16.

«Perché ha chiamato te?».

«E chi doveva chiamare?».

«Caterina».

«Caterina era sua moglie. Noi siamo i suoi genitori».

Larissa si siede. Chissà se se n’è accorta. Del fatto che con Caterina usa il passato e per sé il presente. Smetterà mai?, si chiede.

«Pensavi anche tu che avrebbe chiamato lei. Hai detto a Caterina di telefonarci se aveva novità».

«Le ho detto di avvertirci, ma—».

«Non importa. Cos’ha detto?».

«Che ha saputo della nostra visita a Garda e—».

«Ti ha spiegato?».

«No» Michele prende una penna, toglie il cappuccio, «non mi è parso avesse intenzione di convincermi».

Fa una pausa, guarda Larissa che aspetta: «Mi ha chiesto di noi. Di te».

«Di me?».

«Mi ha chiesto come stai».

«Sì, ma non ti ha spiegato—».

«No, non mi ha spiegato niente. Mi ha detto solo che ha saputo dall’avvocato che siamo stati a Courmayeur e mi ha chiesto che intenzioni abbiamo. Le ho detto che siamo molto confusi» dice Michele prima che Larissa lo interrompa di nuovo, «e che aspettavamo di avere informazioni più certe».

«E che lei si facesse sentire».

«Mi ha anche chiesto di Caterina».

«Cosa ti ha chiesto?».

«Se penso di dirglielo».

Larissa alza la testa: «E tu?».

Una penna con la scritta del Lamont-Doherty. Ce l’ha da quando erano andati tutti a fare la visita preliminare alla sede della Columbia che Mirko avrebbe frequentato. Lui ci era voluto andare un anno prima degli altri, già con le idee chiarissime rispetto al suo percorso di studi. La laurea a Columbia e poi il PhD in Earth Sciences lì, al MIT o a Stanford. Di Palisades era già innamorato, da ben prima di quella visita al liceo fatta tutti e tre insieme. Ci era stato in campeggio un paio di anni prima con la scuola, ed era tornato entusiasta: «Che posto, papà. Una linea di falesie ripidissime» aveva mimato con la mano, «30 chilometri dall’argine dell’Hudson su per 168 metri. L’osservatorio di Columbia è lì, lo sapevi?».

In campeggio aveva imparato quella canzone terribile, Did you ever cross over to Sneden’s, dal nome antico di Palisades. Sneden’s Landing, gli pare. Non se lo ricorda nemmeno più. La canzone sì. Se adesso non finisse con il preoccupare Larissa, si metterebbe a cantarla in quel falsetto tremendo con cui la storpiava Mirko.

«Cosa le hai risposto, Michele».

Rimette il cappuccio, posa la penna: «Che ne avrei parlato con te».

«E poi?».

«E poi nient’altro. Siamo rimasti che ci risentiamo».

Larissa lo guarda attentamente e Michele sa che non ci crede.

«Non vi siete detti altro?».

«No».

Michele riprende la penna, che si augura gli scarichi l’incertezza dalle dita. Non è mai stato in grado di mentire a sua moglie, figuriamoci adesso, su questo. Ma Larissa abbassa lo sguardo. Strano, pensa Michele. Ma poi capisce, quando Larissa lo rialza, che ci tornerà, e che adesso c’è qualcosa che le preme di più: «Glielo diciamo».

«A Caterina» specifica.

«Non so, Larissa. Non sarebbe meglio sapere qualcosa di più, prima?».

«E cosa?».

Larissa ha uno scatto di impazienza: «Ti ha detto qualcosa di certo, al telefono? Ti ha chiesto il tuo indirizzo per spedirti i documenti che provano la paternità di Mirko? A quanto capisco, non siete venuti a capo di niente. E allora cosa aspettiamo?».

«Senti» dice Michele stringendo la penna, «non credo che sia necessario dirlo a Caterina se poi…».

«La verità, Michele».

Larissa alza la voce, esasperata. E Michele, invece di rispondere all’irritazione, d’un colpo si rilassa. Allenta la presa sulla penna, cerca una voce calma: «Larissa» la guarda con dolcezza, «non crederai alla sciocchezza della verità che libera, spero».

Larissa rimane interdetta.

«Ma come fai a credere ancora a certe cose» continua Michele, «nostro figlio si è ucciso: eccola l’unica verità. Ci ha mai liberati, questa consapevolezza?».

Michele non parla mai così. Con quel disgusto nella voce. È lei che dice le cose con durezza. Lui cerca sempre il modo meno feroce possibile.

«Lasciala andare, Larissa. In questa verità, come la chiami tu, non c’è nessuna liberazione».

Larissa si alza, comincia a radunare le riviste sul tavolino: «Non ti è mai interessato niente di lei».

«No, Larissa. Per questo vedo meglio».

Larissa alza lo sguardo, interrompe un istante il movimento, poi riprende: allinea i giornali con un colpo secco sul piano, li butta nel cesto.

