26.

Il catering è migliorato. Si capisce subito: i due tavoli allestiti dal Torch Club sono presi d’assalto. Michele dubita che abbiano affinato anche la selezione dei vini, ma è già qualcosa. Quando lui e Larissa arrivano, la sala è piena.

«Brian?» chiede Larissa guardandosi intorno.

Michele lo cerca al bar, non lo vede.

«Forse al piano di sotto».

Larissa si sfila la giacca, la appende all’entrata, Michele la guarda: questa sera è molto elegante. Un vestito senza maniche grigio scuro, le scarpe con un po’ di tacco, la catenina, i capelli raccolti nello chignon. Michele le tocca leggero la schiena, lei non si allontana. È ancora convinta di avere fatto la cosa giusta con Caterina, ma deve sentire comunque qualcosa di spiacevole: una forma di mancanza nei confronti di Michele, forse.

«Era necessario?» aveva chiesto lui.

«Tu stai facendo quello che ritieni necessario; io faccio lo stesso».

A nessuno dei due sono mai piaciuti i ricevimenti universitari. Gente che Michele vede ogni giorno, oppure che non vedrà mai. È lo spirito di NYU: accogliere a ogni apertura di semestre i nuovi assunti e salutarsi alla fine dell’anno accademico, con i complimenti del rettore e i migliori auguri per un’estate produttiva. Si mangia e si beve male, si parla di niente e ci sono poche sedie. A Larissa va meglio: qualcuno che si alza per farla sedere c’è quasi sempre, ma Michele ogni volta arriva a casa con la schiena in frantumi.

Scendono al piano inferiore, Michele si avvicina al bancone, ordina un bicchiere di chardonnay per Larissa e un merlot per sé. Non gli piace, il merlot, ma di rosso hanno questo. Si volta verso Larissa, che si è messa a chiacchierare con una donna, una che Michele ha visto cento volte ma non saprebbe collocare in un dipartimento preciso. Queste occasioni formali confondono: tutti mescolati, fuori dei propri contesti e divise quotidiane. Sbaglia soprattutto le donne: eleganti e truccate, non somigliano alle professoresse che incrocia nel campus, e finisce che ogni semestre si fa presentare le stesse persone.

Al bancone non c’è nemmeno un’arachide. Gli toccherà buttarsi nella mischia per strappare due piattini su cui ammucchiare alla rinfusa quel che capita, mischiando sapori e condimenti che dovranno essere pescati dal piatto senza far crollare tutto. «Per me cracker e olive» gli dice di solito Larissa, che non ha alcuna intenzione di prendere a morsi polpette, gamberi e dolmadakia nel bel mezzo di una conversazione.

Michele si allunga a destra e sinistra per vedere se Brian è qui, ma niente. Saluta invece le ragazze sedute accanto, che hanno trovato la soluzione perfetta: si sono portate due piatti pieni al bancone e dopo hanno ordinato da bere. Ora chiacchierano tranquille, piluccando e bevendo. Non le ha mai viste, sono giovani; potrebbero essere lecturers o assistant professors. A giudicare dallo stile, di qualche dipartimento di lingue. Non riconoscerà i colleghi da una volta all’altra, ma questi li individua al volo: sono generalmente stranieri, e spesso rumorosi. «Di certo più eleganti dei tuoi colleghi» aggiunge Larissa, lanciando fiamme sui loro calzini da tennis.

I bicchieri arrivano, Michele torna verso Larissa.

«Non lo vedo» le dice, «vuoi mangiare qualcosa?».

Larissa allunga il collo, al tavolo c’è meno calca: «Qualcosa, sì».

Michele le fa strada, un ragazzo le cede il posto. Michele si avvicina al tavolo, riempie due piatti selezionando i bocconi piccoli e, quando alza la testa, trova Brian.

«Eccoti».

È contento di vederlo.

«Larissa ti cercava» gli dice.

«L’ho già salutata».

Ha il volto cupo, fa girare gli occhi liquidi e arrossati, come si vergognasse di qualcosa.

«Stai bene?».

«Ho fatto un casino».

Emily, pensa Michele.

«Cos’è successo?».

Brian apre la bocca, scuote la testa. È ubriaco. Michele si guarda intorno, che non lo veda il direttore del dipartimento: «Brian, è meglio se vai a casa».

«Non volevo. Mi è scappato».

Oddio, pensa di colpo Michele, non l’avrà mica picchiata? Guarda Brian, la faccia gonfia, la camicia sgualcita che deve avere addosso da giorni. Cosa mi viene in mente, pensa, non farebbe mai una cosa del genere. Posa i piatti sul tavolo, lo prende sottobraccio: «Mi spieghi?».

Brian si passa una mano sulle guance lucide, sulla fronte nuda. Poi lancia un’occhiata in direzione di Larissa, e Michele non ha bisogno di altro: lascia lì tutto e si precipita al tavolino.

Sua moglie non c’è più.

Tra il Torch Club e casa ci sono tre bar. Michele entra in tutti, passa di corsa tra i tavoli, controlla nei bagni. Non crede che la troverà in un bar, ma non si sa mai. Continua a chiamarla, immagina il cellulare illuminarsi sul comodino, dove l’hanno lasciato. Arrivato sotto casa, esita: telefonare a Maggie?

Entra nella hall, c’è Julius.

