

Anche ’sta volta ho trovato ingredienti freschi freschi.

Adesso però è ora di iniziare.

P.S.

Quella che segue è l’antica ricetta che la famiglia di Tonino Damiani, pastori da quattro generazioni, conserva con cura.

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La pecora alla cottora

•  Ingredienti

20 kg di carne di pecora «di fine carriera»

4 kg di patate (opzionali)

1,5 kg di salsa di pomodoro fresco (opzionale)

2 cucchiai di sale da cucina

2-3 foglie di alloro

1/2 litro di vino rosato

1/2 kg di cipolle

3-4 teste d’aglio

3-4 gambi di sedano

3 carote

olio extravergine d’oliva

peperoncino

un pizzico di pepe

Disossate completamente la carne e tagliatela a pezzetti di media grandezza. Fate sbollentare la carne così preparata nella cottora con 4-5 litri di acqua, aggiungete 1/2 cucchiaio di sale e le foglie di alloro. Appena bolle togliete la carne, buttate via l’acqua e ripulite la cottora. Tagliate in piccoli pezzi cipolla, aglio, sedano e carote e metteteli a soffriggere con l’olio nella cottora a fuoco lento. Aggiungete la carne precedentemente sbollentata e il vino. Lasciatelo sfumare, poi ricoprite il tutto con dell’acqua, superandone il livello di oltre quattro dita, e aumentate l’intensità del fuoco. Coprite la cottora con un coperchio e avvolgetene il bordo con un panno da mettere tra il caldaio e il coperchio, perché non si disperdano il vapore e il sapore della carne. Durante la cottura effettuate di tanto in tanto la «schiumatura», ovvero togliete le impurità che affiorano in superficie. Passate tre ore abbondanti, togliete il coperchio e unite la salsa di pomodoro, girando bene la carne. A cottura ultimata spegnete il fuoco e aggiungete le patate tagliate in quattro.

Ricoprite la pentola con il coperchio e il panno e lasciate cuocere per circa mezz’ora.

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Come si mangia

Una volta si consumava intorno al fuoco accompagnata dal pane, inzuppato poi nella pentola.

Curiosità sugli ingredienti

Nessuna.

Consigli di cottura

Disossate e fate la carne in piccoli pezzi, per uniformare il tempo di cottura.

Sbianchitela, ovvero cuocetela parzialmente, per togliere le impurità, che verranno a galla, il sapore selvatico e il grasso inutile (ma quello buono, ve l’assicuro, rimane).

Durante la cottura vedrete che verrà su molta schiuma: toglietela; è il grasso della pecora che si scioglie.

Le erbe aggiungetele dopo il soffritto, altrimenti si alterano gli aromi e si bruciano.

Varianti

Si possono usare le erbe aromatiche che si hanno a disposizione.

Si può sfumare con birra o vino, oppure con nessuno dei due.