«La verità libera chi se la può permettere. Una come Caterina ci resterebbe schiacciata sotto».

Rimane in piedi, le spalle magre strette nella tensione che le percorre: «Se Caterina sapesse che Mirko ha avuto un figlio e un’altra famiglia» riprende calma, «si scrollerebbe di dosso una volta per tutte quella specie di fedeltà luttuosa».

Michele scuote la testa: «Non è vero».

Larissa è sorpresa.

«Caterina non è come te» continua lui, «se sapesse una cosa del genere, ci affonderebbe dentro, e non ne uscirebbe più. Possibile che tu non l’abbia ancora capito? Lasciala andare. Lasciamole credere che è tutto un errore, che Mirko è stato sempre e solo suo marito. Ci vorrà del tempo, ma poi starà meglio».

Larissa incrocia le braccia sul petto, sospira forte: «Dovrebbe essere lei a decidere».

«Ma non è possibile. Una volta che gliel’abbiamo detto, non c’è modo di tornare indietro».

Larissa tace, scioglie la stretta delle braccia, scuote la testa: «Eppure no, Michele, deve sapere».

«Larissa!» Michele quasi grida, «ma la vuoi vedere o no la realtà? Mirko si è ammazzato. Non ti basta passare ogni ora della tua esistenza a chiederti perché?».

Michele si alza, si avvicina alla moglie che lo guarda immobile.

«Pensi che per Caterina sia diverso? Lei che ce l’aveva vicino ogni giorno? Dirle che quella donna ha chiamato servirà solo a peggiorare una situazione che è già tremenda così».

«Ti preoccupi tanto di proteggerla» aggiunge, «ecco: questo è il modo di proteggerla».

Larissa smette di guardarlo, va alla finestra.

«Cerchiamo di capire bene tu e io» continua lui, «poi, se viene fuori che è tutto vero, ne riparliamo, e se è il caso, troviamo il modo di dirglielo. Non è meglio così?».

Sua moglie rimane ferma, le spalle voltate.

Michele è sicuro che le dispiaccia non avere intercettato la chiamata; se soltanto fosse arrivata prima lei, avrebbe ordinato alla Grosso di provare quel che dice o sparire.

«Vado a fare un giro» dice staccandosi dal vetro.

«Vengo con te».

«No» risponde Larissa sollevando una mano, «no».

Michele si affaccia, ma non riesce a vedere il marciapiede sotto casa. Forse Larissa sta prendendo a sud, attraverso il cortile, verso SoHo. Che detesta, ma le piace passeggiare per la rete di vie intorno alla chiesa di Saint Anthony. Michele guarda il cielo: non minaccia pioggia. È solo vento, contro il quale Larissa è equipaggiata. A Genova se lo andava a cercare, dopo certe bonacce estive, finché non le sembrava di essersi schiarita la testa. Gli lasciava Mirko, che non prendesse tutta quell’aria troppo presto, e partiva verso il molo ad affacciarsi sul mare, come una polena. Una volta gli ha raccontato di essere stata abbordata dal comandante di una nave ormeggiata per la notte. Venga con me, le aveva detto.

«Così?» aveva chiesto Michele.

«Così».

«Senza prima chiederti niente?».

«Mi ha chiesto il mio nome».

«Ti chiamerai come sua madre» aveva scherzato Michele.

«Era turco» aveva risposto Larissa.

Un turco. «Chissà» aveva riso lui, «magari ti avrebbe coperta d’oro».

Larissa aveva appeso il cappotto nell’armadio, dato un’occhiata a Mirko in cameretta.

«Chissà» si ripete adesso. Magari sarebbe stata meglio. È stata male con lui? Con il turco avrebbe forse fatto un figlio felice che a quest’ora sarebbe vivo?

Ecco cosa gli succede quando lui e Larissa si allontanano: inizia a pensare idiozie. Un figlio con un turco che la prima volta che la vede le chiede di scappare con lui.

Sospira, guarda gli alberi del parco. Qualcuno comincia a mettere i germogli, tra poco sarà di nuovo tutto verde. Succede così: un giorno è spoglio, il mattino dopo i ciliegi sono pieni di boccioli.

L’impulso è di andarla a cercare, ma non lo fa. Non la capisce. Non gli piace, questo bene spaventato che le si è sigillato dentro per Mirko. Non fa in tempo a pensarlo che una scarica di pena lo attraversa: anche lei non sa più come vedere le cose. Come vedere suo figlio. Accettare che abbia nascosto una cosa del genere e, forse, che abbia lasciato un pezzo di sé nel mondo senza farglielo sapere. Accettare che sia lei che debba andarlo a pietire. Che non le sia dovuto nemmeno quello. Che suo figlio l’abbia tradita due volte.

«Che altro vi siete detti, oggi?».

L’ha aspettata vigilando, la domanda che arriva quando cominciava a venirgli sonno.

«Vorrebbe che ci incontrassimo».

Larissa lascia cascare il libro sulla pancia, gli occhiali in punta al naso per guardarlo senza perdere tempo: «Scusa?».