«Buonasera, signore».

Non gli chiede niente. Confonde ancora gli inquilini, tanto vale salire e vedere da sé se Larissa è in casa. Anche perché, se non c’è, non ha idea di dove cercarla.

Ma c’è.

Non si è cambiata, siede sul divano, l’abat-jour accesa. La sensazione che invade Michele nel vederla così è di una tale pena che la avvolgerebbe in una coperta chiedendo perdono. Invece resta immobile sulla porta, che chiude piano.

«Sei qui» dice.

Larissa non si volta, alza una mano a cercare la catenina, il cui pendaglio fa scorrere da una parte all’altra. Lo sguardo fisso, lo chignon sfatto. Si dev’essere impigliato nella giacca indossata di corsa e ora le spenzola tramortito sulla nuca.

«Ho dovuto saperlo da Brian».

Michele si avvicina, siede vicino a lei.

«Ubriaco» aggiunge Larissa.

«Mi dispiace».

Larissa fa scorrere il ciondolo sul filo della catenina senza rispondere. Poi si blocca: «Magari avete già organizzato una bella cena di famiglia».

«Non esagerare, Larissa».

Larissa scatta in piedi, fa il giro del divano. Ha una furia addosso che Michele ha visto di rado, e d’un tratto quello chignon sfinito gli sembra quello che è: una crocchia di capelli sfibrati, che danno soltanto l’illusione di sollevare i tratti di un volto vecchio. La certezza di averlo tradito, quel volto.

Larissa si ferma: «Arrivano tra quattro giorni. Quando pensavi di dirmelo?».

«Scusami» risponde lui voltandosi nella sua direzione. Non si alza. Se lo facesse, Larissa scatterebbe via.

«Non ho trovato il momento giusto».

Larissa rimane in silenzio. Michele non sa che altro dire, ma, se non aggiunge nulla, lei si sprangherà in camera e non sarà più possibile parlare.

«Mi metti di fronte a una scelta che non…».

La guarda. Larissa è impassibile.

«…Una scelta che non è giusto fare. Non puoi chiedermi di scegliere tra te e André. Capisci che non è giusto?».

È disprezzo, quello che attraversa lo sguardo di sua moglie, ed è disprezzo ciò che le cola nella voce: «Hai passato troppo tempo in questo Paese, Michele, che ti farcisci la bocca di tutti questi giusto. Dovresti avere imparato che giusto non—».

«Giusto per noi, Larissa. Per te e per me».

Larissa scuote la testa, un brutto sorriso le tira il viso ancora più giù, fiaccandolo del tutto.

«L’unica cosa giusta a cui dovresti pensare è proteggere quel che è rimasto. Accettare le cose come sono, una volta per tutte. Piantarla con questa farsa del nipote ritrovato e guardare la realtà per quello che è».

«È il figlio di Mirko».

Larissa sbuffa, quasi ride: «Oh, povero amore mio» dice.

E poi, già voltata di spalle: «Ti auguro solo che non sia negro».

Il profumo del caffè si spande in cucina, mescolato a quello del pane tostato. Larissa ha allineato marmellata, miele, biscotti.

Michele non tocca nulla.

«Vuoi i cracker?» chiede.

«No, grazie. Tu hai già mangiato?».

«Non ho fame».

Michele si siede, versa un cucchiaino di zucchero nelle tazzine. Larissa beve, si pulisce le labbra.

Non ha dormito neppure lei. Ha gli occhi cavi, il viso opaco.

«Vado via qualche giorno».

Michele non è sicuro di avere capito: «Scusa?».

«Vado via qualche giorno».

Un momento di sospensione, il tempo necessario alla notizia, avrebbe detto Mirko quando era un ragazzino, per raggiungere il satellite.

«Quanti giorni?».

«Non lo so».

«Bella soluzione».

Larissa non reagisce, mantiene questa calma strana.

«Adesso come adesso non ne vedo altre, visto che fra tre giorni arrivano».

«E andarsene dovrebbe risolvere la questione? Possibile che tu non voglia nemmeno provare a—».

Larissa si alza, mette la tazzina nel lavandino.

«Vai da Maggie?» chiede Michele.

«No».

«Dove vai?».

Larissa si volta, da questa distanza appare più alta. Magra, come fosse stata svuotata durante la notte.

«Ho trovato un posto dove stare».

I lineamenti di sua moglie si offuscano per un momento.

«Che posto?».

«Un posto, Michele».

La voce gli vibra in testa ad annebbiare ancora di più i contorni. Michele ha le ascelle sudate, i piedi gelati.

D’un tratto, le parole da dire per fermare tutto.

«Preferisco non dirti dove».

Due, tre parole che, come in un gioco a premi televisivo, lampeggiano davanti agli occhi. Sarebbe sufficiente leggerle sul tabellone luminoso per fermare la follia, l’equivoco terribile in cui devono essere caduti.

«Ma in città, se ti può tranquillizzare».

Chiarissime. Semplici. Allungare la mano, afferrare la sua, pronunciarle.

«Bisogna andare avanti, Larissa» dice invece.

Larissa non risponde, gli passa accanto uscendo dalla cucina.

Michele resta seduto curvo al tavolo, le mani a circondare la tazzina, mentre sua moglie, di là, comincia ad aprire i cassetti.