8.
È la prima volta che non è lui a guidare in Valle d’Aosta. Non ricorda di essere mai stato accompagnato, nemmeno da Mirko. Dacché suo figlio aveva preso la patente, ci veniva solo. Lo trovavano lì, ad aspettarli con la sua spesa da alpino in dispensa. Formaggio, pane nero, noci, miele. C’era stata una ragazza, un’estate, scappata dopo tre giorni di escursioni e panini. Una, ricorda Michele, che pareva una barzelletta sporca. Lui ne era entusiasta. «Ma non vedi che è scema?» chiedeva Larissa, senza capire che ciò che lo aveva conquistato era proprio quello.
Forse era l’estate in cui Mirko aveva conosciuto Caterina, che ora Michele si volta a guardare nemmeno volesse accertarsi che alla fine suo figlio aveva scelto quest’altra. Torna subito a fissare fuori, sicuro che Larissa abbia intercettato il suo pensiero. Si arrabbiava molto, un tempo. Poi sempre meno. Caterina stava scivolando dalle loro vite. Lentamente, seguendo il ritmo segnato dagli anniversari. A ognuno, un po’ più lontana. Sino a questo. Un cordino tirato anno dopo anno, teso sempre più dal procedere naturale del tempo. Un filo resistente ma finito che prima o poi, a furia di tirare, si sarebbe spezzato. Per tornare a essere i soli a possedere, ad avere diritti e ricordi. Un elastico, invece. L’elastico del loro legame che, arrivato al limite della resistenza, li ha rischizzati uno verso l’altro, e pare non potersi sciogliere mai.
Michele segue il profilo delle vallate che si restringono sopra Aosta, stanco dei pensieri inutili che continua a fare. Quando arrivano, è ora di cena («Fermiamoci a mangiare» ha proposto Larissa) e c’è un sacco di gente in giro. Turisti, probabilmente, o francesi venuti a fare la spesa alla Cidac. Ci passavano sempre anche loro prima di tornare in Liguria per fare scorta di castagne al miele, toma, lardo, salamini, prosciutto alla brace. Pacchetti sottovuoto o avvolti in chilometri di giornale da infilare in valigia insieme al pesto e al parmigiano, sperando ogni volta di non essere saccheggiati in dogana. Gli è andata sempre bene, anche quella volta che Mirko si era portato dalla Toscana tre chili di pecorino e una bottiglia di vin santo, poi centellinata nel corso di un anno. Era prima che finisse il PhD, prima che conoscesse Caterina e decidesse di tornare in Italia. Michele sente un disturbo: possibile che la sua antipatia per Caterina sia roba da donnetta? È perché gliel’ha portato via? No, scende dall’auto, ha a che fare con le speranze disattese, gli anni di studio e il talento sprecato per chiudersi dentro un ufficio della Regione a tirare righe su mappe in disuso.
«Non c’è altro?» aveva chiesto quando Mirko gli aveva parlato di quel lavoro.
«Cominciamo con questo» aveva risposto lui.
In bocca era rimasto l’amaro del rifiuto alla proposta del professore del Lamont-Doherty che avrebbe voluto Mirko con sé, e che Mirko avrebbe sicuramente sostituito un giorno. Sempre che non fosse stato prima preso alla National Science Foundation. Aveva quella stoffa lì, suo figlio, e, anche se era andato a pescare una materia astrusa, era diventato ciò che Michele aveva sempre sperato: un’eccellenza. Finita tra le scrivanie di un’istituzione immobile, che dalla sua superiorità era stata spaventata subito.
«Non sono superiore, papà» rispondeva Mirko abbuiandosi.
«Sei superiore eccome» si arrabbiava Michele, «e dovresti capire la responsabilità della tua fortuna, invece di andare ad ammuffire là dentro».
Ma Mirko non aveva voluto assumere né ricambiare altro che non fosse il suo amore per Caterina, a quanto pareva. O almeno, così avevano pensato sino a cinque anni fa, quando tutto – presente, passato e futuro – aveva di botto travolto ogni convinzione ed era diventato un universo incomprensibile che andava decifrato da capo.
L’aria è fredda e il profumo di pini e asfalto schizza nel primo respiro. Sembra tutto più forte, qui. Su questo, lui e suo figlio erano d’accordo: venire in Valle d’Aosta era come cacciarsi un forcipe nel naso.
Non si aspettava tutta questa gente, ma basta alzare lo sguardo verso la Becca di Nona che avviene quella sorta di astrazione che fa sospendere il tempo di sotto, come lo chiamava Mirko, e badare solo a quello di sopra: il tempo naturale, delle stagioni che si susseguono sulle cime, nella vegetazione più verde, esplosa di colori, o spogliata dal gelo.
Di sopra, lassù dove il naso di Mirko pareva puntare sempre anche da bambino, le cose che scorrono lente, logiche e maestose.
Di sotto, il brulicare trascurabile di chi, come loro, passa senza prestare attenzione.
Michele si volta verso il massiccio del Monte Bianco, che questa sera è illuminato da una luce rosa che porterebbe buoni auspici, se non fosse che è troppo tardi.
L’albergo è appena fuori Aosta. Quando non c’era l’autostrada, il traffico passava tutto di qui e non sembra possibile che questa provinciale orlata di prati abbia potuto reggere il transito infinito dei Tir diretti in Francia. Poco più su c’è il Priorato di Saint Pierre, dove Michele portava Mirko durante la sua fase di assoluta fascinazione per quell’edificio mastodontico. «Ma chi ci vive?» chiedeva Mirko, perché non credeva potesse appartenere a quei quattro religiosi spiumati che gli offrivano sempre una manciata di caramelle alle erbe. Un luogo del genere secondo lui meritava congreghe e segreti, e non si era mai rassegnato all’idea che fosse una sorta di ritiro a pagamento per scout con la chitarra e pellegrini di passaggio.
Michele ha scelto un hotel piccolo di cui ricordava il nome a furia di vederlo sulla strada per Courmayeur. Ha la facciata in pietra e legno, il tetto di lose, un terrazzino sul retro affacciato su un prato di meli. I gestori sono due ragazzi, marito e moglie, che li accolgono al bancone con la cortesia breve dei valdostani cordiali.
«Vi abbiamo dato le stanze di sopra» dicono staccando due chiavi dal pannello, «così state tranquilli».
Nemmeno sapessero quanto sarà importante, stanotte, la quiete di una camera dove sprofondare l’attesa insonne di ciò che arriverà domani.
Anche se tutta questa storia sarà nulla: un errore, una svista incongrua e demenziale che – Michele è tornato a dirsi – svista completa non può essere.