Michele la conosce a memoria. Sa che nella lentezza che sta mettendo dentro i movimenti, Larissa tenta di far defluire l’urto della collera. Cerca il segnalibro, posa gli occhiali sul comodino, si tira a sedere diritta contro la testiera.

«Cosa le hai risposto?».

«La stessa cosa che le ho detto per il resto: che ne avrei parlato con te».

Larissa tace. Michele aspetta lo scoppio, ma lei rimane zitta, a fissare la parete di fronte con una tale intensità che Michele si volta a controllare che non ci sia una bestia su per la tappezzeria.

«Che ne pensi?».

Sembra costarle una fatica immane, il movimento della testa verso di lui.

«Non so neppure da dove cominciare a risponderti».

E Michele capisce che c’è una domanda che non deve fare, perché se la fa, sua moglie esploderà in mille pezzi che andranno a conficcarsi uno per uno dentro il suo corpo. Ma sa anche che se non la fa, cominceranno ad affondare.

«Perché?».

In un lampo Larissa stacca gli occhi dalla parete e li precipita su di lui. Spaventosa la violenza che li attraversa e che, troppo potente, lei non riesce a contenere. Michele, con quell’istinto controintuitivo che ci vuole per saltare oltre le fiamme e salvarsi, le prende una mano e la anticipa: «Aspetta. Prima spiegami una cosa. Spiegami perché non ne vuoi sapere niente».

Larissa apre appena la bocca: «Te l’ho già spiegato».

«Che Mirko ti avrebbe detto se avesse avuto un bambino?».

«Ho detto che non è possibile che abbia fatto una cosa del genere, e se anche l’avesse fatta, l’avremmo saputo».

«Solo questo?».

Larissa pare accorgersi adesso della stretta di Michele: sfila rapida la mano dalla sua. Michele sta per continuare, dirle che non deve avere tutta quella paura, ma si trattiene: finirebbero per litigare e poi c’è qualcosa che lo frena, gli dice no, non è il momento, Larissa non capirebbe, si chiuderebbe nel silenzio e sprofonderebbe in una solitudine in cui Michele si è giurato che non sarebbe più finita. Dunque richiude la bocca, guarda il viso alterato della moglie, le sistema una ciocca anche se lei si scosta per non farsi toccare.

«Forse hai ragione tu».

Non ora, si dice. Aspetta.

«Forse hai ragione» ripete, «ci devo solo pensare un po’, magari parlare ancora con lei e capire bene. Una telefonata» si affretta ad aggiungere, «niente di che, solo per chiarire alcune cose. Sarebbe utile a tutti, no?».

Larissa lo scruta, per nulla convinta che sia finita lì.

«Dormiamo, adesso» continua Michele dandole una carezza sul viso, che stavolta Larissa non cerca di sviare, concentrata com’è a capire dove sta la trappola.

«Dormiamo?».

Larissa fa cenno di sì, permette al marito di aggiustarle il cuscino e spegnere l’abat-jour.

Il buio è attraversato da strisce di luce proiettate sui muri dalla strada; il silenzio, dallo sciabordio di sottofondo del traffico. Non c’è mai un buio completo, qui. O un silenzio totale, in cui ascoltare solo ciò che passa nei propri pensieri. C’è sempre un po’ di vita altrui, a volerla ammettere, a farsi distrarre.

Michele sta all’erta seguendo le strisce dei fari che percorrono il soffitto verso la porta della stanza, cogliendo le voci dai marciapiedi, i clacson, una sirena proprio sotto casa. La signora Oppenheimer, pensa per un attimo. Ma no, l’ambulanza sta proseguendo oltre, a est. Michele non ha perciò nemmeno chiuso gli occhi quando Larissa si volta verso di lui nell’oscurità e, senza verificare se stia dormendo, chiede: «Che tipa è?».

«Che ne so».

«Dalla voce».

Sua moglie si solleva su un gomito, non lo lascerà in pace finché non avrà ottenuto una risposta soddisfacente.

«Mi è sembrata una donna calma».

«Calma?».

«Sì, tranquilla. Non si è impappinata, non è andata in confusione. Sicura, ecco».

Michele si stupisce di quel che ha dedotto dalla telefonata. A questo serve aver esaminato centinaia di studenti? Capire se il tuo interlocutore è impreparato?

Larissa torna a coricarsi.

«Ha una bella voce?».

Michele si volta. Una bella voce?

«Non lo so. Mi pare di sì».

«Ti pare di sì» dice Larissa con un tono secco voltandosi verso il muro.

Le ha sempre dato noia quel suo modo di esprimersi: mi pare. Michele aveva cominciato a usarlo dopo aver conosciuto un collega che, premettendo quella formula, riusciva a dire le cose senza offendere nessuno. Un modo rispettoso, aveva pensato Michele adottandolo immediatamente. Una formula vigliacca, sembra urlare la schiena di Larissa contro di lui, quando invece una verità chiara e precisa bisognerebbe saperla dire con fermezza.